/<1993>/ Sarebbe stata quella l'unica politica accettata dalla Casa Bianca. Era il 21 giugno del 1991. Kucan non disse che quattro giorni più tardi avrebbe sfidato tutte le prudenze, e che per lui era proprio finita con i negotiations. La Carta di Helsinki e altri documenti paneuropei contemplano l'autodecisione, a patto che i cambiamenti siano concordati con la controparte interessata. A questa posizione si è sempre attenuta la troika dei ministri degli Esteri della Comunità europea che faceva la spola tra le future capitali interessate. Gli sloveni trovarono un grande difensore nel ministro degli Esteri austriaco Mock. Non produssero risultati decisivi le puntate in Italia. Peterle, cattolico, sperava in un appoggio democristiano e Rupel, liberale, in quello laico. Nel diario del ministro degli Esteri Rupel, poeta prima di darsi alla politica, il giudizio sui nostri: il più amichevole fu Altissimo, gentilissimo Fanfani, Forlani curioso, Piccoli grande sostenitore dell'indipendenza, Andreotti ascoltava senza esprimersi, Spadolini distratto, De Michelis fermo sul terreno comunitario, contrario all'avventura. Il segretario di Stato vaticano Sodano consigliava la massima prudenza, ricordando che la goccia avrebbe scavato la pietra. Il Papa dimostrò comprensione, ma evidentemente non poté affrontare la questione se non da una prospettiva troppo astratta rispetto alle esigenze immediate dei dirigenti di Lubiana. Della futura guerra si occupava il ministro Janez Jansa, classe 1958, laureato in difesa territoriale; era stato protagonista, poco tempo prima, di un processo politico. Lo accusavano di aver reso pubblici i piani dell'esercito jugoslavo circa una possibile occupazione militare della Slovenia. Fu rilasciato dopo alcuni mesi su pressioni dell'opinione pubblica. Segaligno, ascetico, grande sostenitore del computer. Sul suo personal aveva provato e riprovato una decina di varianti del futuro conflitto, da lui ritenuto inevitabile dopo il plebiscito. Quando l'esercito regolare cominciò alla chetichella a disarmare la difesa territoriale slovena, sorta nel 1968 per paura dell'Urss dopo i fatti di Praga, e a sequestrare le armi, il parlamento sloveno assunse nel settembre del 1990 le competenze sulla difesa. Mentre nessuno poteva ancora pensare a una guerra, Sansa riuscì ad avere i primi finanziamenti dal parlamento di Lubiana, trecento milioni di dinari, per acquistare armi all'estero. Nominò i comandanti delle sette regioni, compilò le liste degli ufficiali di riserva, frenò l'invio dei coscritti sloveni in altre repubbliche. Che cosa può fare ancora un esperto di difesa territoriale? Preparò un piano per impossessarsi dei posti di frontiera, penetrò nei sistemi di comunicazione (durante lo scontro militare i generali jugoslavi poterono ascoltare solo marce funebri, ma non riuscirono a raggiungere i colleghi), stilò l'elenco degli ufficiali serbi che avevano le famiglie in città, potenziali ostaggi. Requisì presso i comuni le mappe topografiche degli acquedotti e delle centrali elettriche per poter staccare, se necessario, la spina alle caserme. Nominò i capipopolo che, in caso di tensione, avrebbero portato la gente ad accerchiare le caserme; trovò informatori tra gli ufficiali di carriera sloveni dell'esercito federale. Tutti questi preparativi rovinarono qualche matrimonio. I Volontari della difesa civile si riunivano di sera. Legati alla parola d'onore, nessuno doveva conoscere il loro pericoloso hobby, nemmeno le mogli. Taciturni per natura, gli sloveni: non si verificò una sola fuga di notizie, benché il servizio segreto dell'esercito serbo stesse molto attento ai movimenti potenzialmente eversivi. I volontari tornavano a casa inventando interminabili partite a carte e le mogli non ci credevano, sospettando avventure galanti. Una specie di albero di Natale in quanto a catene e braccialetti, in due anni da impiegata diventa proprietaria della banca. E' accusata pure lei di riciclaggio e di manovre poco chiare intorno al petrolio e al traffico d'armi. Smentisce, ovviamente. Gli uomini dell'onorevole Raznjatovic le fanno la guardia. La signora organizza feste a suon di maialini allo spiedo, ma è venuto anche per lei il momento di tirare i remi in barca che, data la sua stazza, dovrà essere piuttosto larga. Milosevic invece è un uomo che spesso riesce a trasformare un guaio in potenziale carta politica. Ora si avvolge nel manto del moralizzatore serbo; è così che due ministri finiscono in prigione e i pescecani prendono la via della fuga. Molte vicende oscure, come si è già capito, girano intorno al petrolio. In pieno embargo, i serbi hanno potuto avere, grazie a una mediazione greca, 425.000 barili, quanto basta per coprire il fabbisogno di tre mesi. La flotta alleata che pattuglia l'Adriatico un giorno ferma una petroliera. Appartiene a una società greca, batte bandiera liberiana, l'equipaggio è misto; gli ingredienti giusti per operazioni piratesche. Il capitano comunica che la nave, stravecchia, si trova in panne, che un marinaio a bordo è malato e ha bisogno di cure e che intende procedere verso l'Albania. La polizia del mare lo lascia passare, e la nave, invece che a Durazzo, attracca al porto montenegrino di Bar. La Liberia toglierà all'imbarcazione la bandiera su richiesta della Nato, la compagnia proprietaria sarà esclusa dal mercato americano e pure la nave verrà sottoposta al sequestro. La beffa intanto è consumata. Si sono presi la tangente l'organizzatore serbo che ha inventato il trucco, la compagnia greca che si è prestata, i montenegrini affinché spedissero il greggio verso Belgrado e tanti altri ancora. Mentre finisco di scrivere il capitolo sui pescecani, cominciato il mattino, l'inflazione è già cresciuta del 4 per cento; questa è la media giornaliera. Le sanzioni, che finora potevano in qualche modo essere mascherate, producono a medio termine un effetto corruttore sulla società spinta al collasso. Milosevic se ne rende conto ed è questo uno dei motivi, forse quello centrale, che gli fa indossare oltre alla veste di moralizzatore anche quella di pacificatore. Le sanzioni hanno decimato le esportazioni. La Jugoslavia aveva un suo cavallo di battaglia in un modello semplificato della vecchia Cinquecento, inizialmente su licenza Fiat, prodotta nella fabbrica di Kragujevac. L'auto si chiama «Yugo» ed è venduta o come prima macchina nei Paesi del terzo mondo o come macchina cittadina, date le dimensioni minuscole, nelle metropoli occidentali. Nel 1990 la fabbrica di Kragujevac produceva oltre venticinquemila esemplari al mese; in tutto il 1992 ne ha sfornati tredicimila. Ventimila operai in cassa integrazione si trovano in crescente stato di agitazione. Intanto, chi ha una qualifica fugge. Alle ambasciate occidentali la coda è lunga quasi come davanti alle banche in fallimento. I canadesi smaltiscono fino a cinquecento richieste al giorno. Secondo fonti attendibili sono uscite dall'inizio della guerra da centoventi a duecentomila persone. Tra questi si trova almeno un quinto di tutti i ricercatori scientifici del Paese. In venti anni la scrematura dei cervelli costerà alla Serbia trenta miliardi di dollari, secondo un primo calcolo. L'ex ministro per la Tecnologia Matvejevic, che ora dirige l'istituto per l'informatica, racconta come, dei suoi trecentosessanta esperti, soltanto l'anno scorso ne sono emigrati settantadue. Non esistono rincalzi, ne hanno trovali solo ventisei, meno capaci ed esperti. Gli specialisti in fuga sono, in genere, sulla quarantina, spinti all'emigrazione dalla perdita di illusioni e speranze, dalla mancanza di contatti con l'estero. Erano gli unici disposti a investire dollari veri. Gli altri stanno solo spostando carte e pesi falsi. Infanzia e maturità di un capo A mezzogiorno spara il cannone antico, nella città di Zagabria. Ormai serve soltanto ai cittadini per regolare gli orologi e prepararsi a chiudere bottega. Mille anni di convivenza combattuta tra ungheresi e croati hanno creato qualche rassomiglianza nello sviluppo delle rispettive capitali. Sulla collina la cittadella aristocratica, ai suoi piedi la borgata dei commercianti; le due città sono collegate dalla funivia, a Budapest come a Zagabria, per la gioia dei bambini e la comodità degli anziani. Siccome è domenica, al colpo di cannone comincia una specie di balletto sulla piazza San Marco, tra la chiesa omonima e il pasciuto palazzo del capo, si chiami governatore, viceré, presidente, a seconda del momento, storico. Trenta guerriglieri mimano il cambio della guardia. Sembrano un impasto tra nobile ungherese, soldatino di piombo del Settecento e ufficiale da operetta. Indossano divise rosso sangue con alamari d'oro, al collo il tradizionale foulard blu scuro che tanto piacque quando i croati ancora frequentavano i campi di battaglia fuori casa. La loro foggia fu copiata un po' dappertutto e così da «croatta» nasce la nostra cravatta. Si spostano con un'andatura di danza. Hanno preso a modello alcune movenze dei battaglioni d'élite inglesi, con passi striscianti quanto basta per farne un esercizio complesso e innaturale. Ondulato e da balletto pure il movimento del braccio sinistro. Sul braccio destro ovviamente il fucile. Al suono di tromba e al ritmo di alcuni tamburi, sotto lo sguardo severo di tre ufficiali in uniforme bianca, ancora più carica di alamari, eseguono evoluzioni. Per arrivare dalla posizione sull'attenti a quella di riposo, passano molti secondi con accelerazioni e sapienti rallentamenti, prima che il fucile raggiunga la posizione richiesta. La cerimonia si compie in quindici minuti. Due soldatini freschi prendono il posto dei commilitoni stanchi e il corteo si avvia verso la caserma. Chi li segue vedrà che, dopo un ampio giro per le viuzze storiche, finiranno nella casa accanto alla residenza, dove avevano lasciato poco prima i due colleghi. Alla sera la garitta è sguarnita: il palazzo è solo di rappresentanza, il presidente Franjo Tudzman abita in una villa. La cerimonia è una creazione del coreografo principe di Zagabria, Sparenberg, che alle rudezze predilige le armonie. Per inventare i simboli del nuovo potere, il vecchio generale partigiano Tudzman avrebbe potuto dare l'incarico a un soldato e non a un delicato maestro di balletto. Evidentemente ha voluto risultati opposti a quelli del protocollo marziale dell'ex socialismo realizzato, che conosce fin troppo bene, e lontani dal trionfalismo nazi-ustascia. Tudzman nasce nel villaggio di Veliko Trgovisce, nella pianura che dalle montagne slovene scende verso Zagabria. Da lì viene anche Tito. La sua famiglia si schierò contro i nazisti e i loro servi locali, gli ustascia. Il padre dell'attuale presidente, capo del partito agrario, fu ucciso nel 1946, in circostanze non chiarite, e qualcuno parla di una faida all'interno del regime uscito vittorioso dalla guerra. Un fratello fu ammazzato in battaglia, sempre dagli ustascia. Franjo diventa partigiano a vent'anni. Una carriera veloce, la sua, fino a diventare generale. Pare sia stato per un certo tempo presidente della squadra di calcio del Partizan di Belgrado e persino responsabile dei quadri politici nell'esercito jugoslavo. Sono dati che non figurano nelle ultime biografie, in quanto ambedue le cariche sottintendono una vicinanza non solo alla politica ma anche ai servizi segreti. Antesignano nelle ricerche sulla guerra di popolo, già nel 1957 pubblica un libro dal titolo La guerra contro la guerra. Girò la Serbia, ne raccolse il folklore e pubblicò nel 1814 a Vienna una raccolta di canti slavi. Fu un avvenimento europeo, ricordato da Grimm e Goethe. I serbi purtroppo presero le esagerazioni epiche come fossero oro colato. Il movimento di Karadzic completò la riforma della lingua e risvegliò un sentimento nazionale, un orgoglio per un passato prima ignorato, che divenne programma politico. Nella fantasia prima, nei fatti dopo, il progetto granserbo di Karadzic ebbe la meglio su un inserimento pragmatico europeo di Obradovic. Fenomeni simili, con un'intensità minore, maturavano in tutte le nazioni slave oppresse, dai cechi ai croati, dagli slovacchi agli sloveni. La ricerca linguistica, come la fantasia sul passato, diventa dato politico. In questo contesto la questione bosniaca veniva liquidata con un'agilità superficiale. La popolazione musulmana veniva considerata dai serbi un branco di traditori, che per opportunismo avevano preso gli usi e i costumi degli occupanti turchi: «Gratta un poco e sotto il musulmano troverai un serbo che ha cambiato pelle per poter commerciare meglio». La realtà è più complessa. Solo verso la fine del Settecento, i convertiti all'Islam e i loro discendenti, anche coloro che cambiarono religione per opportunismo, si divisero dai cristiani. Cominciò la sanguinosa polarizzazione degli schieramenti, compreso il desiderio di purezza etnica. L'antenato dei Milosevic di oggi fu un principe-vescovo montenegrino, Danilo, il quale benedì lo sterminio dei musulmani nel Montenegro, ad evitare che potessero contaminare il buon sangue slavo. Pulizie poco pulite Si chiama pulizia etnica. Il nome è nuovo, non la prassi. L'ultima grande migrazione forzata si è avuta intorno alla seconda guerra mondiale. Circa dodici milioni di tedeschi furono spediti all'ovest della Polonia, al loro posto sistemati i polacchi che dovettero lasciare l'Ucraina. Milioni di tedeschi del Volga, cosacchi del Don, tartari, ceceni e tante altre etnie finirono in Asia perché considerate da Stalin collettivamente colpevoli di aver collaborato con gli occupanti. Nelle sue conversazioni a tavola, fedelmente stenografate, Hitler aveva immaginato già nel '42 la nuova carta etnica dell'Europa. I suoi contadini tedeschi sarebbero andati a colonizzare regioni lungo le future autostrade in modo da assicurare il controllo sui territori. Prima avrebbe reso linda la sua nazione, liberandola dall'impuro sangue ebreo. Nel 1933 c'era stata un'altra pulizia ideologica, che finì per diventare etnica, con alcuni milioni di contadini ucraini, refrattari al sequestro della loto terra, trasportati in Siberia e lasciati in mezzo alla taiga innevata senza abiti adatti alle temperature locali. Su scala minore, queste operazioni avvenivano anche nelle nostre vicinanze. Da bambino, nel 1941, abitavo a Lubiana, ricordo le molte notti in cui sotto le nostre finestre passavano lunghi convogli. Dai vagoni bestiame la gente lanciava biglietti con il nome e chi si doveva avvertire. Erano gli abitanti della Carinzia, della Stiria e della Carniola, scaricati dopo alcuni giorni in piena campagna serba. I loro poderi avrebbero dovuto essere assegnati ai tedeschi. L'operazione non fu portata a termine perché presto Hitler avrebbe avuto altre cose di cui occuparsi. Se così non fosse stato, la Germania sarebbe etnicamente arrivata a un centinaio di chilometri dall'Adriatico. Pochi anni più tardi arrivarono a Trieste piroscafi e camion che dall'Istria portavano gli italiani, in un'azione che fu etnico-ideologica, perché chi si riconosceva nel comunismo era benvenuto nella nuova «federativa». Di fronte a un semplice stupro, spesso la famiglia fa quadrato intorno alla vittima; se da qualche montagna spunta il marito, gli tengono nascosta la verità. Ma vi sono racconti in cui la famiglia ripudia la donna, e lei stessa prova per sé disprezzo, sentendosi colpevole mentre è soltanto vittima. E' questo l'aspetto più violento della violenza: sentirsi colpevole senza colpe. Ma è meglio essere stuprata tante volte ancora, piuttosto che subire un altro interrogatorio. Nelle scorribande delle soldatesche lo stupro non è nuovo, basti ricordare la violenza che subirono le donne tedesche da parte dell'esercito sovietico nel 1945. Pure quella fu una vendetta parapolitica tollerata dai superiori per i crimini subiti pochi mesi prima. Nuovo invece è il progetto di pulizia etnica e la costrizione a partorire un figlio imposto con la violenza. Non esistono ordini scritti, ma non esistono nemmeno casi di richiami all'ordine. Nelle confessioni dei soldati emergono accuse contro ufficiali che li avevano costretti a compiere violenza. E qualcuno si scusava con la vittima: «Se non lo avessi fatto, il capo mi avrebbe punito». C'è un parziale precedente storico nella stessa zona e in Bulgaria, nell'Ottocento. Reparti turchi, si chiamavano Basi Bozuk, composti da criminali usciti dalle prigioni, avevano mano libera nel depredare gli sconfitti e violentare le loro donne, perché serbe e bulgare. Truppe anarchiche, dirette tuttavia da ufficiali di carriera che agivano di concerto con l'esercito regolare. Come oggi. Il piccolo Mehmed di Sarajevo racconta divertito che tentava di passare il ponte, oltre il quale c'era la casa di una zia. Un uomo sparava contro di lui e i suoi fratellini. Era proprio il suo maestro di scuola. Ride ancora quando ci pensa. Altri bambini, in viaggio con le madri verso l'esilio, sono stati tirati giù dai camion, uno «zio» mai visto puntava loro la pistola contro le tempie, le madri urlavano, poi gettavano al soldato tutto ciò che avevano, anelli, ultimi soldi. Il bambino risaliva sul camion. Come sono curiosi gli adulti. Un altro scopre che la madre dice bugie. Gli aveva raccontato che il padre aveva perduto una gamba. Lui lo ha visto in sogno, e aveva ambedue le gambe a posto. Un terzo è molto strano. Vuole cercare il padre e devono tenerlo lontano dalla finestra, altrimenti salterebbe dal terzo piano. Gli adolescenti, che già capiscono tutto, saranno incapaci di inserirsi in una vita normale, dicono i terapeuti, che si chiedono quanta tragedia possa sopportare un essere in crescita. Le categorie conosciute e i metodi di riabilitazione usuali sembrano insufficienti per affrontare questi segnati a vita. Non c'è famiglia senza morti a Sarajevo. All'inizio si moriva perché la gente non aveva ancora imparato le regole della sopravvivenza e si fermava a soccorrere un ferito in mezzo alla strada. Poi la morte ha cominciato a decimare gli anziani e i malati e quei bambini che in una bella giornata calma si erano avventurati all'aperto. Un botto improvviso e l'amico accanto era irriconoscibile. Per quei pochi che lavorano, lo stipendio mensile è di circa ottomila lire. I viali, una volta alberati, sono nudi. In inverno il Comune ha permesso agli abitanti di bruciare persino i parquet delle abitazioni. Gli uomini in età da combattere vanno a piedi a raggiungere la trincea. Nelle cantine sono sorte fabbriche artigianali di armi e bombe molotov. L'obitorio, accanto all'ospedale cittadino, ha iscritti nei suoi registri 4662 nomi. Molti i non identificati, sfigurati dalle bombe e privi di documenti. Il direttore dell'obitorio, dottor Hodzic, ha potuto identificare fra gli altri il proprio figlio, due nipoti e alcuni cugini. Lo scrittore sloveno Darko Petan, preannunciando una sua versione sul maresciallo, fu sommerso dalle rivelazioni. Josip sarebbe figlio fra l'altro di un colonnello austriaco, Pavel Broz, già aiutante dell'arciduca Ferdinando, ucciso a Sarajevo. Un semplice sottufficiale non avrebbe mai maneggiato la sciabola come Josip, nel quale si intravedeva la frequentazione di una scuola militare d'élite. Mettendo insieme varie leggende si potrebbe comporre un bell'affresco. Compagno di studi di Hitler, figlio del luogotenente del principe assassinato. Solo un caso o una congiura? Oggi il folklore vince sulla sostanza. La guardia d'onore è stata tolta dalla serra della villa di Belgrado dove Tito è sepolto. Il festival della sua demolizione politica e umana è in pieno corso. La chiacchierata moglie Jovanka rimpiange i bei tempi, bevendo il caffè turco con gli ultimi generali del «suo» periodo, e la guardia sotto il portone di una anonima casa borghese discretamente allontana chi volesse salire le scale. Sono tornati i profughi del 1945 e Tito non sarà amato né dai cetnici né dai nazionalisti delle altre repubbliche. Non lo vedrà di buon occhio il profugo istriano né il dissidente che si è fatto anni di galera. Sarebbe impopolare assegnargli un ruolo positivo. Questo è pure il tempo della relativizzazione, che cancella le differenze tra chi combatteva contro il nazismo e chi lo appoggiava. Si tende a scaricare le colpe per i destini personali falliti sul personaggio ingombrante che ha minato la vita di più di una generazione. Si ricordano soprattutto fatti esteriori che facevano sorridere gli intellettuali, ma suscitavano ammirazione tra la gente semplice. Le innumerevoli residenze: dalla prima sul lago sloveno di Bled all'ultima di Brioni. A Bled aveva cominciato ad abitare la villa reale dei Karadzordzevic, ma gli era sembrata troppo proletaria e vicina alla strada. Si fece costruire un tempio classicheggiante socialrealista. Nei primi anni del dopoguerra l'intero corpo diplomatico traslocava d'estate da Belgrado a Bled, una specie di capitale in trasferta. Con i primi reumatismi che sconsigliavano gli umidi laghi alpini, Tito aveva privatizzato le isole di Brioni. Aveva un giardino zoologico personale e un'officina da falegname dove ritrovava gli odori della gioventù. I capi delle repubbliche facevano a gara nel regalargli castelli prestigiosi, meglio se circondati da una riserva di caccia. Le sue automobili erano maestose, veloci i cavalli; troppi gli anelli, permanente l'abbronzatura, fino in ultimo. Uno scrittore americano che ha potuto osservarlo a lungo da vicino raccontava del suo charme: le donne gli cadevano ai piedi. Cambiava velocemente espressione, abbassava una narice, alzava le ciglia, consapevole, passava dal pensieroso all'allegro, vestito in modo tale da rappresentare l'ideale di ogni sarto. Si muoveva con naturale eleganza e appariva più alto di quanto fosse in realtà. Un bell'uomo, dall'eleganza viennese un po' sorpassata, con una leggera tendenza alla caricatura, specie quando vestiva le sue uniformi fantasiose. Ricordo quando faceva il giro dell'Istria con un Chrusce, in completo grigio deforme e pantaloni tanto tirati sulla pancia da scoprire in basso il calzino corto, grigio pure esso, e sandali, ovviamente grigi e un cappello di paglia bianco. Accanto un ammiraglio, in guanti bianchi, tirato, abbronzato, decorato ed era sempre Tito. Viveva bene e voleva che chi gli stava intorno facesse lo stesso. La corte era un'allegra brigata, regolata dal generale, che da lontano dirigeva il traffico e guardava di malocchio, il giorno seguente, chi tirando notte chiedeva a Tito un ultimo bicchiere: l'anfitrione ne concedeva molti, fino all'alba. Con i giornalisti era cordiale, aveva la semplicità che i potenti spargono intorno sapendo di guadagnarci. Si concentrava sull'interlocutore, facendolo apparire suo pari. Ricordo una serata trionfale. La gente tutto sommato ha un sorriso normale. Il blocco economico e la vicinanza della guerra, persino l'eventualità di un attacco aereo, non producono a prima vista psicosi depressive. L'autista serbo Miscia ha le carte in regola, nei suoi documenti ufficiali siamo menzionati tutti e due. Non sparirò. Sul cruscotto in bella vista il santo San Sava, protettore della nazione. Vicino a lui Slobodan Milosevic, ritagliato da un giornale a colori, con labbra troppo rosse. Al risvolto della giacca di Miscia, la fascia nera. Il fratello è caduto vicino a Luka, non chiedo quale Luka, ce ne sono tante, soldato dell'esercito serbo. Anche Miscia è serbo della Bosnia, parla cento parole di ogni lingua esistente. Ha trascorso quindici anni a Parenzo, in Istria, guida presso il locale ufficio turistico. Ma quando i croati, nuovi padroni, lo hanno retrocesso a portinaio, ha capito che bisognava tornare in Serbia. Negli anni delle vacche grasse aveva acquistato un'automobile, addirittura una Volvo di seconda mano, su cui viaggiamo verso Budapest. «Aveva diciotto anni, mio fratello. L'abbiamo sepolto al cimitero del villaggio.» «Perché porta la foto di Milosevic sulla macchina? Senza la sua politica suo fratello sarebbe ancora vivo.» «Che c'entra Milosevic, magari fossero tutti come lui. La colpa è della Cia.» «Li ha proprio visti quelli della Cia? Come hanno fatto a far litigare il villaggio, la sua Luka? In che lingua parlavano?» Alle domande Miscia risponde con un altro interrogativo: «Mi spieghi allora lei, perché i vicini, da sempre amici, hanno cominciato a spararsi tra di loro? Quelli della Cia odiano noi serbi, perché siamo onesti e coraggiosi». «Ma perché si odiano i vicini?» «Il mio vicino non mi odia. E' venuto al funerale del fratello, abbiamo pianto insieme. Un musulmano, ma buono. Prima della guerra sarebbe venuto da solo, ora si è portato addirittura la moglie e i figli, ha pregato sul corpo di Milan.» «E la Cia allora?» «Che devo dirle? Sarà il diavolo.» Della nebbia dei giorni scorsi non è rimasto più nulla. Nella notte tersa la luna getta ombre sinistre sui campi di neve e nel suo pensiero Miscia insegue il diavolo. Ogni tanto frena, forse lo ha intravisto sotto i cespugli. La strada è libera, non passa un'anima. Soltanto dopo il confine ungherese, la solita fila di camion, con i musi puntati nella direzione serba. Miscia riprende il dialogo: «Ma noi possiamo provocare la guerra mondiale. I nostri missili possono distruggere quella vostra Trieste, arrivare fino a Bucarest. I russi verranno ad aiutarci e così vinciamo». «Ma perché vorrebbe distruggere Trieste? Che cosa le hanno fatto? Là i musulmani sono pochissimi.» «Ma lei capisce o no? Mio fratello è morto e non aveva ancora la fidanzata, non aveva cominciato a vivere.» Arriviamo a Budapest in grande anticipo. Miscia aveva calcolato sette, otto ore, contando sulle code e la strada di ghiaccio, sull'arroganza dei doganieri. Nulla di tutto ciò. L'autista che vorrebbe distruggere mezza Europa è troppo gentile per lasciarmi davanti a un aeroporto che comincerà la sua giornata soltanto tre ore più tardi. Ci inoltriamo nel cuore di Budapest. Troviamo un unico locale aperto, una pizzeria. Il pizzaiolo è zingaro, le cameriere cambiano ogni notte. La pizza gronda di grasso e il gusto di peperone sommerge l'insieme. Domani è Natale. Miscia aveva preso all'ingresso una cartina del centro di Budapest. Il punto rosso indica la pizzeria, non lontano dalla stazione principale, scopriamo dopo: perciò è aperta tutta la notte. Studia la cartina. Dopo avermi accompagnato all'aeroporto, Miscia intende fermarsi qualche ora e guardarsi intorno. Ragiona così. Eric Hobsbawm immagina un extraterrestre che capiti sul nostro pianeta dopo una guerra nucleare. Capirà poco della storia se non si imbatterà, da qualche parte, in un'enciclopedia sottratta all'olocausto, che gli spieghi in modo esauriente il concetto di «nazionalismo», protagonista di due secoli. L'idea dell'appartenenza, inventata da Johann Gottfried Herder, originariamente significava soltanto la gioia di far parte di un gruppo con le stesse abitudini e un medesimo modo di parlare. I complessi di inferiorità di fronte al cosmopolitismo francese spinsero Herder a maturare queste idee. I giovani balcanici, provando la stessa solitudine durante gli studi all'estero, si trovarono in sintonia psicologica. All'incirca nello stesso periodo dell'Ottocento, i pensatori francesi avevano già altre preoccupazioni. Saint-Simon scriveva dell'importanza che avrebbero assunto gli industriali e i banchieri. Non poteva certo includere nelle sue previsioni i complessi d'inferiorità degli studenti balcanici. Fourier inventava le contraddizioni del capitalismo delle quali ancor oggi si parla. Il problema centrale di allora, dice Berlin, erano i grandi imperi. Se fossero spariti insieme al colonialismo, i popoli sottomessi avrebbero potuto realizzarsi in pace e nel rispetto reciproco. E' avvenuto esattamente il contrario, a partire dalla fine della prima guerra mondiale. Qualcuno si consola e considera la fiammata di oggi un ultimo sussulto, la retorica del risveglio. Perché l'industrializzazione procede inarrestabile. L'alta cultura tecnologica non si trasmette nella lingua materna, ma nell'idioma egemone, in questi decenni l'inglese. Ciò richiede uno sforzo di apprendimento che inevitabilmente avvia i popoli a una maggiore omogeneità. Chi cercherà di sottrarsi a questo treno in corsa sarà rimandato in storia e in civiltà. Non ha più a disposizione nemmeno una teoria universalistica, quale poteva essere il comunismo, che prometteva ai popoli in ritardo rapidi esami di riparazione. Chi si oppone al processo resterà su un binario morto. A questa prospettiva terrificante di un mondo a diverse velocità, senza remissione, risponde con fideismo il presidente jugoslavo Dobrica Cosic, fra l'altro grande scrittore, il quale non crede a condanne tecnologiche. L'esistenza storica del popolo serbo rassomiglia a un fiume carsico e molti affluenti contribuiscono alla sua forza. Questo fiume oggi attraversa una fase sotterranea e in superficie affiora solo la palude. Domani riapparirà il fiume, fenderà la pianura, scosterà le montagne. In questa favola mitologica il gap postindustriale non conta, appare volgare. Conta la nazione, non l'idioma inglese. I movimenti che scuotono la scena del postcomunismo confinano nelle categorie dell'altro ieri. In un racconto, un dignitario orientale chiude la moglie infedele e il figlio in una botte che fa gettare in mare. Dopo alcuni giorni il figlio ha voglia di sgranchirsi. Non farlo, dice la madre, affogheremo. Passano i giorni e la voglia diventa irresistibile. Devo stirarmi, almeno una volta e poi succeda quel che deve succedere. Il momento della libertà precede di poco la morte. Il nazionalismo sarebbe un prodotto dell'eccessiva compressione. Un ramo piegato con forza, aggiunge Isaiah Berlin, scatta indietro con violenza quando viene liberato. Da un'altra visuale, l'ondata del nazionalismo potrebbe essere invece l'ultimo colpo di piccone all'edificio razionale dell'illuminismo e dell'universalità.