/<1973>/ E' lecito, per non dire necessario, dubitarne. Per quanto riguarda la cosa immobile, solo a poco a poco un'idonea struttura spaziale permetterà di attribuirle il rilievo, la forma e la profondità caratteristiche della sua identità obiettiva. Quanto alla cosa in movimento, nulla autorizza subito il bambino a differenziare i cambiamenti di posizione dai cambiamenti di stato e a conferire così alle percezioni fluide la qualità di «gruppi» geometrici e per conseguenza di oggetti. Al contrario, incapace di situarsi di primo acchito lui stesso nello spazio e di concepire una relatività assoluta tra i movimenti del mondo esterno e i suoi, il bambino non saprà dapprima costruire né «gruppi» né oggetti e potrà benissimo considerare le alterazioni della sua immagine del mondo esterno come reali e generate continuamente dalle sue azioni. E' vero che, a partire da questi primi stadi, certe operazioni annunciano la costituzione dell'oggetto: da un lato, i coordinamenti tra schemi eterogenei anteriori a quello tra la prensione e la visione (coordinamento che pone un problema speciale) e, dall'altro, gli accomodamenti senso-motori. Questi due tipi di comportamento conducono entrambi il bambino a superare quello che è assolutamente immediato per assicurare un inizio di continuità ai quadri percepiti. Per quanto riguarda il coordinamento tra gli schemi, si può citare quello tra la visione e l'udito: dal secondo mese o l'inizio del terzo, il bambino cerca di guardare gli oggetti che sente (vol. I, oss. 44-49), testimoniando con ciò l'affinità che stabilisce tra certi suoni e certi quadri visivi. E' chiaro che tale coordinamento conferisce ai quadri sensoriali un grado in più di consistenza di quando essi sono percepiti attraverso un solo genere di schemi: il fatto di aspettarsi di vedere qualcosa fa sorgere nel soggetto che ascolta un suono, una tendenza a individuare il quadro visivo come preesistente alla percezione. Analogamente, ogni coordinamento intersensoriale (tra la suzione e la prensione, la prensione e la vista, ecc.) contribuisce a suscitare delle anticipazioni che sono altrettante assicurazioni sulla solidità e la coerenza del mondo esterno. Ma siamo ancora molto lontani dalla nozione di oggetto. Il coordinamento tra schemi eterogenei si esplica, infatti, come si è visto (vol. I, cap. II, par. 3 e 4) con un'assimilazione reciproca degli schemi in gioco. Nel caso della vista e dell'udito, non c'è dunque un'immediata identità obiettiva tra il quadro visivo e il quadro sonoro (oppure tattile, gustativo, ecc.) ma soltanto un'identità in qualche modo soggettiva: il bambino cerca di vedere quello che sente, perché ogni schema di assimilazione mira ad inglobare l'universo intero. Perciò, tale coordinamento non implica ancora nessuna permanenza intesa come indipendente dall'azione o dalla percezione attuali: la scoperta del quadro visivo annunciato dal suono non è che il prolungamento dell'atto di cercar di vedere. Ma se il fatto di cercare con lo sguardo si accompagna, per noi adulti, con la credenza nell'esistenza duratura dell'oggetto da guardare, nulla autorizza a credere che tale relazione sia data subito. Come il movimento delle labbra od ogni altro esercizio funzionale crea da sé il suo oggetto o il suo risultato, così il lattante può considerare il quadro che contempla come il prolungamento, se non il prodotto, del suo sforzo per vedere. Si potrebbe obiettare che la localizzazione del suono nello spazio, unita alla localizzazione del quadro visivo, conferisce obiettività alla cosa insieme sentita e guardata. Ma, come vedremo, lo spazio del quale qui si tratta è ancora uno spazio che dipende dall'azione immediata e non già uno spazio obiettivo, in cui cose e azioni si situano le une in rapporto alle altre in «gruppi» indipendenti dal proprio corpo. In breve, i coordinamenti intersensoriali contribuiscono a conferire solidità all'universo, organizzando le azioni, ma non bastano a rendere tale universo esterno a queste azioni. Di conseguenza mancano loro le due condizioni che costituiscono il gruppo «obiettivo». E appunto ciò che dobbiamo ora dimostrare attraverso l'analisi dei rapporti spaziali degli oggetti tra loro. Se i gruppi costituiti dallo sviluppo delle reazioni circolari secondarie fossero di tipo obiettivo, ne deriverebbero necessariamente due conseguenze: 1) gli oggetti si ordinerebbero gli uni rispetto agli altri in profondità e non soltanto secondo due dimensioni; 2) contemporaneamente gli oggetti acquisterebbero grandezza e forma costanti. E infatti per l'osservatore i gruppi elaborati dall'attività del bambino in questo stadio obbediscono a queste due condizioni. Avviene lo stesso per il soggetto come tale? L'assenza di ogni condotta relativa agli oggetti nascosti da schermi mostra subito che il problema si pone: tutto avviene come se il bambino ignorasse ancora che gli spostamenti degli oggetti si ordinano secondo diversi piani di profondità. Se dal punto di vista dei gruppi «pratici» il bambino che afferra ciò che vede si muove nella terza dimensione, ci si può domandare se dal punto di vista della percezione o della comprensione dei gruppi, come di quella delle forme e delle grandezze, egli sia avvantaggiato da questa esperienza fondamentale. E' opportuno esaminare dapprima l'accomodamento alla profondità e cercare che cosa di nuovo apporta il presente stadio, definito dalla coordinazione tra la visione e la prensione, rispetto ai «gruppi» del primo. Non vi è nulla di più oscuro del problema della percezione delle distanze, o della terza dimensione, sino a che non si distingue il punto di vista del comportamento, ossia di ciò che sa fare il soggetto rispetto ad uno spazio già costituito nella mente dell'osservatore, e il punto di vista del soggetto stesso, cioè il modo in cui il soggetto interpreta spazialmente il suo comportamento. Dal primo punto di vista, è relativamente facile determinare sino a che punto il bambino accomoda gli occhi e le mani alla profondità e come si comporta nei confronti degli oggetti ordinati secondo la terza dimensione. Ma qualunque sia la complessità dei gruppi pratici così messi in luce, resta ancora intatto il problema di sapere se questi ultimi corrispondano o no a gruppi coscienti e quale sia la natura di questi ultimi, obiettiva o semplicemente soggettiva. Infatti, può darsi che ad un corretto accomodamento alla profondità corrisponda una coscienza incapace di ordinare gli spostamenti degli oggetti in gruppi che implichino la profondità, come un accomodamento adeguato dello sguardo ai movimenti di traslazione a lui perpendicolari non comporta senz'altro la capacità di ordinare questi movimenti in «gruppi» indipendenti. E' proprio questo il problema che qui ci interessa. Poco importa che il bambino percepisca bene tanto gli oggetti lontani che quelli vicini e anche che rinunci ad afferrarli quando si trovano troppo lontano da lui, se non li ordina poi su piani successivi e se ignora le loro posizioni relative. Il problema è dunque di sapere come egli ricaverà dalle sue azioni rispetto alle distanze una conoscenza della terza dimensione capace di collegare le cose tra loro in un universo organizzato spazialmente. Occorre, come già diceva Berkeley, distinguere la visione in quanto dato sensoriale dai giudizi che diamo su di lei. Per questo distingueremo qui accuratamente il punto di vista del comportamento, o dei gruppi pratici, e quello del soggetto, o dei gruppi soggettivi. Senza dubbio giungeremo a determinare questi ultimi solo con lo studio del comportamento, ma ciò non crea difficoltà se si distinguono le prove che il soggetto non riesce a superare senza la nostra rappresentazione spaziale (quelle relative agli oggetti nascosti, per esempio) dai comportamenti correnti, comuni a tutti i livelli della percezione dello spazio (guardare o afferrare gli oggetti a diverse distanze, ecc.). Cominciamo col descrivere i fatti comportamentali che non implicano altro che i gruppi «pratici». La grande novità dello stadio, a questo proposito, è la coordinazione della visione. Per rendersene conto, basta pensare alla difficoltà che incontrano i bambini piccoli, tra i 2 e i 6 anni, a partecipare ad una conversazione o ad una discussione, a fare un racconto o a dare una spiegazione, in breve ad uscire dal pensiero proprio per adattarsi a quello altrui: è facile vedere come in tutte queste condotte sociali del pensiero il bambino è più portato a soddisfare i suoi desideri e a giudicare dal suo punto di vista che a collocarsi da quello altrui per giungere ad una visione obiettiva. Ma d'altronde, e in contrasto con questa potente assimilazione del reale all'io, durante i primi stadi del pensiero individuale, si assiste ad una stupefacente docilità del bambino alle suggestioni e alle affermazioni altrui; il bambino piccolo ripete di continuo le frasi che ascolta, imita gli atteggiamenti che osserva e cede tanto facilmente alle costrizioni del gruppo quanto resiste alla reciprocità razionale. In breve, l'assimilazione all'io e l'accomodamento agli altri inizia con un compromesso senza una profonda sintesi e il soggetto oscilla dapprima tra queste due tendenze, senza poterle dominare né organizzare. Di qui, in secondo luogo, una serie di strutture intellettuali caratteristiche di questi inizi del pensiero infantile e che riproducono, per décalage, le strutture senso-motorie iniziali. Così i primi concetti di cui fa uso il bambino non sono affatto subito classi logiche, suscettibili di quelle operazioni di addizione, di moltiplicazione, di divisione, ecc., che caratterizzano la logica delle classi nel suo funzionamento normale, ma specie di preconcetti che procedono per assimilazioni sincretiche. Così il bambino, che giunge tuttavia a maneggiare le relazioni sul piano senso-motorio, sul piano verbale e riflesso comincia col sostituire alle relazioni qualità assolute, per l'incapacità di coordinare le diverse prospettive e di uscire dal punto di vista proprio a cui assimila ogni cosa. Perciò il ragionamento infantile sembra arretrato rispetto ai coordinamenti senso-motori del quinto e del sesto dei nostri stadi: poiché il bambino non conosce ancora né classi né relazioni propriamente dette, esso consiste in semplici fusioni, in transduzioni che procedono per assimilazioni sincretiche. Soltanto nel corso di un faticoso sviluppo, che trasforma l'assimilazione egocentrica in vera deduzione e l'accomodamento in reale adattamento all'esperienza e alle prospettive che superano il punto di vista proprio, il ragionamento infantile diventa razionale e in tal modo prolunga, sul piano del pensiero, le conquiste dell'intelligenza senso-motoria. Risulta così evidente che la storia dell'assimilazione e dell'accomodamento caratterizzante l'intelligenza senso-motoria costituisce un fenomeno generale, che può riprodursi su questo nuovo piano costituito dal pensiero concettuale prima che quest'ultimo continui realmente la prima. Ma è opportuno, per meglio comprendere questo processo evolutivo, esaminare più da vicino alcuni esempi concreti, ricavati appunto dai fatti esaminati in questo volume. 3. Dall'universo senso-motorio alla rappresentazione del mondo del bambino. 1: lo spazio e l'oggetto La comprensione delle relazioni spaziali è un primo esempio particolarmente chiaro di parallelismo con décalage tra le conquiste senso-motorie e quelle del pensiero rappresentativo. Ci si ricorderà come il bambino, partendo da «gruppi» puramente pratici e semi-fisiologici, cominci con l'elaborare gruppi «soggettivi», giunga poi ai gruppi «obiettivi» e solo alla fine diventi capace di gruppi «rappresentativi». Ma se i gruppi di quest'ultimo tipo costituiscono il punto terminale dello spazio pratico e inseriscono pertanto nelle relazioni spaziali senso-motorie la rappresentazione degli spostamenti che non cadono nel campo della percezione diretta, sono lungi dal segnare l'inizio di una completa rappresentazione dello spazio, ossia di una rappresentazione del tutto separata dall'azione. Oppure battendola o scuotendola, come fa, il soggetto desidera in realtà mettere appunto in azione questa mano A? E' evidente, certo, che egli cerca di rimetterla in attività (vuol condurla a tamburellare di nuovo, o a far dondolare l'uccello o a grattare il cuscino). Ma il problema è di sapere se egli considera questa mano un centro causale indipendente dall'attività propria o come il prolungamento di questa attività: considera dunque questa mano A come una realtà analoga alla sua mano, ma autonoma rispetto ad essa, oppure come qualcosa di paragonabile, per esempio, ad un ciondolo, che per il bambino esiste ed agisce solo quando è afferrato e manipolato da lui? Il problema, posto in tal modo, sembra facile a risolversi. Quando cerca di mettere in moto la mano A, il bambino si limita, infatti, a batterla, scuoterla, ecc.: la tratta dunque come una sorta di annesso della sua azione, le cui proprietà si manifesterebbero solo in funzione dei suoi movimenti e non già come un oggetto indipendente, dotato di attività autonoma. Tale interpretazione ci sembra che debba condurre alla terza delle tre soluzioni or ora indicate: le sequenze indipendenti dall'attività propria diventano causali solo nella misura in cui entrano nella sfera di questa attività. Inizialmente non sono che semplici spettacoli o «presentazioni» senza causalità reale. Dovremo allora concludere che ogni causalità è assente? Non lo crediamo, in quanto ogni percezione, come si è visto a proposito del primo stadio, implica uno sforzo di assimilazione e di accomodamento. Può dunque darsi che il bambino, nella misura in cui segue con gli occhi un oggetto, si gira per vederlo o semplicemente concentra la sua attenzione e il suo interesse su questo spettacolo, abbia l'impressione che quest'ultimo sia legato al suo piacere, alla sua prospettiva, ecc. in una parola al dinamismo più o meno cosciente della sua attività. La causalità delle sequenze indipendenti sarebbe ancora quella dei primi stadi sinché la prensione e l'azione intenzionale non intervengono nel loro contesto. Invece, da quando queste sorgono, tali sequenze sono direttamente riportate a quelle del secondo tipo, ossia a quello delle relazioni che dipendono dai propri movimenti («reazioni circolari secondarie» e «procedimenti per far durare uno spettacolo interessante»). La sola differenza che si può porre tra il secondo e il terzo tipo di relazioni causali è una differenza di grado. Quando il bambino agisce direttamente e ripete la sua azione, il rapporto di causalità che stabilisce tra questa e il risultato ottenuto è un puro rapporto di efficacia e di fenomenismo: l'effetto prodotto prolunga direttamente il dinamismo dell'atto. Quando invece il bambino interviene in una serie di avvenimenti che è iniziata prima del suo intervento (oss. 133-136), deve provare un'impressione un poco più forte di obiettività o di esteriorità. Ma è una questione di quantità e non ancora di reale opposizione. Pertanto delle due possibilità or ora indicate a proposito della terza soluzione, soltanto la prima si realizza in questo stadio: il bambino non attribuisce ancora, per analogia con la sua azione, potere causale agli oggetti che percepisce, ma si limita ad inglobarli nei suoi attuali schemi di casualità e a sottometterli all'efficacia magico-fenomenistica dei suoi gesti. In breve, i tre tipi di relazioni causali che abbiamo distinto a proposito di questo stadio - azioni esercitate sul proprio corpo, azioni del corpo sugli oggetti esterni e azioni degli oggetti gli uni sugli altri - ne formano in realtà soltanto uno: in questi tre casi, il bambino attribuisce tutta l'efficacia causale al dinamismo della propria attività, e il fenomeno percepito al di fuori, per quanto sia lontano dal proprio corpo, è ritenuto soltanto un risultato della sua azione. Nel primo caso, questo risultato è forse avvertito come più intimo e familiare, nel terzo come più esteriore. Il bambino di questo stadio comincia a ricercare le cose sparite dietro gli schermi: le nozioni del «prima» e del «poi» si applicano ormai pertanto agli spostamenti dell'oggetto stesso e non più soltanto ai movimenti che fa il bambino durante le sue azioni. Così, per quanto concerne lo spazio, la costituzione dei «gruppi reversibili» denota un inizio di obiettivazione dei gruppi di spostamenti e, di conseguenza, una obiettivazione delle serie temporali corrispondenti. Quanto alla causalità, gli abbozzi di spazializzazione e di obiettivazione che segnano la sua evoluzione durante questo stadio, determinano le medesime conseguenze dal punto di vista del tempo: le serie temporali cominciano ad applicarsi alle cose stesse, ossia ai legami obiettivi e spaziali che uniscono una causa esterna al suo effetto particolare. In breve, le diverse condotte caratteristiche di questo stadio convergono nel mostrare come il tempo, che dapprima inerisce all'azione propria soltanto, comincia ad applicarsi agli avvenimenti indipendenti dall'io e a costituire così delle «serie obiettive». Ma, nello stesso tempo, concordano nel mostrare come questa obiettivazione resti limitata. Infatti, nei diversi campi a cui ci siamo riferiti, l'obiettivazione propria del quarto stadio rimane relativa e non giunge ancora a liberarsi dal primato dell'attività propria. Così l'«applicazione dei mezzi noti alle situazioni nuove» costituisce solo un termine di transizione tra la semplice reazione circolare e le condotte più complesse che utilizzano senza restrizione i rapporti delle cose tra loro. Così la ricerca dell'oggetto scomparso resta falsata, durante tutto lo stadio, dalla nozione di una posizione privilegiata, la quale deriva, come abbiamo visto, dalle illusioni inerenti all'attività propria. Le stesse osservazioni possono riferirsi allo spazio. Infine la causalità, pur cominciando a spazializzarsi e ad obiettivarsi, resta intermedia tra l'«efficacia» soggettiva e la causalità fisica. L'insieme di queste circostanze pesa certamente sul destino delle serie temporali. Vedremo infatti, studiando ora in particolare i fatti, come l'obiettivazione di queste serie rimanga appena abbozzata, in paragone ai progressi caratteristici degli stadi successivi. I più chiari esempi dell'ordinamento temporale proprio di questo quarto stadio sono quelli messi in luce dall'analisi della nozione di oggetto. Come si è visto nelle oss. 36-38 (cap. I), il bambino di questo stadio è diventato capace di cercare l'oggetto scomparso, quando ha visto che lo si nascondeva dietro uno schermo o che lo schermo veniva ad interporsi tra l'oggetto e il suo sguardo. Dal punto di vista della memoria o della seriazione delle percezioni nel tempo, vi è in ciò una condotta importante perché, per la prima volta, ci sembra, il bambino ricorda una serie di avvenimenti in cui non ha parte alcuna. Infatti, sino ad allora, il bambino cercava l'oggetto scomparso solo se, al momento del suo sparire, era già stato abbozzato un gesto di prensione, che permetteva alla memoria di prolungare l'azione in corso. O anche, con le «reazioni circolari differite», il bambino ritrovava l'azione o le percezioni interrotte riprendendo direttamente l'atteggiamento o la posizione iniziali, il che costituiva un'altra forma di memoria attiva. Le condotte di cui ora parliamo, invece, consistono nell'ordinare nel tempo degli avvenimenti indipendenti dalla propria azione: il bambino percepisce un oggetto (quadro O), poi uno schermo che ha nascosto questo oggetto (quadro P), ma, anche percependo P, conserva il ricordo del quadro O e agisce di conseguenza. Per la prima volta, il bambino dà prova della capacità di ricordarsi gli avvenimenti come tali e non le azioni. Ben inteso, esiste tutta una serie di passaggi tra le semplici reazioni circolari differite e tali condotte. Quando il bambino dello stadio precedente guarda un oggetto O, poi è distratto da P e infine ritorna a O, sembra che egli si ricordi gli avvenimenti come tali e li ordini nel tempo. Ma non abbiamo potuto dare tale interpretazione dei fatti.