/<1949>/ Ma Fontamara ha pure aspetti particolari. Allo stesso modo, i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin, i coolies,. i peones, i mugic, i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo; sono, sulla faccia della terra, nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé; eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici. A chi sale a Fontamara dal piano del Fucino, il villaggio appare disposto sul fianco della montagna grigia, brulla e arida come su una gradinata. Dal piano sono ben visibili le porte e le finestre della maggior parte delle case: un centinaio di casucce quasi tutte a un piano, irregolari, informi, annerite dal tempo e sgretolate dal vento, dalla pioggia, dagli incendi, coi tetti malcoperti da tegole e rottami d'ogni sorta. La maggior parte di quelle catapecchie non hanno che un'apertura che serve da porta, da finestra e da camino. Nell'interno, per lo più senza pavimento con i muri a secco, abitano, dormono, mangiano, procreano, talvolta nello stesso vano, gli uomini, le donne, i loro figli, le capre, le galline, i porci, gli asini. Fanno eccezione una diecina di case di piccoli proprietari e un antico palazzo ora disabitato, quasi cadente. La parte superiore di Fontamara è dominata dalla chiesa col campanile e da una piazzetta a terrazzo, alla quale si arriva per una via ripida che attraversa l'intero abitato, e che è l'unica via dove possano transitare i carri. Ai fianchi di questa sono stretti vicoli laterali, per lo più a scale, scoscesi, brevi, coi tetti delle case che quasi si toccano e lasciano appena scorgere il cielo. A chi guarda Fontamara da lontano, dal Feudo del Fucino, l'abitato sembra un gregge di pecore scure e il campanile un pastore. Un villaggio insomma come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo. L'intera storia universale vi si svolge: nascite, morti, amori, odii, invidie, lotte, disperazioni. Altro su Fontamara non vi sarebbe da dire, se non fossero accaduti gli strani fatti che sto per raccontare. Ho vissuto in quella contrada i primi vent'anni della mia vita e altro non saprei dirvi. Per vent'anni il solito cielo, circoscritto dall'anfiteatro delle montagne che serrano il Feudo come una barriera senza uscita; per vent'anni la solita terra, le solite piogge, il solito vento, la solita neve, le solite feste, i soliti cibi, le solite angustie, le solite pene, la solita miseria: la miseria ricevuta dai padri, che l'avevano ereditata dai nonni, e contro la quale il lavoro onesto non è mai servito proprio a niente. Le ingiustizie più crudeli vi erano così antiche da aver acquistato la stessa naturalezza della pioggia, del vento, della neve. La vita degli uomini, delle bestie e della terra sembrava così racchiusa in un cerchio immobile, saldato dalla chiusa morsa delle montagne e dalle vicende del tempo. Saldato in un cerchio naturale, immutabile, come in una specie di ergastolo. Prima veniva la semina, poi l'insolfatura, poi la mietitura, poi la vendemmia. E poi? Poi da capo. La semina, la sarchiatura, la potatura, l'insolfatura, la mietitura. Allora il papa si sentì afflitto nel più profondo del cuore, prese dalla bisaccia una nuvola di pidocchi di una nuova specie e li lanciò sulle casse dei poveri, dicendo: "Prendete, o figli amarissimi, prendete e grattatevi. Così nei momenti di ozio, qualche cosa vi distrarrete dai pensieri del peccato". Questo era stato il sogno di Michele Zompa. Un sogno, ognuno lo interpreta a modo suo. Vi sono molti che giuocano sui sogni. Altri vi leggono l'avvenire. Io penso che i sogni servano a far dormire. Però Marietta Sorcanera, donna di devozione, non l'intendeva così e scoppiò a lamentarsi e tra i singhiozzi si mise a dire: E' vero. E' proprio così. Chi si occuperebbe di tenerci lontani dal peccato, se il papa non pregasse per noi? Chi ci salverebbe dall'inferno?. Si era fatto tardi e noi volevamo andarcene. All'improvviso sentii tutta la stanchezza della giornata. Perché perdere tempo con tante chiacchiere? Ma il cav. Pelino l'intese diversamente: "Voi vi burlate di me - si mise a gridare agitando il frustino contro Zompa e la cantiniera - Voi vi burlate delle autorità. Voi vi burlate della Chiesa e del Governo." E molte altre cose insensate, su questo tono, che nessuno capiva. Il Governo vi metterà a posto strillava. Il Governo vi punirà. Le autorità si occuperanno di voi. Noi pensavamo: parlerà, ma poi tacerà, poi evidentemente tacerà e ci lascerà andare a casa. Però lui continuava. Lui non taceva. " Tu non sai - egli disse direttamente a Michele - che se io ti denunziassi, tu saresti condannato almeno a dieci anni di carcere? Tu non sai che molti per aver detto cose meno perfide di quelle dette da te poco fa, stanno scontando anni di galera? Ma in che mondo vivi? Sai o non sai che cosa è successo in questi ultimi anni? Sai chi comanda? Sai chi è il padrone oggi? Sembrava un galletto inferocito. Zompa continuò per un po' a succhiare la cannuccia della pipa spenta, poi sputò per terra e gli rispose con pazienza: "Vedi, - gli disse - in città succedono molti fatti. In città, ogni giorno succede almeno un fatto. Ogni giorno, dicono, esce un giornale e racconta almeno un fatto. In capo all'anno, quanti fatti sono? Centinaia e centinaia. E in capo a vari anni? Migliaia e migliaia. Immagina. Come può un cafone, un povero cafone, un povero verme della terra conoscere tutti questi fatti? Non può. Ma una cosa sono i fatti, un'altra è chi comanda. I fatti cambiano ogni giorno, chi comanda è sempre quello. L'autorità è sempre quella." "E le gerarchie?" chiese il forestiero. Ma allora noi ancora non sapevamo che cosa significasse la strana parola. Il cittadino dovette ripetercela varie volte e con altri termini. E Michele pazientemente gli spiegò la nostra idea: "In capo a tutti c'è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe." "Quel diavolo! quel diavolo!" mormorava tra sé, sottovoce. Ma non parlava del marito. "Quello ha fatto veramente il patto col Diavolo - ci disse. - Nessuna legge lo trattiene. Se resta qui ancora un paio di anni, ci mangerà vivi, con le nostre case, la nostra terra, i nostri alberi, la nostra montagna. Quello ci sbranerà tutti. Quello e la sua Banca dell'inferno ci manderanno tutti per elemosina. Poi si approprieranno anche delle nostre elemosine." Così tra i lamenti e gli improperi apprendemmo che le famose terre di don Carlo Magna, verso le quali stava per essere deviato il ruscello di Fontamara, da una settimana erano state acquistate a poco prezzo dall'impresario, il quale, senza dubbio, dopo averle trasformate in terre irrigue, le avrebbe rivendute a prezzo più alto. "Quell'uomo ha veramente trovato l'America nelle nostre parti - non potei fare a meno di commentare io. - I cafoni devono passare il mare per trovare l'America, ma quel brigante l'ha scoperta qui." "La legge non esiste anche per lui? - domandò la moglie di Zompa. - Per lui non vale la disposizione di Dio?" "Le disposizioni di Dio non valgono per il Diavolo" - io dissi facendomi il segno della croce. "Adesso l'han fatto podestà - continuò a dire donna Clorinda. - Il nuovo Governo è in mano a una banda di briganti. Si chiamano banchieri e patrioti ma sono veri briganti, senza alcun rispetto per i vecchi proprietari. Pensate un po', è da un giorno che quel bandito è podestà e dal municipio sono già sparite due macchine da scrivere. Tra un mese, credete a me, spariranno anche le porte e le finestre. Gli spazzini sono pagati con i soldi del comune, ma da stamattina alcuni di essi lavorano come manovali nella fabbrica di mattoni dell'impresario. I cantonieri, pagati col denaro di tutti, lavorano a scavare il fosso che deve portare l'acqua alle terre rubate da quel brigante a mio marito. Il cursore del comune, Innocenzo La Legge, lo conoscete? E' diventato il servo della moglie dell'impresario: l'ho incontrato stamattina con una gran cesta di verdure che le andava dietro a testa bassa, come un cane. E questo non è che il principio. Di questo passo, credete a me, quel brigante ci mangerà tutti." Di tutto quel discorso concitato a noi non rimase che un'impressione: anche per i vecchi proprietari è arrivato il giorno della penitenza. Devo confessare che nell'amarezza c'era un po' di miele? Come si dice? "Chi ha mangiato la pecora, adesso vomita la lana." "I vecchi ladri hanno trovato chi li ruba", spiegammo alle paesane che ci aspettavano fuori dal portone. "Dobbiamo metterci di nuovo alla cerca dell'Impresario? - strillarono alcune. - Allora non la finiremo più?" "Se abbiamo fatto trenta possiamo fare trentuno - disse Marietta. - Dopo tutti questi strapazzi, dovremmo tornarcene a mani vuote?" Quella terra era già stata del padre di Berardo, e Berardo vi aveva anche lui faticato dall'età di dieci anni. Fra la terra e il contadino, dalle nostre parti, ma forse anche altrove, è una storia dura e seria, è come marito e moglie. E' una specie di sacramento. Non basta comprarla, perché una terra sia tua. Diventa tua con gli anni, con la fatica, col sudore, con le lacrime, con i sospiri. Se hai terra, nelle notti di maltempo tu non dormi; anche se stanco a morte, tu non riesci a dormire, perché non sai quello che sta succedendo alla tua terra; e al mattino corri subito a vedere. Se un altro ti piglia la terra, magari pagandola col denaro, è sempre un po' come se ti portasse via la moglie; e, anche venduto, un pezzo di terra conserva per molto tempo il nome del vecchio padrone. Ognuno dunque capiva lo struggimento di Berardo. E Maria Rosa, sua madre, vedendo il figlio soffrire per l'inutile sacrificio di quella terra e sapendolo uomo violento e impulsivo, mi pregò un giorno di accompagnarla presso don Circostanza. Gli portò in regalo un pollastro e una dozzina di uova, e arrivata in sua presenza gli baciò la mano, gli si inginocchiò davanti, lo supplicò di restituire la terra al figlio, che in pagamento, per un certo numero di anni, gli avrebbe lasciato una parte del prodotto. Ma non ci fu verso. L'avvocato spiegò di non aver comprato quella terra con l'intenzione di continuare a coltivarla, ma per sfruttare la pozzolana del sottosuolo, e minacciò di chiamare i carabinieri se non ce ne andavamo. (E infatti ora c'è una cava ampia e profonda, nella quale si aggirano alcuni operai con picconi e carriole.). "Se Berardo vuole, - aveva proposto a modo di conciliazione l'avvocato - lo potrei prendere come bracciante nella mia cava." Fu un voler aggiungere lo scherno al sopruso; e parlando con Berardo, per prudenza neppure vi accennammo. Quella cava, quella fossa sempre più larga e profonda, quel cratere, era una bolgia infernale nel petto di Berardo. "Un giorno o l'altro, - dicevamo noi - farà qualche pazzia. Egli finirà male, come suo nonno." E la povera Maria Rosa, sua madre, per salvarlo fece recitare di nascosto una novena a San Giuseppe da Copertino e vendette due lenzuola per accendere alcune candele davanti al santo affinché salvasse il figlio. Ma un giorno, come poi si riseppe, Berardo si presentò all'improvviso nello studio dell'avvocato; e dopo aver messo da parte la serva, che cercava di respingerlo adducendo l'assenza del padrone, lo cercò in tutte le stanze e lo trovò spaurito dietro le tendine di una finestra. "Signor avvocato, - gli disse con molta calma (anzi, com'egli ci raccontò, persino con rispetto) - voi mi avete assicurato varie volte che io morirò in carcere; non credete che sia venuto il giorno per andarci?" L'avvocato dové capire che la sua vita era legata a un filo, eppure cercò di sorridere. "Perché tanta fretta?" egli balbettò. "Dunque, non bisogna più ragionare" concluse Berardo. "Ecco, bravo, Berardo ha capito perfettamente - esclamò Innocenzo soddisfatto. - Non bisogna più ragionare: questo è il senso della decisione del podestà. Bisogna farla finita coi ragionamenti. E poi, siamo sinceri, a che servono i ragionamenti? Se uno ha fame, può nutrirsi di ragionamenti? Bisogna farla finita con questa cosa inutile." La soddisfazione d'Innocenzo fu grande nel constatare che Berardo gli dava ragione e perciò accettò la sua proposta di rendere più chiaro il cartello che doveva essere appeso al muro e che egli stesso scarabocchiò in nostra presenza, su un largo foglio di carta bianca, nel tenore seguente: Per ordine del Podestà sono proibiti tutti i ragionamenti. Berardo provvide ad affiggere il cartello, in alto, sulla facciata della cantina. La sua condiscendenza ci sbalordiva assai. Come se il suo atteggiamento non fosse già abbastanza chiaro, Berardo aggiunse: "Adesso, guai a chi tocca quel cartello." Innocenzo gli strinse la mano e voleva abbracciarlo. Ma le spiegazioni che Berardo subito aggiunse, moderarono il suo entusiasmo. "Quello che il podestà ordina da oggi, io l'ho sempre ripetuto - disse Berardo. - Coi padroni non si ragiona, questa è la mia regola. Tutti i guai dei cafoni vengono dai ragionamenti. Il cafone è un asino che ragiona. Perciò la nostra vita è cento volte peggiore di quella degli asini veri, che non ragionano (o, almeno, fingono di non ragionare). L'asino irragionevole porta, 0, 90, 100 chili di peso; oltre non ne porta. L'asino irragionevole ha bisogno di una certa quantità di paglia. Tu non puoi ottenere da lui quello che ottieni dalla vacca, o dalla capra, o dal cavallo. Nessun ragionamento lo convince. Nessun discorso lo muove. Lui non ti capisce, (o finge di non capire). Ma il cafone invece, ragiona. Il cafone può essere persuaso. Può essere persuaso a digiunare. Può essere persuaso a dar la vita per il suo padrone. Può essere persuaso ad andare in guerra. Può essere persuaso che nell'altro mondo c'è l'inferno benché lui non l'abbia mai visto. Vedete le conseguenze. Guardatevi intorno e vedete le conseguenze. Per noi, quello che Berardo diceva, non era una novità. Ma Innocenzo La Legge era atterrito. "Un essere irragionevole non ammette il digiuno. Dice: se mangio lavoro, se non mangio non lavoro - continuò Berardo. - O meglio neppure lo dice, perché allora ragionerebbe, ma per naturalezza così agisce. Pensa dunque un po' se gli ottomila uomini che coltivano il Fucino, invece di essere asini ragionevoli, cioè addomesticabili, cioè convincibili, cioè esposti al timore del carabiniere, del prete, del giudice, fossero invece veri somari, completamente privi di ragione. Il principe potrebbe andare per elemosina. Tu sei venuto qui, o Innocenzo, e tra poco, nella via buia, farai ritorno al capoluogo. Che cosa può impedire a noi di accopparti? Rispondi" Le aie apparivano tutte vuote. D'altronde le trebbiatrici non risalivano la valle che verso la fine della mietitura. D'un tratto il rumore si fece più distinto e nella prima curva della strada che dal piano saliva verso di noi, apparve un camion pieno di gente. Subito dopo ne apparve un altro. E poi un altro. Cinque camion che venivano a Fontamara. Ma subito dopo ne apparve un altro. Erano dieci? quindici? dodici? La figlia di Cannarozzo gridava che erano un centinaio, ma era una ragazza che non sapeva contare. Il primo camion era già all'ultima curva, all'entrata di Fontamara, e l'ultimo ancora ai piedi della collina. Tanti camion non si erano mai visti. Nessuno di noi aveva immaginato che esistessero tanti camion. Allarmata dal fragore mai udito di un così grande numero di macchine, tutta la popolazione di Fontamara era accorsa sulla piazzetta davanti alla chiesa, cioè le donne, i bambini e gli uomini vecchi che non erano andati ai campi. Ognuno spiegava in modo diverso l'inattesa e improvvisa apparizione di tante macchine dirette verso Fontamara. "E' un pellegrinaggio - gridava Marietta tutta eccitata. - Adesso i pellegrini ricchi non vanno a piedi ma in automobile. Sarà un pellegrinaggio per il nostro San Rocco." "Ma oggi non è il giorno di San Rocco" - io dissi. "Sarà una corsa di automobili - ripeteva invece Cipolla che da soldato era stato in città - E' una sfida tra automobilisti a chi corre di più. In città ogni giorno vi sono sfide tra automobilisti." Il rumore dei camion divenne sempre più alto e impressionante. A esso si aggiunsero le grida selvagge degli uomini sui camion. Un crepitio di spari secchi, seguito dalla caduta dei vetri del finestrone della chiesa, finì col mutare in panico la nostra curiosità. "Sparano, sparano contro di noi, sparano contro la chiesa" - ci mettemmo a gridare. "Indietro, indietro - gridava Baldissera a noi donne più vicine al parapetto. - Indietro che sparano." "Ma chi sono quelli che sparano? ma perché sparano? ma perché sparano contro di noi?" "E' la guerra, è la guerra - diceva Baldissera tutto esaltato. - E' la guerra." "Ma perché la guerra? ma perché contro di noi la guerra?" "E' la guerra - ripeteva Baldissera. - Solo Dio sa perché, ma è la guerra." "Se è la guerra bisogna dire le litanie sulla guerra - saltò a dire Teofilo il sacrestano e si mise a intonare: "Regina pacis ora pro nobis", quando una seconda scarica di fucileria crivellò la facciata della chiesa e cosparse di calcinacci noi ch'eravamo vicino al portale. Le litanie furono interrotte. Tutto quello che succedeva era privo di senso. La guerra? ma perch la guerra? Giuditta fu presa dalle convulsioni. Attorno a essa noi eravamo come un branco di capre impazzite. Ognuno gridava parole sconnesse. Solo Baldissera ripeteva grave e impassibile. "Non c'è nulla da fare, è la guerra, non c'è nulla da fare." Non siamo più liberi nemmeno dei nostri soldi." Queste parole ci fecero una certa impressione. Il Governo cominciava dunque a perseguitare anche i galantuomini? "Vostra Signoria non ha che da dire una parola - rispose Berardo in un tono che da qualche tempo aveva smesso - e tutti i cafoni insorgeranno." "Non si tratta di questo, - disse don Circostanza spaventato - ma di una prepotenza più raffinata. Ecco, là erano le tre buste che avevo preparato per voi. Una per ognuno, col salario pattuito." Sul tavolo infatti c'erano tre buste. "Avevo tutto preparato - continuò egli - com'era stato pattuito. Non avevo trattenuto un solo centesimo. Mi credete?" Perché non dovevamo credergli? Egli ci strinse di nuovo la mano, con riconoscenza. "Ebbene, - riprese a dire - ho ricevuto il nuovo contratto di lavoro per gli operai agricoli della provincia. E' stato per me un colpo inatteso e terribile. Leggete con i vostri occhi." Presi con diffidenza un giornale che don Circostanza mi porse e poiché egli insisteva lessi alcuni punti segnati col lapis rosso. Secondo quello scritto il salario corrente degli operai agricoli era ridotto del quaranta per cento per gli uomini dai 19 ai 60 anni, cioè, per noi. "Non è strano? ditemi, non è terribile? "- egli interruppe. "Puoi continuare - mi disse - non è finito." In continuazione lessi che i lavori di miglioramento, i nuovi impianti o reimpianti di vigneti, oliveti e frutteti, le costruzioni di concimaie, i riempimenti, l'espurgo, lo scavo di fossati, le estirpazioni di piante e le aperture di strade, hanno carattere straordinario, intesi ad alleviare la disoccupazione e come tali devono essere compensati con mercedi inferiori a quelle stabilite, con una riduzione fino al venticinque per cento. "Non è insopportabile? - riprese a dire l'avvocato. - Cosa ha a che fare la legge tra padroni e cafoni? Dove andrà a finire la nostra libertà?" L'inganno era evidente. Si trattava di una nuova invenzione per derubarci in nome della legge. Don Circostanza era stato sempre maestro in simili trucchi. Egli aveva, tra l'altro, la furberia di ricomprare da una bancarella locale le cambiali inesigibili, a un terzo o un quarto del loro valore, e le faceva scontare ai cafoni debitori con giornate lavorative; in modo che questi faticavano senza salario e lui se la cavava con una miseria. Perciò, quel giorno, prima di entrare nel suo studio, avevamo fatto un piccolo esame di coscienza. Ci eravamo interrogati: "Nessuno di noi ha qualche cambialetta in protesto? Qualche cambialetta dimenticata?" Nessuno. Ma quella volta l'inganno era diverso. "Là ci sono le tre buste - osservò Berardo semplicemente - noi ce le prendiamo e tutto è a posto." E Berardo fece l'atto di prendere la sua busta. Ma don Circostanza, che se l'aspettava, prevenne il gesto. Ma è una protezione, si capisce, che non si esercita mai contro i ricchi. Quante volte don Circostanza ci aveva già ingannati. Ma come potevamo viverre senza di lui? E d'altra parte egli aveva sempre avuto un modo di fare bonaccione e cordiale, ci dava la mano a tutti e quando era ubriaco perfino ci abbracciava e ci chiedeva perdono e noi gli avevamo sempre perdonato. Il trucco però dei tre quarti e tre quarti e quello dei dieci lustri ci avevano troppo avviliti. Nessuno poteva rassegnarsi alla perdita dell'acqua, cioè alla morte di fame, ma nessuno conosceva la via per recuperarla. Pilato e Michele Zompa volevano che dessimo querela all'impresario, ma io e gli altri interessati ci opponemmo alla proposta. Noi sapevamo fin troppo come vanno a finire simili processi; durano diecine e perfino centinaia d'anni, passano da una magistratura all'altra, da un appello all'altro, mangiano le risorse di interi paesi e infine lasciano le cose come le trovano. Ma anche se avessimo intentato processo, a chi l'avremmo affidato? A don Circostanza? Egli avrebbe trovato un altro trucco simile ai tre quarti e tre quarti e ai dieci lustri. Era meglio non parlarne. E tuttavia nessuno poteva rassegnarsi alla perdita dell'acqua. Nessuno poteva rassegnarsi alla perdita dell'intero raccolto. Nessuno poteva assuefarsi all'idea d'un inverno senza pane e senza minestra. "Siamo alla fine - ripeteva Zompa. - Vedrete, uno di questi giorni Domine Iddio perderà la pazienza, ci sarà un terremoto e non se ne parlerà più." "Quando le leggi del Governo non sono più valide e quelli che dovrebbero farle rispettare sono i primi a violarle, allora si torna alla legge del popolo" rispose Baldissera indignato. "Qual è la legge del popolo?" gli fu chiesto. "Aiutati che Dio t'aiuta - disse Baldissera che aveva finito con l'adottare l'amara dottrina di Berardo Viola - Chi vuol capire capisca." Non gli si poteva dar torto, ma non era un rimedio. E d'altronde lui parlava così, ma era incapace di uccidere una mosca. Invece Berardo non si esprimeva. Il povero Berardo non era più lui. Pensava ad altro. Il suo mutismo era la costernazione dei giovani che lo consideravano il loro capo. La sua assenza il giorno della spartizione dell'acqua era stata giudicata un tradimento. Il risentimento contro di lui era più acerbo che contro don Circostanza. Berardo faceva ormai vita di solitario e lo si vedeva di rado. Egli esagerava adesso in un senso, come prima esagerava nell'altro. Tutti i progetti per rivendicare i nostri diritti lo lasciavano indifferente. "Peggio per voi - egli disse - Io non ho terra da irrigare. Io non sono più un ragazzo - diceva anche - Devo pensare ai fatti miei." Berardo aveva ormai una sola idea: emigrare, andare via, lavorare come una bestia, lavorare il doppio degli altri; e dopo sei mesi, o dopo un anno, tornare a Fontamara, comprare un pezzo di terra, sposarsi. Non gli si poteva parlare d'altro. "Tu hai un padre snaturato " diceva il cav. Pazienza a Berardo. "Come può tardare tanto a spedire duecento lire?" "Ma il lavoro c'è o non c'è? - rispondeva Berardo - Se c'è perché non mi chiamano? Se il lavoro c'è perché tante formalità?" "Pazienza per i pacchi - aggiungeva il cavaliere - Si sa, i pacchi viaggiano lentamente, soprattutto se contengono barattoli un po' fragili; ma un vaglia telegrafico arriva in un giorno. Tuo padre è un egoista." "Cosa c'entra il certificato di nascita per lavorare? - replicava Berardo - Se uno chiede di lavorare è chiaro ch'è già nato. Nessuno chiede di lavorare prima di nascere." Dopo tre giorni di digiuno e di inutile attesa, Berardo ed io cessammo dallo scendere in portineria a ogni arrivo del portalettere. Restavamo distesi sul letto dalla mattina alla sera e ci alzavamo solo per andare a bere acqua, di tanto in tanto, al rubinetto del cesso. Molto più ottimista e costante di noi si rivelò il cav. Pazienza. Tre volte al giorno, a ogni arrivo di posta, noi sentivamo la sua tosse levarsi dal letto, uscire di camera, scendere lentamente le scale fino al pianterreno e, dopo un po', risalire lentamente, faticosamente le scale, indugiare presso la serratura della nostra porta, e attraverso di essa lanciare maledizioni sempre nuove contro Fontamara. "Berardo Viola, - rantolava il povero vecchio - tuo padre è una carogna. Tuo padre è la mia rovina, Berardo Viola, tuo padre è la mia morte. Da tre giorni non mangio per colpa di tuo padre " gridava anche. Berardo non rispondeva. Egli era ripiombato nel mutismo. Guardava per delle ore il soffitto senza dire una parola, stando allungato sul letto, le mani intrecciate sotto la testa. "Cosa faremo? - domandavo io - Non possiamo eternamente restare senza mangiare." Ma Berardo non rispondeva. Una volta mi disse: "Si racconta che mio nonno, quando batteva la montagna, rimase una volta digiuno per tre settimane, bevendo soltanto acqua." Un'altra volta mi chiese: "Che giorno è oggi?" Poi aggiunse: "Adesso Elvira dev'essere già tornata dal pellegrinaggio che voleva fare alla Madonna della Libera. Un pellegrinaggio a piedi, assieme alla povera Maria Grazia, per ottenere il perdono." "Elvira non ha bisogno di nessun perdono - io dissi - Avrà voluto semplicemente accompagnare Maria Grazia." Nel pomeriggio del quarto giorno di digiuno avemmo un attimo di gioia. Potevano essere le cinque, quando sentimmo per le scale delle grida confuse del cav. Pazienza e del Buon Ladrone. "Vittoria, vittoria " gridava il cavaliere e cantava una canzone patriottica. Dov'è la Vittoria Le porga la chioma Michele propose un buon titolo: La Verità, che voleva dir molto. Ma Scarpone arricciò il naso: "La verità? - disse - Chi conosce la verità?" "Non la conosciamo, ma vogliamo conoscerla" rispose Michele. "E quando l'avrai conosciuta - gli rispose Scarpone - con la verità ci farai il brodo?" Era questo il suo modo di ragionare. Losurdo ebbe anche una buona idea: La Giustizia. "Ma tu sei pazzo - gli osservò Scarpone - se la giustizia è sempre stata contro di noi!" Da noi la "giustizia" ha sempre significato i carabinieri. Avere a che fare con la giustizia, ha sempre significato avere a che fare con i carabinieri. Cadere in mano alla giustizia, ha sempre significato cadere in mano ai carabinieri. Dunque non era il caso. "Ma io intendo la vera giustizia " rispose inviperito Losurdo. "La giustizia uguale per tutti." "Quella la troverai in paradiso" decise Scarpone. Cosa gli si poteva rispondere? Marietta propose come titolo del giornale: La Tromba dei Cafoni. Ma nessuno discusse la sua proposta. "Che fare?" disse Scarpone. "Dobbiamo fare il titolo" gli rispose Marietta. "Fa' anche tu una proposta." "La mia proposta l'ho fatta: Che fare?" Ci guardammo in faccia sorpresi. "Ma non è un titolo" si azzardò a osservare Baldissera. "Non è un titolo. Noi abbiamo bisogno d'un titolo da scrivere in testa al giornale, capisci? Con bella calligrafia, capisci?" "Ebbene, scrivici in testa al giornale, con bella calligrafia. Che fare?" rispose Scarpone. "E così sarà un titolo." " Ma è un titolo che farà ridere" obiettò ancora Baldissera. "Se una copia del nostro giornale arriverà a Roma, chiunque lo vedrà si metterà a ridere." Scarpone s'infuriò. Il giornale doveva essere un giornale di cafoni, il primo giornale dei cafoni. Un giornale scritto a mano. Tutto ciò che potevano pensare a Roma gli era indifferente. Baldissera finalmente si convinse. Fu dunque approvata la proposta di Scarpone. Mentre Maria Grazia si mise a scrivere il titolo del giornale, si passò alla discussione sul primo articolo. Maria Grazia scriveva con la testa inclinata su una spalla, come una scolaretta, e tutto sembrava un gioco di bambini. "Strano", pensavo tra me "strano, quante novità in una volta." Zompa propose: "La prima notizia deve riguardare, sarete tutti d'accordo, questo: Hanno ammazzato Berardo Viola." Scarpone fu d'accordo, ma propose un'aggiunta: "Hanno ammazzato Berardo Viola, che fare?" "C'è nel titolo, che fare?" osservò Michele. "Non basta" rispose Scarpone. "Bisogna ripeterlo. Se non si ripete, il titolo non vale nulla. Anzi è meglio levarlo. Che fare?