/<1986>/ LA TRACCIA DELLA CARNE. Lungo le due rive del fiume gelato si stendeva la cupa e tetra foresta di abeti, dai quali il vento aveva appena spazzato il manto di brina. Nella luce crepuscolare quegli alberi neri e sinistri sembravano inclinarsi l'uno verso l'altro. Un silenzio minaccioso incombeva sul paesaggio, privo di qualsiasi segno di vita o di movimento e talmente desolato e freddo da non poter ispirare che un solo sentimento: quello della più triste malinconia. E nello stesso tempo pareva che da quel paesaggio trapelasse una specie di riso, un riso ben più spaventoso di qualsiasi malinconia o tristezza, un riso tragico, come quello di una sfinge, un riso agghiacciante più della brina e che rammentava l'incombere minaccioso dell'ineluttabile. Era la saggezza potente ed impenetrabile dell'eternità che irrideva alla vita, alla sua futilità ed agli sforzi degli uomini. Era il Wild, il selvaggio Wild delle spietatamente gelide terre del nord. Eppure la vita ardita esisteva anche lì un po' più lontano, in quel paesaggio sconfinato. Infatti lungo il fiume gelato si affaticava una muta di cani-lupo. Avevano il pelame arruffato ed irto di ghiaccioli: appena uscito dalla loro bocca, il fiato si congelava, ricadendo sul pelo sotto forma di piccoli cristalli. I cani, bardati con finimenti di cuoio, erano attaccati, mediante cinghie di corame, ad una slitta che li seguiva a distanza. La slitta, senza pattini, era costruita con grosse cortecce di betulla e calcava sulla neve con tutta la superficie. La parte anteriore era rialzata a forma di cilindro, in modo da poter forzare il passaggio attraverso i cumuli di neve che le venivano incontro, come onde del mare. Sulla slitta c'era una gran cassa oblunga, saldamente fermata con delle corde. Ma c'erano anche delle altre cose: qualche coperta, un'ascia, una caffettiera ed una padella per friggere. Però ciò che dava nell'occhio e che occupava lo spazio maggiore era appunto la cassa lunga e stretta. Davanti ai cani si affaticava un uomo, calzato di lunghe racchette da neve; la slitta era seguita da un altro uomo. E sulla slitta, nella cassa, giaceva un terzo uomo che aveva finito di affaticarsi; il Wild lo aveva stroncato ed abbattuto, impedendogli per sempre di muoversi e di lottare. Perché il Wild odia tutto ciò che è movimento. La vita, appunto in quanto movimento, è un'offesa per questa entità selvaggia: e perciò essa distrugge il movimento. Il Wild gela le acque, per impedire il loro deflusso al mare; succhia la linfa degli alberi, fino a farli morire assiderati; e, con ferocia irremovibile, si accanisce per soggiogarlo e sottometterlo contro l'uomo, che è l'essere più irrequieto, in continua rivolta contro le leggi della natura, la quale stabilisce che qualsiasi movimento, ad un certo punto, deve finire. Eppure, indomiti e senza perdersi d'animo, l'uno davanti e l'altro dietro alla slitta, i due uomini ancor vivi proseguivano la loro fatica. Essi erano ricoperti di morbide pellicce e di pelli conciate. Era impossibile distinguere i volti dei due uomini, poiché i ghiaccioli del fiato raggelato ricoprivano loro completamente le sopracciglia, le guance e le labbra. Sembravano becchini mascherati i quali, in un modo sepolcrale, seguissero il funerale di qualche fantasma. Ma sotto quella maschera si celavano due uomini, che avanzavano in quella desolata terra di delusioni e di silenzi, affrontando coraggiosamente l'avventura superiore alle loro forze e battendosi contro quel mondo ignoto, nemico ed impassibile come gli abissi infiniti dello spazio. Dato l'enorme sforzo fisico cui erano sottoposti i loro corpi, essi risparmiavano persino il fiato, procedendo senza scambiare una sola parola. Il silenzio, che li circondava da tutte le parti, incombeva su di loro, invisibile, ma presente opprimeva le loro menti, così come l'acqua grava, con tutto il proprio volume, sul palombaro; li schiacciava col peso della sua vastità infinita ed incommensurabile; penetrava nei più remoti recessi della loro mente, spremendone così come si spreme il succo dall'uva tutti i falsi ardori, le esaltazioni e le presunzioni dell'anima umana. Dovevano finire per accorgersi di essere delle piccole cose insignificanti polvere e atomi che si muovevano con volontà debole e priva di forza, in mezzo all'equilibrato giuoco di forze degli elementi ciechi e delle energie cosmiche. Trascorse un'ora e poi un'altra ancora. La pallida luce della corta giornata senza sole impallidiva sempre più; d'un tratto si sentì nell'aria tranquilla un grido debole e lontano che andò gradatamente crescendo di intensità, sinché non divenne acuto, tremulo e sonoro, persistente su questo tono, finché, decrescendo a poco a poco, non morì. Avrebbe potuto essere il richiamo di un'anima perduta, se non fosse stato impregnato di una ferocia selvaggia. L'uomo che marciava in testa girò gli occhi, finché non incontrò quelli del compagno che lo seguiva. Al di sopra della stretta ed oblunga cassa, essi si scambiarono un segno di intesa. Un secondo grido ruppe il silenzio. Tutti e due gli uomini ne individuarono la provenienza: veniva da dietro a loro, da un punto dell'immensa distesa che avevano attraversato. Poi un terzo grido rispose ai primi due, poco dietro a loro, alla sinistra del secondo urlo. Inseguono noi, Bill fece l'uomo che precedeva la slitta. La sua voce risuonò rude ed irreale; sembrava che il parlare gli costasse molta fatica. La carne è scarsa rispose il compagno. Da giorni non ho visto alcuna traccia, nemmeno di un coniglio. Non parlarono più, ma rimasero con l'orecchio teso verso quei richiami di caccia che continuavano a risuonare alle loro spalle. Quando caddero le tenebre, essi riunirono i cani sotto un gruppo di abeti, in riva al fiume, ed ivi si accamparono essi stessi. La bara, collocata accanto al fuoco, servì loro, ad un tempo da sedile e da tavola. I cani, raggruppati dalla parte opposta del fuoco, ringhiarono e si azzuffarono, ma nessuno di essi dimostrò il desiderio di mettersi in salvo nelle tenebre. Mi sembra, Enrico, che essi siano straordinariamente affezionati al nostro campo! commentò Bill. Enrico, chino sul fuoco, stava riempiendo la caffettiera con dei pezzi di ghiaccio; con un cenno della testa approvò. Poi si sedette sulla bara e cominciò a mandare giù qualche boccone; solo allora rispose: Essi sanno dove la loro pelle è al sicuro. Preferiscono mangiare piuttosto che essere mangiati. Sono furbi, i cani. Ma, non lo so! fece Bill e scosse la testa. Il compagno lo guardò curiosamente: E' la prima volta che vi vedo dubbioso per ciò che concerne l'intelligenza dei cani. Enrico esclamò Bill mentre masticava con forza una manciata di fave avete notato come i cani si siano messi in agitazione, quando ho portato loro il pasto? Si sono dimenati più del solito confermò Enrico. Quanti cani abbiamo? Sei... Bene, Enrico... e Bill tacque per un istante, come per dare maggior risalto alle parole che stava per dire. Si diceva dunque che abbiamo sei cani. Ed io ho levato dalla bisaccia sei pesci, distribuendone uno per ciascuna bestia. Ebbene, Enrico mi mancava un pesce. Avrete contato male. Noi abbiamo sei cani ripeté Bill impassibile. Io ho levato sei pesci, ma One Eoar è rimasto senza. Sono tornato alla sacca ed ho preso per lui un altro pesce. Ma noi abbiamo solo sei cani! replicò Enrico. Non voglio dire che fossero tutti cani proseguì Bill imperterrito ma il pesce l'hanno avuto in sette. Enrico smise di mangiare, gettò un'occhiata attraverso il fuoco e contò i cani. Poi disse: Ora sono solamente sei. Mi sono accorto che l'altro è fuggito attraverso la neve. E con fredda sicurezza Bill affermò: Io ne ho visti sette. Sarò molto felice quando questo viaggio sarà finito. Che pensate voi di questo fatto? insisté Bill. Penso che le dure fatiche vi hanno scosso i nervi e che cominciate a stravedere. Ho pensato così anch'io! fece gravemente Bill. E così, quando l'ho visto fuggire, ho guardato nella neve e ne ho viste le orme. Allora ho ricontato i cani: erano proprio sei. Le orme sulla neve sono ancora chiaramente visibili. Le volete vedere? Ve le mostro subito! Enrico non rispose e continuò a masticare in silenzio. Quando ebbe finito di mangiare, coronò il pasto con una tazza di caffè. Poi si asciugò la bocca col dorso della mano ed esclamò: Ed allora voi pensate che sia stato... Un grido di richiamo lungo, lugubre e selvaggio allo stesso tempo, sorse dalle tenebre; Enrico si interruppe per ascoltare, poi, con un gesto della mano verso la direzione nella quale era echeggiato il grido, finì la frase:... uno di quelli? Bill annuì. Darei non so che cosa per pensare diversamente. Voi stesso avete rilevato il chiasso fatto dai cani! Un richiamo seguiva l'altro, trasformando il silenzio in un manicomio. I gridi sorgevano da tutte le direzioni ed i cani ne furono talmente spaventati, che si ammucchiarono l'uno sull'altro, avvicinandosi alla fiamma a tal punto, da averne il pelo bruciacchiato. Bill alimentò il fuoco con altra legna; quindi accese la pipa. Penso che questo qui è ormai al sicuro! esclamò Enrico. Enrico... Bill aspirò con aria pensierosa il fumo della pipa, prima di proseguire. Enrico, penso che egli e col pollice indicò il terzo compagno chiuso nella cassa sulla quale stavano seduti sia molto più felice di quanto non lo potremo mai essere né voi né io! Voi ed io, Enrico, quando moriremo, potremo essere contenti se avremo al di sopra delle nostre carcasse qualche pietra, tanto da tenere lontani i cani. Ma noi non abbiamo avuto né una nascita insigne, né tutto il resto che ha avuto lui soggiunse Enrico. L'unica cosa che gli possiamo offrire sono dei lunghissimi funerali! In quanto a me, Enrico, non riesco proprio a comprendere perché un uomo come questo che nel suo paese deve essere stato un lord o qualcosa del genere e certamente non ha mai dovuto lottare né per mangiare né per avere una cuccia, sia venuto a portare i suoi stivali in giro per questo estremo lembo di terra, abbandonata da Dio! Avrebbe potuto godersi una bella vecchiaia, se fosse rimasto a casa sua! continuò Enrico, con un cenno di approvazione. Bill aprì la bocca per parlare; ma cambiò idea e fissò gli occhi verso quell'opprimente muro di oscurità che li circondava da ogni lato. Nel buio assoluto, nel quale non si distinguevano i contorni di alcuna forma, spiccava solo un paio di occhi, lucenti come della brace. Ad un tratto, con la testa, Enrico ne indicò un secondo paio e poi un terzo. Attorno al loro campo si era stesa una cerchia di occhi fiammeggianti. Ogni tanto un paio di questi occhi si muoveva, per sparire e per ricomparire subito dopo. Il terrore dei cani era aumentato e, come se fossero improvvisamente impazziti di paura, essi balzarono ancora più vicino al fuoco, accucciandosi e rannicchiandosi tra le gambe degli uomini.