/<1992>/ "Nemmeno lontanamente." "Però lo sono. Soltanto, sono molto di più. Vieni con me." "Per favore, Gabe." "Tu ci vuoi andare. Lo so. Rimani soltanto per Lawler." "Rimango per me," obiettò Sundira. "Non è così. Lo so. Quel bastardo ti fa pena. Non lo vuoi abbandonare." "No, Gabe." "Dopo mi ringrazierai." "No." "Vieni con me." "Gabe... per favore..." Nella sua voce s'insinuò all'improvviso un tono di dubbio, di debolezza, che colpì Lawler con la forza di una mazzata. Saltò sul ponte dove si trovavano. Sundira rimase senza fiato dalla sorpresa e indietreggiò. Kinverson rimase dov'era, guardando Lawler con calma. Gli arpioni erano nella loro rastrelliera. Lawler ne afferrò uno e lo distese davanti a sé, praticamente all'altezza del viso di Kinverson. "La lasci in pace." L'omone guardò l'attrezzo affilato con divertimento, o forse con sdegno. "Non le sto facendo niente, dottore." "Sta cercando di sedurla." Kinverson rise. "Non ci vuole molto per sedurla, vero?" Lawler udì se stesso emettere un tonante verso di furore. Era tutto ciò che poteva fare per trattenersi dal conficcare l'arpione nella gola di Kinverson. Sundira lo implorò: "Vai, per favore, stavamo solo parlando." "Ho sentito di che cosa parlavate. Sta cercando di convincerti ad andare al Volto. Non è così?" "Non lo nego," confermò disinvolto Kinverson. Lawler brandiva l'arpione, consapevole di quanto la sua collera dovesse sembrare comica a Kinverson, e petulante, e stupida. Kinverson giganteggiava su di lui, ancora minaccioso nonostante la sua nuova gentilezza, invulnerabile, invincibile. Ma Lawler doveva andare fino in fondo. Con voce tesa disse: "Non voglio che le parli ancora, prima che partiamo." Kinverson sorrise amabilmente. "Non cercavo di farle del male." "Lo so che cosa cercava di fare. Non glielo permetterò." "Non dovrebbe essere Sundira a decidere?" Lawler la guardò. Lei disse sommessamente: "Va tutto bene, Vai. Posso badare a me stessa." "Sì. Sì. certo." "Mi dia quell'arpione," disse Kinverson. "Potrebbe farsi male." "Stia indietro!" "E' il mio arpione, lo sa. Non è affar suo agitarlo in giro." "Stia attento," esclamò Lawler. "Se ne vada. Vada via dalla nave. Torni al Volto. Se ne vada, Gabe. Lei non appartiene a questa nave. Nessuno di voi. Questa è una nave per gli umani." "Vai," disse Sundira. Lawler teneva saldamente l'arpione, reggendolo come se fosse un bisturi, e fece un passo o due verso Kinverson. La forma voluminosa del pescatore si sollevò più in alto. Lawler respirò a fondo. "Se ne vada," ripeté. "Torni al Volto. Salti, Gabe. Lì, oltre il parapetto." "Dottore. dottore, dottore..." Lawler sollevò l'arpione e lo spinse in avanti con un colpo breve e forte, verso il diaframma di Kinverson. Avrebbe dovuto conficcarsi nel cuore, ma il braccio di Kinverson si mosse con incredibile rapidità. La mano prese l'asta dell'arpione e la girò, e il braccio di Lawler, per tutta la sua lunghezza, fu invaso dal dolore. Un attimo dopo l'arpione era nella mano di Kinverson. Automaticamente Lawler incrociò le braccia davanti a sé per ripararsi dal colpo che sapeva sarebbe arrivato. Kinverson lo studiò come misurandolo. Falla finita, maledetto, pensò Lawler. Adesso. Svelto. Poteva quasi sentirlo di già, che penetrava violentemente, e i tessuti che si dividevano, la punta acuminata che raggiungeva il cuore, dentro la gabbia della costole. Ma non ci fu nessun colpo. Con calma Kinverson si chinò in avanti e lasciò cadere l'arpione nella rastrelliera. "Non dovrebbe disturbare l'equipaggio, dottore," disse con gentilezza. "Adesso mi scusi. Devo lasciare soli lei e la signora." Si voltò, passò davanti a Lawler e scese per la scaletta sul ponte di coperta. Adesso Lawler era solo sul ponte. Si rese conto che avrebbero anche potuto chiudere il boccaporto e lasciarlo là fuori. Diede un'ultima occhiata all'ondata e corse giù. Di sotto, tutti tranne Henders e Delagard erano raggruppati nel corridoio di accesso alle cabine, facendosi coraggio contro l'impatto imminente. Kinverson sbatté il portellone del boccaporto dietro di sé e lo inchiavardò. Dalle profondità della nave si sollevò uno strano rumore stridente. Proveniva da poppa. "Sta entrando in funzione il magnetron," disse Sundira Thane. Lawler si voltò verso di lei. "Ha già sperimentato una cosa simile, prima d'ora?" "Fin troppo spesso. Ma questa non sarà un gran che." Il suono stridulo aumentò. Il magnetron mandava verso il basso un raggio che premeva contro la massa di ferro fuso al centro del pianeta e forniva una leva in grado di sollevare la nave di un metro o due sopra l'acqua, o anche di più se necessario, quel tanto che le permetteva di evitare la violenza dell'ondata. Il campo di spostamento magnetico era uno dei ritrovati di supertecnologia che gli umani di Hydros erano riusciti a portare con sé dai mondi della galassia. Dann Henders una volta aveva detto che un mezzo potente come il magnetron avrebbe potuto avere altre applicazioni, molto più utili ai coloni che tenere a galla i traghetti di Delagard sui mari turbolenti, e molto probabilmente Henders aveva ragione, ma Delagard teneva i magnetron chiusi a chiave sulle sue navi. Erano sua proprietà privata, le gemme della corona dell'impero marittimo di Delagard, il fondamento del patrimonio di famiglia. "Adesso siamo in alto?" chiese Lis Niklaus, evidentemente a disagio. "Quando lo stridio finisce," disse Neyana Golghoz. "Ecco. Adesso." Ci fu un gran silenzio. La nave galleggiava proprio sopra la cresta dell'onda. Solo per un momento: il magnetron, per quanto potente, aveva i suoi limiti. Ma un momento era sufficiente. L'onda passò e la nave si adagiò dolcemente sulla sua sommità. Poterono scorgere gli innumerevoli componenti della cosa che ondeggiavano e giravano vorticosamente, assorti nei loro compiti individuali: un gruppo di organismi batteva l'acqua come remando; altri pescavano, altri ancora fluttuavano lungo i bordi, servendo da stabilizzatori per tutto il vasto organismo mentre si muoveva maestoso per il mare. Quando la nave si avvicinò, dalla creatura spuntarono diverse decine di strutture simili a tubi alti un paio di metri, che si sollevarono come spessi e lucidi comignoli sopra la superficie dell'acqua. "Che cosa pensate che siano quelle cose?" chiese padre Quillan. "Apparati visivi?" suggerì Lawler. "Una specie di periscopio?" "No, guardate, adesso c'è qualcosa." "Attenti!" gridò Kinverson dall'alto. Lawler si gettò a terra. Sembrava un largo pezzo di sterco tremolante. Ne atterrarono una mezza dozzina e ogni momento ne arrivavano altri. "Cazzo. Cazzo! Cazzo!" tuonò Delagard. "Questa roba sta bruciando il ponte. Secchi e badili! Secchi e badili! Virare di bordo! Virare di bordo, Felk! Ci porti al diavolo, fuori di qua, accidenti a lei!" Il ponte sfrigolava e fumava là dove i grumi lo stavano divorando. Felk, al timone, lottò per sottrarre la nave al bombardamento, spostandola e manovrandola a zig-zag con uno zelo frenetico. Sotto i suoi comandi la squadra di turno armeggiò con le drizze, fece ondeggiare i pennoni, cambiò la posizione delle vele. Lawler, Quillan e Lis Niklaus si affannavano sul ponte, sollevando con i badili i morbidi proiettili corrosivi e ributtandoli fuori bordo. Scure tacche carbonizzate rimanevano ovunque uno dei grumi acidi avesse toccato il legno giallo chiaro delle assi. La creatura, ormai lontana, continuava a lanciare i suoi missili verso la nave con metodica, irragionevole ostilità, anche se adesso i proiettili cascavano innocui in mare. Niente di molto impegnativo. Neyana Golghoz aveva una vescica al ginocchio; Leo Martello si era scottato le spalle al sole; padre Quillan si era procurato un'ammaccatura al gomito cadendo dalla cuccetta. Quando ebbe finito con queste cose, Lawler fece le regolamentari chiamate via radio alle altre navi per vedere se si fossero imbattute in qualche problema di ordine medico. Verso mezzogiorno si diresse di nuovo sul ponte per prendere un po' d'aria. Nid Delagard, proprietario della flotta e capo della spedizione, stava conferendo con il capitano della nave ammiraglia, Gospo Struvin, appena fuori della timoniera. Ben presto per tutta la lunghezza della nave si propagò la loro risata. Erano della stessa pasta, quei due: tarchiati e con il collo taurino, ostinati e blasfemi, colmi di rauca energia. "Ehi, dottore, li ha visti i drakken, stamattina?" gli si rivolse a gran voce Struvin. "Com'erano dolci, vero?" "Sì, proprio carini. Che cosa volevano da noi?" "Tenerci d'occhio, immagino. In questo oceano non si può fare molta strada senza che arrivi l'uno o l'altro a curiosare. Più avanti andremo, e più animali selvatici ci verranno a far visita. Guardi là, dottore, a dritta." Lawler seguì con lo sguardo la mano puntata del capitano. Appena sotto la superficie era visibile la sagoma gonfia e vagamente sferica di una creatura immensa. Era come una luna caduta dal cielo, verdognola ed enorme e tutta butterata. Dopo un momento Lawler vide che i buchi erano in realtà aperture rotonde, simili a bocche, disposte l'una accanto all'altra sull'intera superficie della sfera, che si aprivano e chiudevano instancabilmente. Un migliaio, forse. Una miriade di lingue bluastre erano tutte affaccendate a saettare fuori e dentro, fuori e dentro, come fruste che flagellassero l'acqua. La cosa non era altro che un'infinità di bocche, una gigantesca macchina divoratrice galleggiante. Lawler la guardò disgustato. "Che cos'è?" Ma Struvin non era in grado di darle un nome. Nemmeno Delagard. Era soltanto un anonimo abitante del mare, orribile, mostruoso, la personificazione galleggiante dell'orrore, che si aggirava nelle vicinanze per vedere se il piccolo convoglio offrisse qualche cosa che valeva la pena di ingerire. Rimase lentamente indietro, mentre le bocche continuavano incessantemente a masticare. "Suppongo di sì." "Assalito da pensieri importanti, dottore?" "Non proprio. Solo pensieri." Non aveva certo intenzione di dirle ciò che gli era passato per la mente pochi momenti prima. "Cercavo di convincermi ad accettare la prospettiva di andarmene da qui," disse, improvvisando rapidamente. "Di dovermene andare di nuovo in esilio." "Di nuovo?" chiese lei. "Non capisco. Perché di nuovo? Ha dovuto lasciare qualche altra isola, prima di questa? Pensavo che fosse sempre vissuto su Sorve." "Sì. Ma questo per tutti noi è il secondo esilio, non è vero? Intendo dire che già i nostri antenati sono stati esiliati dalla Terra. E adesso noi siamo esiliati dalla nostra isola." Lei si girò di botto a fronteggiarlo. Sembrava sconcertata. "Non siamo stati esiliati dalla Terra. Su Hydros non c'è nessuno che sia nato sulla Terra. La Terra è stata distrutta cento anni prima che i primi umani arrivassero." "Non importa. All'origine noi proveniamo tutti dalla Terra, se lei risale al punto di partenza. E l'abbiamo perduta. E' una specie di esilio. Intendo tutti quanti, tutti gli umani che vivono su tutti i mondi dello spazio." All'improvviso le parole gli sgorgarono senza difficoltà. "Guardi, un tempo mio padre ci diceva sempre che la Terra era un luogo tremendamente meraviglioso, un luogo di miracoli, il pianeta più bello che sia mai esistito. Un giardino, diceva. Un paradiso. Forse lo era. Alcuni dicono che non era per niente così, che era un posto tremendo. Ma la Terra era la nostra patria, e noi ce ne siamo andati via e la porta si è chiusa per sempre dietro di noi." "Io alla Terra non ci penso mai," disse Sundira. "Io sì. Tutte le altre razze della galassia hanno una madrepatria, e noi no. Noi dobbiamo vivere sparpagliati per centinaia di mondi, cinquecento di noi qui, mille là, insediati in strani posti. Tollerati, più o meno, dalle varie creature aliene." Non avevano una particolare predisposizione per la tecnologia, in confronto ad altre specie galattiche intelligenti. Doveva essere stato qualche genio eccezionale spuntato fra loro ad aver avuto l'idea. Genio o no, comunque, si diceva che avessero avuto dei grossi problemi per farla funzionare, e doveva ancora produrre il primo watt. La maggior parte degli umani si chiedeva se ci sarebbero mai riusciti. Sarebbe stato tutto molto più semplice e più rapido per i palmut, pensò Lawler, se avessero lasciato che Dann Henders o qualcun altro degli umani con conoscenze di ingegneria si fosse interessato al progetto. Ma naturalmente loro non avevano l'abitudine di chiedere consigli agli stranieri indesiderati con cui dividevano malvolentieri la loro isola, nemmeno se ciò per loro si fosse trasformato in un vantaggio. Avevano fatto un'eccezione solo quando un'epidemia di cancrena alle pinne stava decimando i loro giovani e il padre di Lawler era nobilmente corso in loro aiuto con un vaccino. Ma era una storia di molti anni prima, e per quanti benefici avessero procurato ai palmut i servizi dello scomparso dottor Lawler, ora essi sembravano svaniti nell'aria, senza lasciare dietro di sé nessuna conseguenza apparente. La mancata attivazione della centrale era un ostacolo al grande piano che era venuto in mente a Lawler quella notte. E adesso? Andare a parlare lo stesso con loro? Tenere un fiorito discorsetto, ungere i palmut con un po' di nobile retorica, seguire il visionario impulso di quella notte prima che l'alba gli sottraesse quel minimo di plausibilità che poteva avere? "A nome dell'intera comunità umana dell'isola di Sorve io, figlio del compianto dottor Bernat Lawler che si è messo così egregiamente al vostro servizio all'epoca dell'epidemia di cancrena, desidero congratularmi con voi per l'imminente realizzazione del vostro ingegnoso e magnifico... Anche se il completamento di questo splendido sogno richiederà ancora qualche giorno, sono venuto da parte dell'intera comunità umana dell'isola di Sorve per esternarvi la nostra più profonda gioia di fronte alle importanti conseguenze che questo successo avrà per la qualità della vita sull'isola che dividiamo insieme... "Senta," continuò Lawler, "io non ho pensato nemmeno per un istante che questa città magica esistesse. Anch'io parlavo con questo Jolly, e mi è sempre sembrato un po' picchiato. Ma anche se quel posto è proprio dietro l'angolo, lungo la costa, noi non possiamo invaderlo. I palmut ci spazzerebbero via in cinque minuti." Si avvicinò ancora al prete." Mi ascolti, padre. Ciò che noi dovremmo fare, in realtà, è rinchiudere Delagard e andarcene di qua. Lo pensavo già settimane fa, e poi ho cambiato idea, ma adesso vedo che all'inizio avevo ragione. Quell'uomo è uno squilibrato e per noi qui non c'è niente da fare." "No," disse Quillan. "No?" "Delagard può essere squilibrato, come dice lei, e i suoi progetti una pura follia, ma io non appoggerò nessun tentativo di interferenza. Proprio l'opposto." "Lei vuole continuare a ficcare il naso in giro per il Volto, incurante dei rischi?" "Sì." "Perché?" "Il perché lo sa." Lawler rimase in silenzio per un attimo. "Lei continua a pensare che quella è la terra degli angeli? Degli dei?" "In un certo senso, sì." "E continua a pensare di potersi procurare una sorta di redenzione, quaggiù?" "Sì." "Una redenzione ottenuta come? Con luci e frastuono?" "Sì." "Lei è più folle di Delagard." "Posso capire perché lei la pensa così," osservò il prete. Lawler rise rauco. "Posso proprio immaginarla, mentre marcia accanto a Delagard nella città sottomarina dei superpalmut. Lui porta un arpione e lei una croce." "Che cazzo. datemi quel pesce crudo!" Lawler gli passò il vassoio. Tharp infilzò una fetta con la forchetta, la esaminò come se non avesse mai visto prima un pezzo di pesce crudo, e alla fine ne morse un pezzetto, per provare. Lo rigirò in bocca con la punta della lingua, lo ingoiò, ci pensò sopra. Poi ne prese un altro morso. "Ehi" disse. "Non è per niente cattivo." "Che coglione." disse ancora Kinverson. Ma stava sorridendo. Quando il pasto fu terminato tutti salirono in coperta per il cambio di turno. Henders, Golghoz e Delagard, che erano su in alto fra il sartiame, scesero, e Martello, Pilya Braun e Kinverson presero il loro posto. Lo splendore della Croce tagliava il cielo in quarti. Il mare era così fermo che vi si poteva scorgere il suo riflesso, come una linea perfetta di fuoco bianco che si stendesse sull'acqua, allungandosi fino alle lontananze più misteriose, dove sfumava e si perdeva. Lawler si fermò presso la balaustra e guardò indietro, verso i punti che segnalavano la presenza delle altre cinque navi in formazione dietro di loro. Là c'era Sorve, proprio laggiù, sull'acqua, l'intera comunità. Quando si faceva buio, ogni nave montava delle luci lungo i parapetti, lunghe torce di alghe essiccate che bruciavano lentamente, producendo una luce arancione. Ogni nave aveva la propria attrezzatura radio e il contatto radio era costante, per paura che qualcuna si perdesse. "Arriva la brezza!" gridò qualcuno. "Lasciar andare la vela di prua!" Lawler ammirava l'arte di girare le vele per cogliere il vento. Desiderava capirci un po' di più. Navigare gli sembrava qualcosa di magico, un mistero arcano e sconcertante. Non facevano l'amore da prima della notte della patella, ma Lawler non sentiva nessun desiderio sorgere in lui mentre la toccava, nemmeno nei posti più intimi. Sundira lo notò. Lawler sentì che le si tendevano i muscoli, sotto le sua dita che strofinavano e tastavano. Si teneva sulle sue, adirata. Alla fine disse: "Mi stai maneggiando come un pezzo di carne, Val." "Sono un medico che cerca di prendersi cura di una paziente che è piena di brutte vesciche dappertutto." "Questo è tutto ciò che sono per te?" "In questo momento sì. Pensi che sia una buona idea, per un medico, mettersi ad ansimare ogni volta che tocca il corpo di una paziente carina?" "lo non sono una paziente qualsiasi, no?" "Certo che non lo sei." "Però sono giorni che ti tieni lontano da me. E adesso mi tratti come un'estranea. Qual è il problema?" "Problema?" Le diede uno sguardo preoccupato. Dandole un colpetto leggero sul fianco, le disse: "Girati, non ho medicato quelle in fondo alla schiena. Di che problema parli, Sundira?" "Ho ragione se dico che non mi desideri più?" Lui intinse le dita nella fiaschetta dell'unguento e glielo strofinò appena più in alto delle natiche nude. "Non sapevo che avessimo un programma preciso. L'abbiamo?" "Certo che no. Ma guarda come mi stai toccando, adesso." "Te l'ho appena spiegato. Ci riprovo. pensavo che tu fossi qui in cerca di cure mediche, non per fare l'amore. I medici imparano presto che non è mai bene mescolare le due cose. Ma forse ho anche pensato che non ti sarebbe piaciuto se io ti fossi saltato addosso in un momento in cui sei piena di vesciche dolorose su tutta la pelle. Giusto?" Delle conversazioni che c'erano state fra loro, questa era la più somigliante a un litigio. "Ti sembra ragionevole, Sundira?" Lei si voltò impetuosamente e gli si mise di fronte. "E per quello che ho fatto con Delagard, vero?" " Che cosa?" "Detesti l'idea che lui mi abbia messo le mani addosso, e non solo le mani, e adesso non vuoi avere più a che fare con me."