/<1986>/ Scienza e rivelazione. Galilei fu il primo a porre il problema della scienza in modo pubblico e aperto. A differenza di Kepler e di altri scienziati del suo tempo, che preferivano non sfidare le autorità ecclesiastiche e spesso tenevano segrete le loro scoperte o le rivelavano solo ai colleghi in forma altamente tecnica, Galilei comprese che la verità scientifica non poteva non riguardare tutti gli uomini, l'intera società presente e futura. A ciò lo muovevano due considerazioni. La prima era che la ricerca scientifica, per poter progredire, avrebbe avuto bisogno dell'appoggio di mezzi potenti, dei quali il singolo ricercatore non avrebbe mai potuto disporre; la seconda muoveva dalla sincera fede cattolica del Galilei. Egli lottò disperatamente sino alla fine per evitare che la Chiesa commettesse l'errore gravissimo di condannare, col copernicanesimo, la libera ricerca scientifica; la sua aspirazione era invece quella di porre la Chiesa, facendo leva sulle sue fazioni più aperte e lungimiranti, alla testa del nuovo processo scientifico del pensiero. E' un fatto che la condanna di Galilei bloccò per più di un secolo la ricerca scientifica in Italia, sicché l'Italia perse quel primato della cultura che aveva incontestabilmente detenuto per tutto l'umanesimo e il rinascimento. Alla base di questa lotta stava la convinzione del Galilei secondo la quale scienza e rivelazione non avrebbero mai dovuto né potuto opporsi. La Bibbia, egli diceva, non è un libro di scienza; rivelandosi agli uomini, Dio ha scelto il linguaggio del senso comune. Per questo troviamo ad esempio nella Bibbia frasi che alludono al moto del sole intorno alla Terra. L'intento della Bibbia è quello di rilevare fondamentali verità morali e religiose; in questo campo la sua autorità è prima e somma. Ma nel campo della scienza la sua autorità è l'ultima. E del resto, Dio ha donato agli uomini i sensi e la ragione; ciò è segno che egli ha voluto che gli uomini li usassero per conoscere la natura e comprenderla nelle sue leggi, sollevandosi così ad ammirare la perfetta opera della creazione. Infine, non c'è da temere che seguendo la ragione, dono di Dio, l'uomo possa trovarsi in contrasto con la rivelazione, che pure da Dio deriva. A Galilei sembrava dunque che la Chiesa avrebbe avuto tutto da guadagnare, e nulla da perdere, nel patrocinare la libera ricerca naturale. Alla prova dei fatti, però, la sua opinione risultò nettamente sconfitta. Il metodo sperimentale. Più ancora che per i contributi concreti dati da Galilei all'astronomia, alla meccanica, e via dicendo, egli merita di venir considerato l'iniziatore della scienza moderna per l'atteggiamento metodico che ha guidato il suo lavoro. Il metodo galileiano presenta una sintesi di ragionamento matematico e di sperimentazione concreta. Esso può venire cosi riassunto: 1) osservazione diretta del fenomeno naturale e sua trascrizione in termini geometrico-matematici; 2) elaborazione in termini matematici del problema (la «matematica dimostrazione»), calcolando cioè sulle figure astratte l'ipotetico risultato; 3) preparazione di un «esperimento» che quasi costringa la natura a dare le risposte cercate, verificando, o non verificando, l'ipotesi formulata in astratto. Galilei abbandona pertanto l'ingenuo e confuso naturalismo del rinascimento. Il suo riferirsi all'esperienza non è più vago e generico come in Bacone. A differenza della semplice osservazione induttiva, l'esperimento galileiano (per esempio la costruzione di un piano inclinato sul quale far scorrere degli oggetti sferici, oppure di un pendolo sul quale osservare il fenomeno dell'oscillazione) indirizza il ricercatore alla scoperta delle forze e cause reali che producono il fenomeno indagato, cause e forze concepite in modo meccanico, e cioè quantitativo-matematico e non qualitativo-sensibile. Qualità primarie e secondarie. Galilei è dunque l'iniziatore del cosiddetto meccanicismo. Egli sostiene che «la natura è scritta in caratteri matematici». In altri termini, gli aspetti quantitativi dei corpi sono reali (qualità primarie), mentre gli aspetti qualitativi (colore, sapore, odore, ecc.) sono puramente soggettivi (qualità secondarie). Tolto l'organo senziente, anche le qualità sensibili svaniscono. Contro l'autorità di Aristotele e degli aristotelici (ai quali Galilei contrappone sempre l'autorità della natura), bisogna ammettere che le qualità sensibili sono vaghe e confuse: di esse non può darsi scienza. Noi dobbiamo ridurre i corpi naturali alla figura, alla posizione, al movimento, e cioè alle qualità primarie che rendono possibile la trascrizione matematica e l'applicazione della esatta misura. Questo principio è giustificato dalla convinzione galileiana secondo la quale Dio avrebbe creato il mondo con una mente matematica; la convinzione stessa trova poi conferma nell'esperimento in cui i nostri calcoli e le nostre previsioni si trovano verificate. Ne deriva anche che, seguendo il ragionamento matematico, l'uomo può scoprire le leggi divine della creazione. Ciò che l'uomo conosce matematicamente, lo conosce con la stessa evidenza ed esattezza con le quali se lo rappresenta Dio, sebbene Dio possegga poi una quantità infinitamente superiore di conoscenze matematiche, rispetto a quelle poche che l'uomo riesce, con il suo ingegno, a strappare alla natura. Nel I libro del Saggio sull'intelletto umano Locke affronta la questione delle idee innate e sostiene l) che non vi sono idee innate; 2) che ogni nostra idea deriva dall'esperienza. Questo secondo principio è a fondamento dell'empirismo moderno del quale Locke è considerato l'iniziatore. Che non vi siano idee innate Locke dimostra con vari argomenti. Per esempio, popoli differenti hanno idee diverse circa la morale e la religione; i bambini e gli idioti non mostrano di possedere idee innate, ovvero presenti in loro fin dalla nascita. Né si può dire che una persona abbia un'idea senza saperlo, poiché avere un'idea ed essere coscienti di questa idea fanno tutt'uno. Manifestamente, dunque, gli uomini si formano le idee a seconda della loro esperienza. Più in generale: l'intelletto non possiede idee, se prima i sensi non gli abbiano fornito esperienze sulle quali riflettere. L'intelletto è come un foglio bianco sul quale l'esperienza incide via via le sue note. Coloro che ammettono delle idee innate, pretenderebbero di imporci dei principi in forza di un'autorità che non ammette di venir discussa. La filosofia, invece, deve discutere ogni pretesa autorità e soprattutto deve sforzarsi di mostrare la genesi delle nostre idee, cioè come esse si sono formate in virtù dell'esperienza. L'analisi della conoscenza. Locke distingue le idee in semplici e complesse. Le prime si dividono a loro volta in sensazioni (in quanto derivate dalle cose esterne all'intelletto) e in riflessioni (in quanto rivolte a cogliere le operazioni interiori dell'intelletto). Ora, le idee semplici provengono dall'esperienza; rispetto a esse l'intelletto è del tutto passivo: può riceverle, riprodurle, combinarle, ma non può produrre da sé neanche una sola idea semplice. Le idee semplici, in altre parole, costituiscono i materiali della conoscenza che solo l'esperienza ci può fornire. Le idee complesse derivano invece dalle combinazioni delle idee semplici operate dall'intelletto. Tali operazioni consistono nel combinare, nel comparare e nell'astrarre. Alla prima conseguono le idee complesse di sostanza e di modo; alla seconda le idee complesse di relazione (per esempio causa ed effetto, identità e differenza); alla terza le idee generali del linguaggio che Locke considera (come già Hobbes e prima ancora Occam) segni convenzionali che possono stare al posto delle cose reali ed essere perciò utilizzati nel pensiero e nella comunicazione interumana. La ricostruzione della genesi della conoscenza operata da Locke perviene a risultati nettamente antimetafisici e pertanto modifica profondamente il ruolo tradizionale della filosofia. La filosofia non è affatto una conoscenza di grado più elevato rispetto alle scienze; essa non è in grado di conoscere l'essenza della realtà. Per esempio, la sostanza non è più intesa da Locke come la realtà più vera di una cosa, ciò che permane dietro i continui mutamenti dei caratteri accidentali di una cosa; sostanza è solo un'idea complessa che deriva dal fatto per cui talune idee semplici si presentano sempre insieme, sicché l'intelletto le combina in un'unica idea. Così la sostanza «oro» non è nulla più della combinazione di «giallo», «liscio», «duro», ecc. Il filosofo, allora, non ha una conoscenza «più vera» dell'oro; la conoscenza appartiene invece all'orafo, in quanto questi, in virtù dell'esperienza che fa, conosce meglio le idee semplici, che sono poi tutto ciò che vi è da conoscere in una cosa. In conclusione, la filosofia non ci conduce alla conoscenza di «altre cose» oltre a quelle dell'esperienza; il suo ufficio è invece quello di ricostruire criticamente l'origine e il valore delle nostre conoscenze. Il valore della conoscenza. In che modo possiamo esser certi che le idee del nostro intelletto corrispondano alla realtà in sé delle cose? Locke distingue tre tipi di conoscenza: per sensazione, per intuizione e per dimostrazione. Nel primo caso nulla può garantirci che le nostre idee rispecchino esattamente la realtà, anche se è indubbio che esse sono utili all'azione e ai bisogni pratici della vita. Dobbiamo ammettere però l'esistenza di un sostrato materiale esterno come causa delle nostre sensazioni, poiché nel sentire noi siamo totalmente passivi. Deve dunque esistere una materia esterna che produce in noi le sensazioni. L'intuizione costituisce il modo più certo di conoscere; essa riguarda il caso degli assiomi matematici, o anche il caso della nostra stessa esistenza, la cui evidenza, come già diceva Cartesio, è superiore a ogni dubbio. La dimostrazione riguarda le scienze matematiche (alla cui base stanno le intuizioni di cui già si è detto) e infine l'esistenza di Dio. Poiché io so con certezza di esistere e tutto ciò che esiste esige una causa, bisogna ammettere una causa prima creatrice, che è appunto ciò che noi chiamiamo Dio. Il ragionamento può poi aiutarci anche nel campo sterminato della conoscenza probabile, in cui noi abbiamo a che fare con opinioni più o meno fondate (tale è il campo, ad esempio, della storia). In conclusione, solo tre ordini di realtà possono essere definiti certamente esistenti: la materia (per sensazione), l'io (per intuizione) e Dio (per dimostrazione). Il cristianesimo «ragionevole». La ragione, chiarita nella sua funzione critica dalla analisi lockiana della conoscenza, si pone in certo modo arbitra anche delle questioni religiose e morali (posizione che suscitò contro Locke non poche censure polemiche). I contenuti della rivelazione cristiana sono indubbiamente indispensabili alla fede, ma essi si limitano, se esaminiamo con cura e senza pregiudizi la Bibbia e il Vangelo, a pochi principi ai quali si avvicina spontaneamente il sentimento religioso naturale. Tutte le sottigliezze teologiche sovrapposte a tali principi sono prive di valore, tanto più quando esse contraddicono la ragione e l'esperienza. Il conoscere, cioè, ha a che fare necessariamente con i fenomeni e solo con essi. Ma Hume definiva poi questa «soggettivizzazione» dell'oggetto di conoscenza un fatto psicologico e perciò privo di validità universale. Egli commetteva qui il secondo errore. Le forme del conoscere non sono meri fatti psichici, ma condizioni a priori e trascendentali dell'esperienza. Così, per esempio, la relazione di causa non è un nostro modo arbitrario di connettere le esperienze, ma uno dei modi senza i quali l'esperienza per noi non ci sarebbe (la causalità è infatti una delle dodici categorie dell'intelletto). Non è che noi «travestiamo» psicologicamente i fenomeni connettendoli in maniera causale; è vero invece che la relazione causale è uno dei modi mediante i quali i fenomeni ci si manifestano nell'esperienza. E' perciò universale e necessario che l'esperienza ci si mostri connessa causalmente. Che poi tale connessione non riguardi le cose in sé è ovvio, ma ciò non infirma la nostra possibilità di formulare giudizi universali e necessari sull'esperienza che noi costantemente facciamo. Per questa via si comprende allora anche la legittimità della scienza newtoniana della natura. Le leggi matematiche della natura sono fondate sulle forme a priori del conoscere (il tempo è la condizione della matematica; lo spazio quella della geometria), sicché la fisica cerca nella natura ciò che il soggetto trascendentale (l'io penso) già vi ha messo inconsciamente nell'atto di conoscere la natura. La scienza ha ad esempio ragione di cercare nella natura la causa di determinati effetti; quale sia materialmente tale causa potrà dirlo solo l'esperienza (l'esperimento), ma che ogni effetto debba avere una causa è un principio universale di cui siamo certi a priori, in base all'analisi delle forme a priori del conoscere umano. Tale analisi ci ha infatti insegnato che la relazione causale è una delle condizioni che rendono possibile per noi la conoscenza di oggetti, ovvero il manifestarsi di oggetti fenomenici nella nostra esperienza. La metafisica non è una scienza. L'analisi della ragione consente tuttavia un altro risultato, questa volta negativo. Esso riguarda l'impossibilità della metafisica a divenire una scienza. La metafisica infatti pretende di stabilire, non le leggi dei fenomeni, ma che cosa e come siano i noumeni. In particolare la metafisica vuol sapere se vi sia un'anima e se essa sia immortale (psicologia razionale); se il mondo nella sua totalità sia finito o infinito, libero o necessario, ecc. (cosmologia razionale); infine se Dio esista e come dobbiamo dimostrarlo e pensarlo (teologia razionale). Ora, anima, mondo e Dio sono, secondo Kant, idee della ragione, esse esprimono l'insopprimibile esigenza dell'animo umano di unificare e regolare «finalisticamente» tutti i fenomeni della nostra esperienza. Esse sono dunque idee nel senso di ideali. Ma a tali idee non corrisponde alcuna materia dell'esperienza, alcuna intuizione. Noi non abbiamo alcuna esperienza dell'anima, possiamo solo osservare il nostro io penso impegnato nell'attività di unificare i fenomeni dell'esperienza esteriore e interiore (spaziale e temporale) e cioè impegnato nell'attività di pensarli. Ma che cosa sia l'io penso, indipendentemente dai fenomeni, non lo sappiamo. Così, conosciamo alcune parti del mondo, ma il mondo nella sua totalità, l'universo, non potrà mai per principio entrare in una nostra esperienza, che è sempre condizionata spaziotemporalmente. Infine, tutte le dimostrazioni dell'esistenza di Dio sono illusorie, poiché l'esistenza non è un predicato logico che si possa aggiungere a un soggetto mediante ragionamento: l'esistenza si mostra (nello spazio e nel tempo), non si dimostra. Ma ciò che si mostra nell'esperienza è appunto un fenomeno, un ente contingente, e non un essere necessario quale noi pensiamo che debba essere Dio. In conclusione, la metafisica tratta le idee della ragione come se fossero categorie dell'intelletto. A differenza delle categorie, le idee non danno luogo a conoscenze, poiché non sono forme che ordinano la materia dell'intuizione (non vi è materia a esse corrispondente). Più in generale, il puro pensiero non può giungere a conoscenze. L'uomo non possiede un pensiero intuitivo, capace di darsi da sé i propri oggetti; il pensiero può solo ordinare i dati dell'esperienza in accordo con le categorie dell'intelletto; ma dove non sono dati, non vi è nulla da pensare. Per principio, dunque, la metafisica è una scienza impossibile (e ciò spiega il suo secolare scacco, la sua mancanza di progressi validi). Essa tuttavia risorge sempre come «tentazione» del pensiero, poiché il bisogno di conoscere il noumeno e di dare un senso all'esperienza che trascenda l'esperienza è radicato nel cuore dell'uomo, nella natura del suo sentimento. L'imperativo categorico. L'aver smascherato l'infondatezza delle pretese della metafisica, l'aver dimostrato che i suoi ragionamenti sono puramente sofistici (dialettici) consente tuttavia, secondo Kant, di dare un fondamento alla morale e alla fede. L'uomo agisce in base a imperativi. Essi sono generalmente ipotetici cioè obbediscono alla formula «se vuoi a fai b». Tali imperativi, meramente pratici e utilitaristici, non consentono tuttavia un giudizio morale. Quest'ultimo fa invece valere un imperativo del tutto incondizionato e categorico: esso non propone dei «se», ma esige semplicemente che si compia il proprio dovere senza altro fine se non il dovere per il dovere. La presenza in noi di tale imperativo è, secondo Kant, un fatto di ragione; noi, cioè, ce ne troviamo forniti di tatto, come dimostrano i nostri giudizi morali. Ciò significa allora che l'imperativo categorico pretende che noi agiamo come se fossimo liberi, cioè non condizionati dal mondo. Alla materia di Aristotele, come pura indeterminazione, Telesio sostituisce un concetto di materia intesa come concreta massa corporea. Al concetto di forma sostituisce il concetto di forza. Forza e materia sono i principi basilari di ogni realtà naturale; essi corrispondono al caldo (forza dilatante che trasmette il movimento) e al freddo (forza condensante che trasmette l'immobilità). Caldo e freddo si trovano poi massimamente concentrati nel sole e nella terra. La terra è sì immobile e al centro dell'universo, ma non per i «ragionamenti» in base ai «luoghi naturali» avanzati da Aristotele ma per le ricordate qualità del freddo. Il naturalismo telesiano, il suo ricorso al concetto di forza, abolisce ogni concezione finalistica della natura: non ci sono cause finali, ma solo forze che agiscono meccanicamente. Questo modo di pensare ha avuto una straordinaria importanza per la nascita della moderna scienza della natura. Il caldo non è soltanto principio di movimento, ma anche di conoscenza. Il calore corrisponde allo spirito vitale che in ogni corpo è connesso al sentire, e poiché non vi è corpo che non possegga una sia pur minima quantità di calore, ne consegue che tutte le cose sentono, reagiscono all'ambiente circostante e così, in qualche modo, lo «conoscono». Si parla pertanto di panpsichismo telesiano. Nell'uomo poi la sensazione si trasforma in percezione e in intelligenza, cioè nella coscienza delle nostre modificazioni sensoriali e nella capacità di riflettere razionalmente su di esse. Anche l'anima dell'uomo è spiegata da Telesio naturalisticamente; egli tuttavia ammette una seconda anima, immortale e incorporea, infusa direttamente da Dio, come vuole la fede. Questa aggiunta posticcia al naturalismo del De rerum natura non impedì tuttavia la condanna di questo libro da parte dell'Inquisizione. Bruno e Campanella. Erasmo, Lutero, Calvino. Il movimento umanistico condusse un'ampia battaglia per il rinnovamento della chiesa, sovente anticipando temi e atteggiamenti che in seguito saranno propri della Riforma protestante. Questo atteggiamento è massimamente esemplificato dall'opera di ERASMO DA ROTTERDAM (1469-1536) il quale, nell'Elogio della follia, critica il formalismo logico della scolastica ed esalta invece la forza vitale della passione e dell'amore. Come altri umanisti, Erasmo mira a liberare il cristianesimo dalle incrostazioni dogmatiche del medio evo. Basandosi sulla filologia, anziché sulla dialettica e sul principio di autorità, Erasmo pubblica varie revisioni critiche del Nuovo Testamento e dei testi dei principali padri della chiesa (Girolamo, Ambrogio, Agostino), suscitando le ire delle autorità ecclesiastiche che misero all'indice i suoi scritti. Del resto Erasmo non lesinava critiche e sarcasmi alla corruzione del clero, alla politica di potenza e di mondana magnificenza dei papi, alle vacue sottigliezze dei teologi che riducevano le verità della fede a un mero formulario e al formalismo delle pratiche esteriori. Ben più radicale fu però l'opposizione ispirata da MARTIN LUTERO e culminata con la scomunica comminata dalla chiesa nel 1520 al monaco agostiniano ribelle, e poi ratificata nel 1522 alla Dieta di Worms. Già nel 1519 Lutero aveva chiesto a Erasmo un'esplicita dichiarazione a favore della Riforma, ottenendone però un rifiuto. Poi Erasmo criticò il concetto luterano di «grazia» con lo scritto De libero arbitrio, al quale Lutero rispose col De servo arbitrio; l'umanesimo e la Riforma entravano così in violenta polemica. A dividerli non era solo l'interpretazione del concetto di grazia (per la quale i luterani ritenevano che l'uomo non è in grado di salvarsi con le sue buone azioni: solo la fede nell'intervento provvidenziale di Dio può salvare l'uomo e redimerlo dal peccato di Adamo; la stessa funzione mediatrice della chiesa viene vanificata: ad essa si sostituisce il libero esame del singolo fedele e la sua personale interpretazione delle Sacre Scritture); per di più gli umanisti non potevano accettare l'ispirazione misticheggiante, di stampo medievale, dei luterani e il loro ripudio della cultura pagana (poi in parte mitigato dal collaboratore di Lutero, MELANTONE). Al radicalismo luterano si aggiunse, vieppiù esasperandolo, quello di CALVINO, impostosi dapprima a Ginevra e poi diffusosi variamente in Europa. I calvinisti imitarono il rigore dei tribunali dell'Inquisizione cattolici elevando a loro volta processi e roghi contro gli «eretici». Sebbene Lutero criticasse duramente il fanatismo calvinista, tuttavia il calvinismo si impose successivamente a larghi strati della borghesia europea per la sua esaltazione del lavoro e dell'iniziativa privata; il successo economico era infatti assunto dai calvinisti come un segno del possesso della grazia divina e della predestinazione alla salvezza. Il calvinismo è dunque una delle grandi forze spirituali che stanno alle origini del fenomeno moderno del capitalismo. Le contese religiose, esplose nel '500, provocarono nel '600 una serie di guerre di religione fra protestanti e cattolici (questi ultimi passati alla controffensiva sulla base della controriforma sancita dal concilio tridentino). Anche la cultura, e la filosofia in particolare, risentirono di questo clima acceso e drammatico.