/<1966>/ Come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere, e come se mai in tutti i miei anni di esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto un'infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo entro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l'acqua mi entrava nelle scarpe. Allora giunse una lettera di mio padre. Riconobbi la calligrafia sulla busta e non l'aprii subito, indugiai in quel riconoscimento, e riconobbi che ero stato bambino, avevo pur avuto in qualche mondo, un'infanzia. Aprii la lettera e la lettera diceva: Mio caro ragazzo, tu sai e tutti voi sapete che sono stato sempre un buon padre, e per la mamma vostra un buon marito, insomma un buon uomo, ma ora mi è successo una cosa, e sono partito, ma voi non dovete giudicarmi male, sono rimasto lo stesso buon uomo che ero, e per voi tutti lo stesso buon padre, un buon amico per la mamma vostra e per di più potrò essere un buon marito per questa, diciamo, mia moglie nuova con la quale sono partito. Figli miei, io vi parlo senza vergogna, da uomo a uomini, e non chiedo il vostro perdono. So di non far male a nessuno. Non a voi che siete tutti partiti prima di me e non alla mamma vostra cui in fondo tolgo soltanto il disturbo della mia compagnia. Con me o senza di me è lo stesso per lei che continuerà a cantare e fischiare nella sua casa. Vado dunque senza rimpianti per la mia nuova strada. Voi non vi preoccupate di soldi o altro. La mamma vostra non avrà bisogno di nulla, riceverà ogni mese, per intero, la mia pensione di ex ferroviere. - Beh, del resto è comprensibile... Siamo un popolo triste, noi. - Triste? dissi io, e guardavo il vecchietto dall'ilare faccino, dai piccoli occhi formicolanti d'ilarità. - Molto triste, - disse il Gran Lombardo. - Lugubre anzi... Sempre pronti, tutti, a veder nero... Io guardavo il faccino del vecchio, nulla dicevo, e il Gran Lombardo proseguì: - Sempre sperando qualcosa d'altro, di meglio, e sempre disperando di poterla avere... Sempre sconfortati. Sempre abbattuti... E sempre con la tentazione in corpo di toglierci la vita. - Sì, è vero, - disse il catanese con serietà E si mise a considerarsi le punte delle enormi scarpe. E io, senza distogliere lo sguardo dal faccino del vecchio, dissi: - Può darsi che sia vero... Ma che c'entra questo con l'andare a fare quel mestiere? E il Gran Lombardo disse: - Credo che c'entri per qualche ragione... Credo che c'entri. Non so come spiegarlo, ma credo che c'entri. Che fa uno quando si abbandona? Quando si butta via per perduto? Fa la cosa che più odia di fare... Credo che sia questo... Credo che è comprensibile se sono quasi tutti siciliani. Poi il Gran Lombardo raccontò di sé, veniva da Messina dove si era fatto visitare da uno specialista per una sua speciale malattia dei reni, e tornava a casa, a Leonforte, era di Leonforte, su nel Val Demone tra Enna e Nicosia, era un padrone di terre con tre belle figlie femmine, così disse, tre belle figlie femmine, e aveva un cavallo sul quale andava per le sue terre, e allora credeva, tanto quel cavallo era alto e fiero, allora credeva di essere un re, ma non gli pareva che tutto fosse lì, credersi un re quando montava a cavallo, e avrebbe voluto acquistare un'altra cognizione, così disse, acquistare un'altra cognizione, e sentirsi diverso, con qualcosa di nuovo nell'anima, avrebbe dato tutto quello che possedeva, e il cavallo anche, le terre, pur di sentirsi più in pace con gli uomini come uno, così disse, come uno che non ha nulla da rimproverarsi. - Non perché io abbia qualcosa di particolare da rimproverarmi, disse. - Nient'affatto. E nemmeno parlo in senso di sacrestia... Ma non mi sembra di essere in pace con gli uomini. Avrebbe voluto avere una coscienza fresca, così disse, fresca, e che gli chiedesse di compiere altri doveri, non i soliti, altri, dei nuovi doveri, e più alti, verso gli uomini, perché a compiere i soliti non c'era soddisfazione e si restava come se non si fosse fatto nulla, scontenti di sé, delusi. Avete imparato a scendere dal treno in corsa, e scendevate davanti alla casa, e io avevo una paura nera che andaste sotto, e vi aspettavo fuori col legno... - E ci picchiavi? - dissi io E mia madre: - Altro che! Non ti ricordi?... Vi rompevo le gambe con quel legno. E anche vi lasciavo senza mangiare, in qualche caso. Si rialzò con l'aringa in mano, tenendola verso la coda, ed esaminandola, da una parte, dall'altra; e io vidi, nell'odore dell'aringa, la sua faccia senza nulla di meno di quando era stata una faccia giovane, come io ora ricordavo ch'era stata, e con l'età che faceva un di più su di essa. Era questo, mia madre; il ricordo di quella che era stata quindici anni prima, venti anni prima quando ci aspettava al salto dal treno merci, giovane e terribile, col legno in mano; il ricordo, e l'età di tutta la lontananza, l'in più d'ora, insomma due volte reale. Esaminava l'aringa, tenendola alta, da una parte, dall'altra, non bruciata in nessun punto, eppure arsa tutta, e anche l'aringa era questo, il ricordo e l'in più di ora. E questo era ogni cosa, il ricordo e l'in più di ora, il sole, il freddo, il braciere di rame in mezzo alla cucina, e l'acquisito nella mia coscienza di quel punto del mondo dove mi trovavo; ogni cosa era questo, reale due volte; e forse era per questo che non mi era indifferente sentirmi là, viaggiare, per questo che era due volte vero, anche il viaggio da Messina in giù, e le arance sul battello-traghetto, e il Gran Lombardo in treno, e Coi Baffi e Senza Baffi, e la verde malaria, e Siracusa, la Sicilia stessa insomma, tutto reale due volte, e in viaggio, quarta dimensione. L'aringa fu pulita, messa in un piatto, cosparsa d'olio, e io e mia madre ci sedemmo a tavola. In cucina, dico; col sole alla finestra dietro le spalle di mia madre avvolta nella coperta rossa e i capelli castani molto chiari. La tavola era contro la parete, e io e mia madre seduti l'uno di fronte all'altra, col braciere sotto e il piatto dell'aringa sopra, quasi colmo di olio. E mia madre mi gettò un tovagliolo, mi allungò un piattino e una forchetta, tirò fuori dal cassetto un grosso pane consumato per metà. - Non t'importa se non stendo la tovaglia? - chiese. - Oh, no, - dissi io. E lei: - Non posso lavare ogni giorno... Sono vecchia ora. Ma sempre nella mia infanzia si era mangiato senza tovaglia, tranne di domenica e festa, sempre mia madre aveva detto che non poteva lavare ogni giorno, ricordavo. Cominciai a mangiare aringa e pane, e chiesi: - Come mai non c'è minestra? Mia madre mi guardò e disse: - Che sapevo che venivi tu? E io la guardai, le chiesi: - Ma io parlo per te. Non ti fai la minestra, per te? - Parli per me? - disse mia madre. - Io non ho mangiato quasi mai in vita mia... Cucinavo per voi e vostro padre. E io: - Perché sì! Non era biondo e con gli occhi azzurri, il nonno? E mia madre: - E' questo un Gran Lombardo? Uno che è biondo e ha gli occhi azzurri? E' facile essere un Gran Lombardo! - Bene, - dissi io. - Forse è facile, forse no... Mia madre si era piantata ferma dinanzi alla tavola, e aveva incrociato le braccia sotto le sue antiche mammelle, mi guardava con occhio un po' strabico, chiusa nella coperta rossa. - E' facile che uno sia biondo e abbia gli occhi azzurri, - disse. - Questo sì, - dissi io. - Ma un Gran Lombardo può non essere biondo. Pensai a mio padre con gli occhi azzurri, non biondo, e come pensavo anche lui una specie di Gran Lombardo, in Macbeth, e in tutte le sue tragedie recitate su tavole di ferrovia, per ferrovieri e cantonieri, dissi: - Può anche essere solo con gli occhi azzurri. - E allora? - disse mia madre. E io pensavo a com'era in effetti il Gran Lombardo, l'uomo del treno che aveva parlato di altri doveri, e mi parve, nella nostalgia di lui, che non avesse occhi azzurri, non fosse che un uomo con molti capelli. - Bene, - dissi, - un Gran Lombardo è un gran capelluto. Aveva molti capelli il nonno? - Molti capelli? - disse mia madre. - No, non ne aveva molti. Aveva molta barba, bianca e bionda... Ma i capelli gli mancavano in mezzo alla testa... Non era un Gran Lombardo! - Ma sì! - dissi io. - Era un Gran Lombardo lo stesso. E mia madre: - Come poteva esserlo se dici che un Gran Lombardo è un gran capelluto? Lui non aveva molti capelli... E io: - Che importano i capelli? Sono sicuro che il nonno era un Gran Lombardo... Doveva esser nato in un posto lombardo. - In un posto lombardo? - esclamò mia madre. - Che cos'è un posto lombardo? E io: - Un posto lombardo è un posto come Nicosia. Sai di Nicosia?... E mia madre: - Ne ho sentito parlare. E' dove fanno il pane con le nocciole sopra... Ma mio padre non era di Nicosia. - Ci sono molti altri posti lombardi, - io dissi. C'è Sperlinga, c'è Troina... Tutti i posti del Val Demone sono posti lombardi. E mia madre: - Ma lui non era del Val Demone. Non era un Gran Lombardo! E io: - Anche fuori del Val Demone vi sono posti lombardi. Aidone non è nel Val Demone, eppure è un posto lombardo. E mia madre: - E' un posto lombardo Aidone? Avevo un orcio di Aidone una volta. Ma lui non era di Aidone. - Di dov'era? - chiesi io. - Suppongo ch'era della Valle Armerina... Di queste parti... C'è un posto lombardo anche nella Valle Armerina. - Era di Piazza, - disse mia madre. - Era nato a Piazza e poi venne qui. E' un posto lombardo Piazza Armerina? Un momento io rimasi zitto, pensai, e poi dissi: No, non credo che Piazza sia un posto lombardo. E mia madre trionfò. - Vedi che non era un Gran Lombardo? - disse. - E invece sono sicuro che lo era! - esclamai io. Non poteva non esserlo! E mia madre: - Ma se non era di un posto lombardo! E io: - Che importa il posto? Anche s'era nato in Cina sono sicuro ch'era un Gran Lombardo... Passammo di dietro alla casa, per una strada che scendeva, e andando tra muri d'orti, arrivammo a una porta e bussammo. La porta si aprì. Dentro era buio, e io non vidi chi ci avesse aperto. Non c'era finestra; c'era solo, nell'alto della porta, uno sportello con un vetro nerastro, e io non vidi nulla, non vidi più nemmeno mia madre. La sentivo però parlare. - Ho con me mio figlio, - disse. Poi chiese: - Come sta vostro marito? - Al solito, Concezione, - rispose una voce di donna. Ed esclamò: - Che grande figlio avete! E dal fondo una voce d'uomo disse: - Sono qui a letto, Concezione. Era sotterranea, e disse ancora: - E' figlio vostro, quello? - E' Silvestro, - mia madre disse. Parlavano lontane da me, tutte e tre le voci, ed erano di creature invisibili. Anche di me parlavano. - L'avete fatto grande come voi! - disse la voce di donna. Mi vedevano ed erano invisibili: erano come spiriti. E come uno spirito mia madre fece l'iniezione, perfettamente al buio, parlando d'etere e di ago. - Dovete mangiare, - disse. - Più mangiate e più presto guarirete. Che avete mangiato oggi? - Ho mangiato una cipolla, - la voce dell'uomo rispose. - Era una buona cipolla, - disse la voce della donna. - Gliel'ho arrostita nella cenere. - Bene, - mia madre disse. - Dovreste dargli anche un uovo. - Domenica gliel'ho dato, - disse la voce della donna. E mia madre disse: - Bene. Dal fondo del buio gridò a me: - Ora andiamo, Silvestro. Io carezzavo caldo pelo di capra davanti a me. M'ero avanzato di qualche passo sull'ineguale terreno di terra nuda e cercando con le mani avevo incontrato caldo pelo, stavo fermo, nel buio freddo, a scaldarmi le mani in quel pelo vivo. - Ora andiamo, - ripeté mia madre. Ma la voce dell'uomo, dal fondo, la trattenne ancora un minuto. - Quante altre iniezioni dovrò fare? - chiese. - Più ne farete e meglio guarirete, - mia madre rispose. - Ne ho altre cinque, però, - disse la voce. E la voce della moglie disse: - Credete che guarirà con queste altre cinque? - Tutto è possibile, - mia madre rispose. Si aprì allora la porta, e mia madre ritornò visibile, con la sua borsa da levatrice infilata nel braccio, sulla soglia. Uscimmo e ritornammo a camminare, tra muri d'orti, verso un'altra casa del giro di mia madre, e svoltammo in una strada che correva sotto alla prima, in discesa. Di faccia c'era, oltre gli spazi della valle, la montagna irsuta di neve; e da un lato erano piccole case che, nei loro orti, sorgevano contro il cielo e la montagna lontana; dall'altro, al sole, splendente e pur spento, erano anditi di abitazioni scavate nella roccia. Ora non si scendeva più lungo il monte di case, si risaliva per un altro fianco, dal fondo del vallone, si andava verso il sole e la musica di zampogne come nuvola o neve, in alto. - Sei mai stata malata, tu? - chiesi a mia madre. - Una volta, - mia madre rispose. - Che fu? - chiesi io. - Non so, - mia madre rispose. - Non volli il dottore e non so che fu... Guarii da sola. - Guaristi da sola? - dissi io. - Sempre speciale, tu... - Speciale? - esclamò mia madre. - Come speciale? - Dico che forse, - io risposi, - pensavi di essere diversa dagli altri. Non è così? - Io non pensavo niente, - mia madre disse. E io chiesi: - Fu mai malato il babbo? - Altro che! - mia madre rispose. - Era malato ogni momento. Aveva la malaria. - Ecco, - dissi io. - Il babbo voleva il dottore. E mia madre: - Altro che! Era come un bambino. Gli veniva il freddo, la febbre alta, si sapeva ch'era la malaria, eppure voleva il dottore lo stesso... E io: - Il babbo era un uomo umile. E mia madre: - Aveva paura. E io: - Era un uomo umile. Ero un po' stanco, la strada era in salita, con un muricciolo da una parte, in quel punto, e mi appoggiai al muricciolo. Avevo viaggiato, dalla mia quiete nella non speranza, ed ero in viaggio ancora, e il viaggio era anche conversazione, era presente, passato, memoria e fantasia, non vita per me, eppur movimento, e mi appoggiai al muricciolo, pensai a mio padre stanco, non Macbeth, non re, coi suoi occhi azzurri. Malato, egli era carico di tutto il dolore del mondo, e accettava di non essere Macbeth, chiedeva il dottore, voleva guarire, era come un bambino. Un uomo è più uomo quando è come un bambino? E' umile, ammette la propria miseria e nella propria miseria grida. E' più genere umano? - Era un uomo umile, in fondo, - dissi di nuovo. Guardai mia madre e ritirai la mano dal muricciolo. - E il nonno non fu mai malato? - chiesi. - Fu molto malato, - mia madre rispose. - Come? - io esclamai. - Anche lui? - Perché no? - disse mia madre. - Fu verso i quarant'anni, io ne avevo sette o otto. - Immagino che non volle il dottore, - dissi io. - No, - disse mia madre. - Guarì da solo... Venne una volta il dottore dei poveri, ma non tornò più, lui non lo voleva. E io: - Per l'appunto! Pensava di essere speciale. E mia madre: - Che storie! Pensava di non essere malato... - Ecco, - dissi io. - Pensava di essere speciale, non potersi ammalare, uno come lui. Era un uomo fiero! Mia madre eresse la schiena e fu fiera. - Certo. Era un uomo fiero, - disse. - E che fu? - io le chiesi. - Un po' di tisi o un po' di malaria? - Ma no! - esclamò mia madre. - Fu molto malato, - disse. - Morì e resuscitò! Questo si chiama drago volante in Sicilia, ed è in qualche modo Cina o Persia per il cielo siciliano, zaffiro, opale e geometria, e io non potevo non chiedermi, guardandolo, perché davvero la fede dei sette anni non esistesse sempre, per l'uomo. O forse sarebbe pericolosa? Uno, a sette anni, ha miracoli in tutte le cose, e dalla nudità loro, dalla donna, ha la certezza di esse, come suppongo che lei, costola nostra, l'ha da noi. La morte c'è, ma non toglie nulla alla certezza; non reca mai offesa, allora, al mondo Mille e una notte dell'uomo. Ragazzo, uno non chiede che carta e vento, ha solo bisogno di lanciare un aquilone. Esce e lo lancia, ed è grido che si alza da lui, e il ragazzo lo porta per le sfere con filo lungo che non si vede, e così la sua fede consuma, celebra la certezza. Ma dopo che farebbe con la certezza? Dopo, uno conosce le offese recate al mondo, l'empietà, e la servitù, l'ingiustizia tra gli uomini, e la profanazione della vita terrena contro il genere umano e contro il mondo. Che farebbe allora se avesse pur sempre certezza? Che farebbe? uno si chiede. Che farei, che farei? mi chiesi. E l'aquilone passò, tolsi gli occhi dal cielo e vidi un arrotino che s'era fermato dinanzi al palazzo. Tutta la strada era in pieno sole aperta sulla valle, e l'arrotino scintillava da più punti di sé e della sua carriola, nero in faccia ai miei occhi abbagliati dalla luce. - Arrota, arrota! - egli gridò alle finestre del palazzo. Stridette la sua voce, beccando vetri e sasso; e io notai ch'era una specie di selvaggio uccello con in testa uno di quei copricapi che si vedono per le campagne in testa agli spauracchi. - Nulla da arrotare? - gridò. Parve ora rivolgersi a me e io lasciai il paracarro, mi avvicinai alla sua voce attraversando la strada. - Dico a voi, forestiero, - egli gridò. Era grande nelle gambe spennacchiate e sembrava in qualche modo appollaiato sul suo cavalletto, mandando la ruota avanti e indietro per prova. - Avete portato niente da arrotare in questo paese? - gridò. La ruota del viaggio ricominciava ormai a muoversi in me, così mi frugai nelle tasche, prima in una poi in un'altra, e mentre andavo a una terza l'uomo continuò: - Non avete da arrotare una spada? Non avete da arrotare un cannone? Io tirai fuori un temperino, e l'uomo me lo strappò di mano, attaccò furiosamente ad arrotare; e mi guardava, nero in faccia come per fumo. Gli domandai: - Non avete molto da arrotare, in questo paese? Ma dov'è l'acqua viva? - Dove ci sono coltelli c'è acqua viva, - l'arrotino disse. - Dove c'è dolore per il mondo c'è acqua viva, - disse l'uomo Ezechiele. Eravamo immersi nella notte, ormai, e le voci si abbassarono, nessuno più avrebbe potuto udirci parlare. Stavamo vicini, con le teste vicine, e l'uomo Porfirio era come un enorme cane nero di San Bernardo che tenesse raccolti tutti e se stesso nel calore del suo pelo. A lungo egli parlò dell'acqua viva; e parlò l'uomo Ezechiele, parlò l'arrotino; e le parole furono notte nella notte e noi fummo ombre, io credevo di essere entrato in un conciliabolo di spiriti. Poi la voce dell'uomo Porfirio tornò alta. - Andiamo. Vi offro un bicchier di vino da Colombo, - egli disse. E tirò giù il panno appeso alla porta, chiuse, ci condusse avvolti nella sua calda corrente per la strada. Solo dentro da Colombo egli acquistò lineamenti e colori. Apparve alto due metri, largo un metro, vestito di pelo bruno, con la testa piena di capelli uno bianco e uno nero, con occhi azzurri, barba castana e mani rosse: veramente un gran cane di San Bernardo dallo sguardo generoso. - Salute, Colombo! - disse entrando. Anche il trabiccolo dell'arrotino entrò con noi, e il locale era rischiarato all'acetilene, e uomini cantavano: «E sangue di Santa Bumbila». Colombo, dietro al banco, era un uomo con un fazzoletto giallo legato alla piratesca intorno al capo. - Olé, - egli rispose. E l'uomo Ezechiele disse: - Vino. Questi signori sono ospiti miei. - Tuoi? - protestò dolcemente l'uomo Porfirio. Io ho invitato tutti. Gli uomini che cantavano erano seduti su una panca contro il muro, senza tavolo davanti, e tenevano piccoli boccali di ferro in mano, cantavano dondolando capo e busto con movimento simultaneo. - Ma io prima avevo invitato loro, - spiegò Ezechiele. - Ecco il vino, - Colombo disse, e mise sul banco quattro boccali colmi. Poi sorridendo soggiunse: - Questo può essere l'invito del signor Ezechiele. E poi ci può essere l'invito del signor Porfirio. - Naturale, - disse l'uomo Ezechiele. Come la prima volta, lo cercai per qualche minuto, a sinistra, a destra, poi vi rinunciai. - E' troppo buio, - dissi. - Già, - lui rispose. E io mi misi a sedere su una tomba, col lume del morto accanto. - Meglio sedersi. - Meglio così, - il soldato rispose. - Tanto più che abbiamo la rappresentazione. - La rappresentazione? - io esclamai. - Che rappresentazione? - Non siete venuto per la rappresentazione? - disse il soldato. E io: - Io non so nulla di rappresentazioni. E il soldato: - Oh, sedete e vedrete... Ecco che arrivano. Io: - Chi sono che arrivano? Il soldato: - Tutti loro, re e oppositori, vincitori e vinti... Io: - Davvero dite? Non vedo nessuno... Il soldato: - Questo è forse per via del buio Io: - Allora perché fanno la rappresentazione? Il soldato: - Debbono farla. Essi appartengono alla storia... Io: - E che rappresentano? Il soldato: - Le azioni per le quali son gloriosi. Io: - Come? Ogni notte? Il soldato: - Sempre, signore. Fin quando Shakespeare non mette in versi il tutto di loro, e i vinti vendica, perdona ai vincitori. Io: - Che cosa? Il soldato: - L'ho detto. E io: - Ma allora è terribile. Il soldato: - E' spaventoso. Io: - Immagino che soffrono molto. Cesari non scritti. Macbeth non scritti. Il soldato: - E i seguaci, i partigiani, i soldati... Soffriamo, signore. Io: - Anche voi? Il soldato: - Anche. Io: - Ma come anche voi? Il soldato: - Anch'io rappresento. E io: - Rappresentate? State rappresentando ora? Il soldato: - Sempre. Da trenta giorni in qua. Io: - Ma non dicevate di giocare col vostro fratello di undici anni? Il soldato: - Sì. E parlo con una ragazza, poto una vite, innaffio un giardino... Io: - O dunque? Il soldato non rispose. - O dunque? - io insistetti. Il soldato rispose: - Ehm! - Ehm? Perché ehm? - gridai io. Di nuovo il soldato non rispose. - Pronto? - io chiamai. - Pronto, - rispose il soldato. Io: - Temevo che ve ne foste andato. Lui: - No, sono qui. Io: - Non vorrei che ve ne andaste. Lui: - Non me ne vado. - Bene, - dissi io. Ed esitai. Dissi bene un'altra volta. Un'altra volta esitai. Un'altra volta dissi bene. Infine chiesi: - E' una brutta cosa? Alzai allora gli occhi sull'ignuda donna di bronzo del monumento. Era una bella donna giovane nelle sue dimensioni due volte il naturale e la sua pelle liscia di bronzo; ben fatta, avrebbe dichiarato mia madre; con gambe, con seni, con schiena, con ventre, con braccia... Era fornita di tutto quello che rende donna una donna, come uscita fresca dalla costola dell'uomo, invero. Aveva anche segnato, oscuramente, il sesso; e lunghi capelli le adornavano, con sessuale grazia, il collo; il volto sorrideva per sessuale malizia, per tutto il miele in lei, e per il suo stare ignuda là in mezzo, due volte più grande del necessario, in bronzo. Mi alzai, e le girai attorno, ad esaminarla meglio. Le andai di dietro, di fianco e poi di nuovo di dietro. Gli amici mi osservavano, e i vecchi mi strizzavano l'occhio, le donne e le ragazze si scrutavan l'un l'altra a capo chino, il Gran Lombardo, grave, si schiariva la gola. - E' proprio una donna, - dissi io. L'arrotino mi si avvicinò, si piantò accanto a me sul piedistallo e alzò gli occhi anche lui. - Sicuro, - esclamò. - E' una donna. Girammo entrambi sul davanti di lei, con gli occhi sempre alzati. Ha il latte, lì, - osservò l'arrotino. E rise. Risero, dai piedi del monumento, le ragazze. Sorrise il Gran Lombardo. - E' una donna, - dissi io di nuovo. Mi allontanai di uno o due passi sul piedistallo, e l'arrotino mi seguì, tutti e due guardammo la donna nel suo insieme. - Non c'è male, no? - l'arrotino chiese. Io gli feci notare il sorriso di lei. E l'arrotino mi diede un colpetto col gomito. - Ah, ah! - disse. La donna stava eretta, con un braccio levato verso il cielo, e l'altro piegato di sopra al petto come per toccarsi l'ascella del primo. Sorrideva. - Sa tutto, - l'arrotino disse. Rise, ai piedi del piedistallo, una ragazza, e l'arrotino soggiunse: - La sa lunga tanto quanto è lunga. - Sa anche di più, - dissi io. - Sa che è invulnerabile. - Davvero? - il mio interlocutore esclamò. - Si capisce, - dissi io. - Sa che è di bronzo. - Ah, ecco! - esclamarono i miei interlocutori. E io continuai: - Lo si vede, no? - Lo si vede, - i miei interlocutori riconobbero. Io scesi un gradino e mi rimisi giù, seduto. Ognuno si allontanò di qualche passo, ognuno sedette. - Questa donna è per loro, - dissi. Tutti assentirono, e io soggiunsi: - Essi non sono morti comuni, non appartengono al mondo, appartengono ad altro, ed hanno questa donna per loro. - Ehm! - aveva detto il soldato. - Non è gentile da parte nostra dedicar loro una donna? - continuai. In questa donna noi li celebriamo. - Ehm! - il soldato aveva detto. - Ehm! Ehm! - E in questa donna, - io continuai, - in questa donna... M'interruppi, e il soldato parlò in me, disse forte: - Ehm!