/<1974>/ Oggetti dotati di un progetto L'analisi porterebbe alla conclusione che tali oggetti sono strettamente paragonabili, in quanto entrambi concepiti per essere in grado di effettuare spostamenti rapidi, anche se su superfici diverse, il che giustifica le loro differenze di struttura. Se poi, per fare un altro esempio, proponessimo alla macchina di confrontare le strutture e le prestazioni dell'occhio di un vertebrato con quelle di un apparecchio fotografico, il programma non potrebbe che riconoscerne le profonde analogie. Lenti, diaframma, otturatore, pigmenti fotosensibili: le stesse componenti non possono essere state predisposte, nei due oggetti, che per fornire prestazioni simili. Ho citato questo esempio classico tra numerosi altri, di adattamento funzionale negli esseri viventi, unicamente per sottolineare quanto sarebbe arbitrario e sterile voler negare che l'organo naturale, l'occhio, rappresenti la realizzazione di un progetto (quello di captare le immagini), quando si dovrebbe riconoscere tale origine all'apparecchio fotografico. Ciò sarebbe tanto più assurdo in quanto, in ultima analisi, il progetto che sta alla base dell'apparecchio non può essere che lo stesso al quale l'occhio deve la sua struttura. Qualunque "artefatto" è il prodotto dell'attività di un essere vivente, che esprime in tal modo, e con particolare evidenza, una delle proprietà fondamentali caratteristiche di tutti i viventi, nessuno escluso: quella di essere oggetti dotati di un progetto, rappresentato nelle loro strutture e al tempo stesso realizzato mediante le loro prestazioni, ad esempio la creazione di "artefatti". E' indispensabile riconoscere questa nozione come essenziale alla definizione stessa degli esseri viventi, invece di rifiutarla (come hanno tentato di fare alcuni biologi). Anzi diremo che gli esseri viventi si differenziano da tutte le strutture di qualsiasi altro sistema presente nell'universo proprio grazie a questa proprietà, alla quale daremo il nome di teleonomia. Si osserverà, tuttavia, che tale condizione, sebbene necessaria per definire i viventi, non è sufficiente poiché non propone criteri oggettivi che consentirebbero di distinguere tali esseri dagli artefatti, prodotti della loro attività. Non basta osservare che il progetto da cui trae origine un oggetto artificiale appartiene all'animale che lo ha creato e non all'oggetto stesso. Questa nozione evidente è ancora troppo soggettiva e prova ne sia che sarebbe difficile utilizzarla nel programma di un calcolatore: come potrebbe la macchina decidere che il progetto di captare immagini - progetto rappresentato da un apparecchio fotografico - appartiene a un oggetto diverso dall'apparecchio stesso? Se ci si limita all'esame della struttura che è stata realizzata e all'analisi delle sue prestazioni, è possibile individuare il progetto, ma non l'autore. Per identificare l'autore è necessario un programma che studi non soltanto l'oggetto in sé, ma anche la sua origine, la sua storia e, innanzitutto, le sue modalità di costruzione. Nulla vieta, almeno in teoria, di formulare un programma di questo tipo ed esso, anche se fosse piuttosto primitivo, permetterebbe di individuare una radicale differenza tra un oggetto artificiale, per quanto perfezionato, e un essere vivente. La macchina non potrebbe fare a meno di constatare, in effetti, che la struttura macroscopica di un "artefatto" (un raggio di cenette costruito da un'ape, una diga eretta da castori, un'ascia paleolitica o un veicolo spaziale) risulta dall'applicazione ai materiali che lo costituiscono di forze esterne all'oggetto stesso. Una volta realizzata, tale struttura non attesta l'esistenza di forze di coesione interne tra gli atomi o le molecole che costituiscono il materiale (al quale esse conferiscono solo le proprietà generali di densità, durezza, duttilità, ecc.) ma delle forze esterne che lo hanno forgiato. Il programma, in compenso, dovrà registrare il fatto che la struttura di un essere vivente è il risultato di un processo del tutto diverso, nella misura in cui non deve praticamente nulla all'azione delle forze esterne. Vitalismi e animismi Qualunque concezione del mondo - filosofica, religiosa, scientifica -, per il fatto che le proprietà teleonomiche degli esseri viventi mettono apparentemente in dubbio uno dei postulati fondamentali della teoria moderna della conoscenza, presuppone necessariamente una soluzione di questo problema, sia questa soluzione implicita oppure no. Dilemma fondamentale: il rapporto di priorità tra invarianza e teleonomia. Ogni soluzione, qualunque ne sia la motivazione, implica altrettanto inevitabilmente un'ipotesi relativa alla priorità causale e temporale delle due proprietà caratteristiche degli esseri viventi, cioè invarianza e teleonomia, l'una in rapporto all'altra. Riserviamo a un prossimo capitolo l'enunciato e la discussione dell'unica ipotesi che la scienza moderna considera accettabile, cioè che l'invarianza precede di necessità la teleonomia. Per essere più espliciti, si tratta dell'idea darwiniana che la comparsa, l'evoluzione e il progressivo affinamento di strutture sempre più fortemente teleonomiche sono dovuti al sopraggiungere di perturbazioni in una struttura già dotata della proprietà di invarianza, e quindi capace di "conservare il caso" e di subordinarne gli effetti al gioco della selezione naturale. Beninteso, la teoria che io cerco di abbozzare qui brevemente e dogmaticamente non è proprio quella di Darwin che, ai suoi tempi, non poteva avere alcuna idea dei meccanismi chimici dell'invarianza riproduttiva, né della natura delle perturbazioni a cui tali meccanismi soggiacciono. Ma non si toglie nulla al genio di Darwin quando si constata che soltanto in quest'ultimo ventennio la teoria selettiva dell'evoluzione ha acquisito tutto il suo significato, tutta la sua precisione, tutta la sua certezza. Tale teoria è finora l'unica, tra quelle proposte, che sia compatibile con il postulato di oggettività, in quanto riduce la teleonomia a una proprietà secondaria derivata dall'invarianza (la sola proprietà considerata primitiva). Essa è anche l'unica compatibile con la Fisica moderna, non solo, ma poggia sulle sue basi senza restrizioni né corollari e, in definitiva, assicura la coerenza epistemologica della Biologia e le fa posto tra le scienze della "Natura oggettiva": argomento, questo, validissimo in suo favore, ma non sufficiente a giustificarla. Tutte le altre concezioni, esplicitamente proposte per giustificare la stranezza degli esseri viventi o implicitamente velate dalle ideologie religiose e dalla maggior parte dei grandi sistemi filosofici, presuppongono l'ipotesi inversa e cioè che l'invarianza è protetta, l'ontogenesi guidata, l'evoluzione orientata da un principio teleonomico iniziale, di cui tutti questi fenomeni sarebbero manifestazioni. Da qui in poi, fino alla fine del capitolo, analizzerò in modo schematico la logica di queste interpretazioni, che sono molto diverse in apparenza, ma che implicano tutte l'abbandono parziale o totale, confessato o no, cosciente o no, del postulato di oggettività. Sarà utile, per questo motivo, adottare una classificazione di tali concezioni (a dire la verità, un po' arbitraria) in funzione della natura e della supposta estensione del principio teleonomico a cui esse si richiamano. E' così possibile definire un primo gruppo di teorie, cioè quelle che ammettono un principio teleonomico, i cui interventi si presuppongono espressamente limitati all'ambito della biosfera, cioè all'ambito della "materia vivente". Alcuni possono correre a una velocità superiore ai 70 km orari, altri si arrampicano sugli alberi con sorprendente agilità, altri ancora hanno conquistato l'aria realizzando, prolungando e ampliando in modo prodigioso il "sogno" di quel pesce ancestrale. Il fatto che, nell'evoluzione di certi gruppi, si osservi una tendenza generale, mantenutasi per milioni di anni, verso lo sviluppo apparentemente orientato di determinati organi, è la prova di come la scelta iniziale di un certo tipo di comportamento (per esempio di fronte all'aggressione di un predatore) impegni la specie a perfezionare continuamente le strutture e le prestazioni che di tale comportamento costituiscono il supporto. Proprio per il fatto che gli antenati del cavallo scelsero di vivere in pianura e di fuggire all'approssimarsi di un predatore (piuttosto che tentare di difendersi o di nascondersi), la specie moderna, in seguito a una lunga evoluzione che include molteplici stadi di riduzione, cammina oggi sulla punta di un solo dito. Sappiamo che certi comportamenti molto precisi e complessi, come la parata prenuziale degli Uccelli, sono strettamente collegati a certe caratteristiche morfologiche particolarmente vistose. E' indubbio che l'evoluzione di un simile comportamento e quella del carattere anatomico che ne è alla base sono andate di pari passo, l'una richiamando e rafforzando l'altra sotto la spinta della selezione sessuale. Non appena comincia a svilupparsi in una specie, qualsiasi livrea che contribuisca al buon esito dell'accoppiamento non fa che rafforzare, in definitiva confermare, la pressione selettiva iniziale e, di conseguenza, favorisce ogni suo abbellimento. E' dunque legittimo affermare che è stato l'istinto sessuale, cioè dopo tutto il desiderio, a creare le condizioni per la selezione di certi magnifici piumaggi. Lamarck pensava che la tensione stessa degli sforzi compiuti da un animale per "riuscire nella vita" agisse sul suo patrimonio genetico per incorporarvisi e modellare direttamente la sua discendenza. Il collo smisurato della giraffa esprimeva, in definitiva, la volontà costante dei suoi antenati di raggiungere i rami più alti degli alberi. Anche se tale ipotesi appare oggi inaccettabile, si deve riconoscere che la selezione pura, agendo sugli elementi del comportamento, sfocia nel risultato che Lamarck voleva spiegare: lo stretto rapporto reciproco tra gli adattamenti anatomici e le prestazioni specifiche. Il problema delle pressioni selettive che hanno orientato l'evoluzione dell'uomo deve essere inquadrato nei termini appena citati. Esso è di uno straordinario interesse, anche indipendentemente dal fatto che si tratta di noi stessi e che, cercando nell'evoluzione le radici del nostro essere, si potrebbe giungere a comprenderlo meglio nella sua attuale natura. Infatti un osservatore imparziale, ad esempio un marziano, dovrebbe indubbiamente riconoscere che lo sviluppo della prestazione specifica dell'uomo, il linguaggio simbolico, avvenimento unico nella biosfera, ha schiuso la via a un'altra evoluzione, creatrice di un nuovo regno: quello della cultura, delle idee, della conoscenza. Il linguaggio e l'evoluzione dell'uomo Avvenimento unico: i linguisti moderni hanno insistito sul fatto che il linguaggio simbolico dell'uomo non può essere assolutamente ridotto ai mezzi di comunicazione molto diversi (uditivi, tattili, visivi, ecc.) impiegati dagli animali. Tale atteggiamento è senza dubbio giustificato. Ma da questo ad affermare che, nell'evoluzione, vi è stata una discontinuità assoluta, che il linguaggio umano fin dalle origini non doveva assolutamente nulla, ad esempio, a un sistema di richiami e di avvertimenti vari come quelli che si scambiano le scimmie antropomorfe, mi sembra davvero un passo troppo lungo da compiere o comunque un'ipotesi inutile. Dopo quest'altra parentesi torniamo alle origini della conoscenza. L'animismo - come abbiamo detto - non vuole, né d'altronde può, stabilire una linea di demarcazione assoluta tra proposizioni di conoscenza e giudizi di valore; infatti, se si suppone che, nell'Universo, sia presente un'intenzione, sia pur accuratamente nascosta, che senso avrebbe una simile distinzione? In un sistema oggettivo, invece, è bandita ogni confusione tra conoscenza e valori. Tuttavia (e questo è il punto fondamentale, l'articolazione logica che associa, alle radici, conoscenza e valori) neppure quest'interdizione, questo "primo comandamento" che fonda la conoscenza oggettiva è o potrebbe essere oggettivo: è una regola morale, una disciplina. La conoscenza vera ignora i valori, ma per fondarla è necessario un giudizio, o piuttosto un assioma di valore. E' evidente che il porre il postulato di oggettività come condizione della conoscenza vera rappresenta una scelta etica e non un giudizio di conoscenza, in quanto, secondo il postulato stesso, non può esservi conoscenza "vera" prima di tale scelta arbitraria. Per stabilire la norma della conoscenza, il postulato di oggettività definisce un valore che costituisce la stessa conoscenza oggettiva. Accettare questo postulato significa enunciare la proposizione di base di un'etica: l'etica della conoscenza. L'etica della conoscenza Nell'etica della conoscenza, la scelta etica di un valore primitivo fonda la conoscenza. Per questo essa è radicalmente diversa dalle etiche animistiche che si vogliono tutte fondate sulla conoscenza di leggi immanenti, religiose o naturali, che si imporrebbero all'uomo. L'etica della conoscenza non si impone all'uomo; al contrario è l'uomo che se la impone, facendone assiomaticamente la condizione di autenticità di qualsiasi discorso o di qualsiasi azione. Il Discorso sul Metodo propone un'epistemologia normativa ma deve anche, e soprattutto, essere letto come meditazione morale, come ascesi dello spirito. Il discorso autentico fonda a sua volta la scienza e rimette nelle mani dell'uomo gli immensi poteri che oggi lo arricchiscono e lo minacciano. Lo liberano ma potrebbero anche renderlo schiavo. Le società moderne, che sono intessute di scienza, che vivono dei suoi prodotti, dipendono ormai da essa come un intossicato dalla droga. Esse devono la loro potenza materiale a quest'etica fondatrice della conoscenza e la loro debolezza morale ai sistemi di valori, distrutti dalla conoscenza stessa e ai quali esse tentano ancora di riferirsi. Questa contraddizione è fatale. Essa scava quella voragine che vediamo aprirsi sotto di noi. L'etica della conoscenza, creatrice del mondo moderno, è la sola compatibile con esso, la sola capace, una volta compresa e accettata, di guidare la sua evoluzione. Compresa e accettata, potrà mai esserlo? Se è vero - e ne sono convinto - che l'angoscia della solitudine e l'esigenza di una spiegazione totale, vincolante, sono innate; che questo retaggio venuto dall'abisso dei tempi non è soltanto culturale ma senza dubbio genetico, è possibile pensare che quest'etica, così austera, astratta, orgogliosa, possa lenire l'angoscia, appagare l'esigenza? Non lo so. Ma forse in fondo ciò non è del tutto impossibile. Forse, più che di una spiegazione che l'etica della conoscenza non sarebbe in grado di fornire, l'uomo ha bisogno di superamento e di trascendenza? La potenza del grande sogno socialista, che è sempre vivo negli animi, sembra attestarlo. Nessun sistema di valori può pretendere di costituire una vera etica, a meno di non proporre un ideale che trascenda l'individuo al punto da giustificarne, se è il caso, anche il sacrificio. Per l'elevatezza stessa della sua ambizione, l'etica della conoscenza potrebbe forse soddisfare quest'esigenza di superamento. Essa definisce un valore trascendente, la conoscenza vera, e propone all'uomo non di servirsene ma ormai di servirla con una scelta deliberata e cosciente.