/<1991>/ La sera dopo, avevo combinato di andare a Lubecca da un vecchio polacco che aveva iniziato una corrispondenza clandestina con un lontano nipote a Varsavia. Il ragazzo seguiva un corso di addestramento all'uso dei cifrari nel servizio diplomatico polacco e voleva fare la spia in cambio di una sistemazione in Australia. La Stazione di Londra stava pensando di contattarlo direttamente. Tornai ad Amburgo e dormii come un sasso. Il mattino dopo, mentre stavo ancora scrivendo il mio rapporto, un messaggio da Londra mi comunicò che il Daisy aveva completato con successo il rifornimento di carburante a Sundre e si stava dirigendo verso il Golfo di Finlandia con a bordo il passeggero Volodia. Telefonai a Bella per annunciarle che tutto stava andando bene, e lei mi disse: «Ti prego, vieni da me». Passai la mattina al commissariato di polizia di Reeperbahn per liberare un paio di marinai mercantili britannici che, ubriachi, avevano demolito un bordello e il pomeriggio a un agghiacciante tè organizzato dalle mogli del personale consolare per raccogliere fondi per la Settimana del prigioniero politico. Avrei voluto che quei marinai mercantili avessero demolito anche questo bordello. Arrivai alla casa colonica alle otto di sera e andammo subito a letto. Alle due del mattino suonò il telefono e rispose Bella. Era il mio addetto al cifrario che mi chiamava dall'ufficio spedizioni: un "decifrare di persona", con priorità assoluta. Era necessaria la mia presenza immediata. Corsi come il vento e arrivai in ufficio in quaranta minuti. Sedendomi davanti ai cifrari, mi accorsi di avere ancora gli odori di Bella sul viso e sulle mani. Il messaggio era stato trasmesso col simbolo di Haydon, personale per il capo della Stazione di Amburgo. Gli uomini sbarcati dal Daisy, diceva, erano stati sottoposti a un fuoco intenso da posizioni prestabilite. Non si avevano notizie né del battello né delle persone a bordo, vale a dire di Antons Durba e del suo passeggero, nonché, presumibilmente, di chi li aspettava sulla spiaggia. Non erano arrivate comunicazioni dai patrioti estoni. Il Daisy aveva avvistato i segnali ultravioletti sulla costa, ma una sola serie completa di quelli concordati, e si supponeva che la squadra estone fosse stata catturata subito dopo aver attirato gli uomini del battello al loro destino. Era una storia già nota, anche se vecchia di cinque anni. La radio di ripiego di Tallinn non rispondeva. Io dovevo tenere per me l'informazione, e tornare a Londra col primo volo del mattino. Mi era già stato riservato un posto. Toby Esterhazy sarebbe venuto a prendermi a Heathrow. Scarabocchiai una ricevuta e la consegnai al mio impiegato, che la prese senza far commenti. Lui sa, pensai. E come potrebbe non sapere? Mi aveva telefonato alla casa colonica e aveva parlato con Bella. Il resto poteva leggermelo in viso e, per quanto mi risultava, poteva anche sentirne l'odore. Stavolta nella stanza di Haydon non c'erano bastoncini d'incenso accesi e lui sedeva alla scrivania. Aveva da una parte Roy Bland, il suo capo per l'Europa orientale, e dall'altra Toby Esterhazy. Non era mai stato facile definire i compiti di Toby, poiché lui preferiva lasciarli nel vago, nella speranza che si moltiplicassero. Ma era in pratica il tirapiedi di Haydon, un ruolo che in seguito gli sarebbe costato molto caro. Con mia sorpresa vidi anche George Smiley, seduto con aria triste sul bordo della chaise longue di Haydon, ma soltanto tre anni dopo cominciai a capire l'aspetto simbolico della sua posizione. « E' un lavoro dall'interno» disse Haydon senza preliminari. «La missione è stata fatta saltare in aria con molto anticipo. Se Durba non è affondato con il battello, a quest'ora sta dondolando appeso ai pollici e sta raccontando tutto. Volodia non sa molto, ma per lui può essere una disgrazia, perché quelli che lo interrogano non gli crederanno e in più deve spiegare il suo paniere pieno di esplosivi. Forse ha preso la pillola, ma ne dubito. E' troppo stupido.» «Dov'è Brandt?» dissi. «Seduto sotto una luce accecante nell'ala interrogatori di Sarratt, a muggire come un toro. Da qualche parte qualcuno ha spifferato tutto. Stiamo chiedendo a Brandt se per caso sia stato lui. Se no, chi? E' una copia carbone del casino dell'ultima volta. Stanno interrogando separatamente tutti i membri dell'equipaggio.» «Dov'è il Daisy?» Nel 1944 Seidl, mentre lavorava come bracciante nei pressi di Cirencester, nelle condizioni tutt'altro che rigide con cui erano allora trattati i prigionieri di guerra tedeschi, riuscì a conquistare una contadina inglese. Le guardie di servizio al campo presero l'abitudine di lasciargli una bicicletta davanti al cancello principale, con un cappotto militare sul manubrio per nascondere la sua casacca di prigioniero. Purché Seidl si facesse trovare a letto per la sveglia, erano disposte a chiudere un occhio. E Seidl non dimenticò mai la sua gratitudine per gli inglesi. Quando nacque un bambino, le guardie e gli altri prigionieri assistettero al battesimo. Carino, eh? Gli inglesi al meglio di se stessi. Ma questa storia non ti ricorda qualcosa?» «Come potrebbe? Lei sta parlando di un agente!» «Un agente bruciato. Uno di quelli di Ben. Le esperienze di Haggarty nel campo di concentramento tedesco non furono così esaltanti. Ma lasciamo stare. Nel 1949, quando lavorava ufficialmente per la Commissione di controllo, Haggarty abbordò Seidl in un bar di Hannover, lo reclutò e lo rispedì in Germania orientale, nella natia Lipsia. Lo gestisce da allora. L'amicizia tra Haggarty e Seidl è stata per quindici anni la chiave di volta della Stazione di Berlino. La settimana scorsa, quando lo arrestarono, Seidl era il numero quattro del ministero degli Esteri della Germania Est. E' stato anche ambasciatore all'Avana. Ma tu non lo hai mai sentito nominare. Non ti hanno mai fatto il suo nome. Né Ben né altri.» «No» risposi con tutta la noia di cui ero capace. «Una volta al mese Haggarty aveva l'abitudine di andare a Berlino Est per interrogare Seidl - a bordo di una macchina, in un appartamento sicuro, sulla panchina di un parco o in qualche altro posto - la solita routine. Dopo il Muro il servizio fu sospeso per qualche tempo, ma poi tornarono a incontrarsi con molta cautela. Il trucco consisteva nel passare dall'altra parte su un veicolo della Commissione quadripartita - per esempio su una jeep militare - introdurre un sostituto, saltare giù al momento giusto e raggiungere nuovamente il veicolo in un punto prestabilito. Sembra pericoloso, e lo era, ma con la pratica funzionò. Quando Haggarty era in licenza o malato, non c'erano incontri. Un paio di mesi fa Sede Centrale decise che Haggarty doveva presentare Seidl a un successore. Haggarty ha superato l'età della pensione, Willis è a Berlino da tanto tempo che quasi non ne può più, e poi conosce troppi segreti per poter andare in giro oltre la Cortina di ferro. Per questo fu mandato a Berlino Ben. Era incontaminato. Pulito. Fu Haggarty in persona a impartirgli le istruzioni - in maniera esauriente, suppongo. Sicuramente non fu misericordioso. Haggarty non è un uomo misericordioso e una rete di dodici uomini può essere una faccenda complessa: chi fa un certo lavoro e perché; chi conosce l'identità di altri; i cifrari, i corrieri, i nomi di copertura, i simboli, le radio, le cassette postali, gli inchiostri, le macchine, gli stipendi, i figli, i compleanni, le mogli, gli amanti. Una quantità di cose che bisogna ficcarsi in testa contemporaneamente.» «Lo so.» «Te lo ha detto Ben?» Stavolta non abboccai. Ero ben deciso a non farlo. «Lo abbiamo imparato durante il corso» dissi. «Ad infinitum.» «Sì, lo immagino. Il guaio è che la teoria non corrisponde mai alla realtà, vero? Chi è il suo miglior amico, a parte te?» «Non lo so.» Ero stupito dal brusco cambiamento del discorso. «Jeremy, immagino.» «Jeremy chi?» «Galt. Era uno del corso.» «E le donne?» «Gliel'ho già detto. Nessuna di speciale.» «Haggarty voleva portare con sé Ben a Berlino Est, per fare personalmente le presentazioni» riprese Smiley. «Il Quinto Piano non approvò. Stavano cercando di svezzare Haggarty dal suo agente e non volevano mandare due uomini in una zona pericolosa dove ne bastava uno. Allora Haggarty spiegò a Ben le procedure per l'appuntamento su una mappa stradale, e Ben andò a Berlino Est da solo. Il mercoledì fece un giro di prova per perlustrare i luoghi. Il giovedì ci tornò, questa volta sul serio. Entrò legalmente su una Humber della Commissione di controllo. Superò Checkpoint Charlie alle tre del pomeriggio e scese dalla macchina nel punto stabilito. Lui rise e disse che suo padre era un vecchio imbecille al quale interessavano soltanto la vodka e le patate. E allora perché? Per cinque anni Jerzy fu la mia università segreta dello spionaggio, ma il suo disprezzo per i moventi in genere - e per i propri in particolare - non venne mai meno. Secondo lui gli uomini erano tutti idioti, mi disse, e noi spie più di chiunque altro. Sulle prime sospettai che spiasse per vendetta e cercai di farlo parlare di quei suoi superiori gerarchici che potevano averlo offeso. Ma lui li odiava tutti, e più ancora odiava se stesso. Poi decisi che si fosse messo a fare la spia per ragioni ideologiche e che il suo cinismo nascondesse aspirazioni più nobili scoperte in età matura. Ma quando tentavo di giocare d'astuzia per abbattere questo cinismo - «La tua famiglia, Jerzy, tua madre, Jerzy. Riconosci che sei orgoglioso di essere diventato nonno» - trovavo soltanto altro cinismo. Non sentiva niente per nessuno di loro, ribatteva, e in un tono così gelido da farmi concludere che davvero, come sosteneva, odiasse l'intera specie umana, e che la sua ferocia, forse anche il suo tradimento, fossero semplicemente un'espressione di questo odio. In quanto all'Occidente era guidato da quegli stessi idioti che guidano ogni cosa, e allora che differenza c'è? E quando gli dissi che non era assolutamente vero, cominciò a difendere la propria fede nichilista come un fanatico qualsiasi, e io dovetti trattenermi perché temevo di farlo arrabbiare sul serio. E allora perché? Perché rischiare la pelle, la vita, i mezzi di sostentamento, la famiglia odiata, per aiutare un mondo che disprezzava? La Chiesa? Gli domandai anche questo e, significativamente, così penso adesso, si inalberò. Cristo era un maniaco depressivo, ribatté. Cristo aveva bisogno di suicidarsi in pubblico, e provocò le autorità finché non gli fecero questo favore. «I tifosi di Dio sono tutti uguali» disse con disprezzo. «Io li ho torturati. Lo so.» Come quasi tutti i cinici, era un puritano, e questo paradosso si ripresentava in lui in modi differenti. Quando gli offrimmo di depositare somme a suo nome, di aprirgli un conto in Svizzera, le solite cose insomma, andò su tutte le furie e proclamò di non essere "un informatore qualsiasi". «Io sono un miserabile polacco, ma preferirei affrontare un plotone d'esecuzione di miserabili come me piuttosto che morire da traditore in un porcile capitalistico». In quanto alle altre consolazioni della vita, non potevamo offrirgli nulla che già non avesse. Sua moglie, disse, era una bisbetica e tornare a casa dopo una pesante giornata in ufficio lo annoiava. Allora perché? non cessavo di domandarmi, una volta esaurito l'elenco dei moventi consueti. Quando il Centro di Mosca gli mandava istruzioni, ne eravamo messi al corrente prima che le passasse ai suoi scagnozzi. Fotografava tutto ciò che gli arrivava a tiro; correva rischi che io lo supplicavo di evitare. Era talmente temerario che a volte mi domandavo se, come quel Cristo che era così determinato a negare, stesse cercando anche lui una morte in pubblico. Era soltanto la sua instancabile efficienza in quello che ci divertiva chiamare il suo lavoro di copertura a stornare da lui ogni sospetto. Di fatto era questo il lato oscuro del suo atto di compensazione; e che Dio aiutasse l'agente occidentale, reale o soltanto sospetto, invitato a fare una confessione volontaria davanti a Jerzy. Soltanto una volta nei cinque anni in cui fui il suo superiore diretto, parve lasciarsi sfuggire l'indizio che io stavo cercando. Era mortalmente stanco. Aveva partecipato a Bucarest a un incontro tra i capi dei servizi segreti del Patto di Varsavia. Non c'è l'indirizzo del mittente. Non c'è mai. Quella sera, non avendo molto altro da fare, bevvi un paio di Scotch allo Sherlock Holmes e andai poi a Sede Centrale dove firmai il registro della sala di lettura dell'Archivio e tirai fuori alcuni fascicoli. L'indomani mattina alle dieci, ora delle visite, mi sedetti nella sala d'aspetto di Burr, dopo aver compitato il mio nome alla sua vistosa assistente personale che sembrava non averlo mai udito. Mi precedeva nella coda Brock della Stazione di Mosca. Discutemmo intensamente di cricket, finché non fu chiamato il suo nome e riuscimmo a non menzionare il fatto che aveva lavorato per me nella Casa Russia, ultimamente per il caso Blair. Un paio di minuti dopo arrivò Peter Guillam con una pila di fascicoli stretti al petto e con evidenti postumi di sbornia. Era diventato da poco il capo della segreteria di Burr. «Ti dispiace se passo prima di te, vecchio mio? Mi hanno mandato a chiamare con urgenza. Quel maledetto uomo sembra convinto che io lavori anche quando dormo. Qual è il tuo problema?» «La lebbra» dissi. Non c'è niente più del Servizio - se non, forse, Mosca - che ti faccia diventare una non persona dall'oggi al domani. Nel terremoto seguito alla defezione di Barney Blair, neanche il predecessore di Burr, il versatile Clive, aveva saputo conservare il suo punto d'appoggio sul viscido ponte del Quinto Piano. L'ultima volta che si era udito il suo nome, stava andando ad assumere il salubre incarico di capo della Stazione della Guyana. Sembrava che soltanto il nostro pusillanime consulente legale, Harry Palfrey, fosse sopravvissuto, come al solito, ai cambiamenti, e quando entrai nel luccicante appartamento dirigenziale di Burr, lo stesso Palfrey stava uscendo furtivo dall'altra porta - ma non fu abbastanza rapido e dovette quindi elargirmi un rapsodico sorriso. Da un po' di tempo si era fatto crescere i baffi per mostrare una maggiore integrità. «Ned! Meraviglioso! Dobbiamo fare quel pranzo» soffiò in un sussurro eccitato prima di sparire sotto la linea di galleggiamento. Come il suo ufficio, Burr era un uomo totalmente moderno. Da dove venisse era per me un mistero, ma dopo tutto non ero più nel giro. Qualcuno mi aveva detto dalla pubblicità, qualcun altro dalla City, qualcun altro ancora dalle Inns of Court. Uno spiritoso dell'ufficio spedizioni del Pool disse che non veniva da nessuna parte; che era nato così com'era, odoroso di dopobarba e di potere, col suo completo blu da dirigente e le sue scarpe di vernice nera con le fibbie laterali. Era grosso e fluttuante e ridicolmente giovane. Quando ti porgeva la sua mano flaccida, dovevi subito allentare la stretta per paura di ammaccarla. Sulla sua scrivania da dirigente c'era il fascicolo aperto di Frewin, sulla cui copertina era stato appuntato il mio promemoria, scritto la sera prima a tarda ora. «Da dove viene la lettera?» domandò con la sua monotona cadenza settentrionale, prima ancora che io mi sedessi. «Non lo so. Comunque è bene informata. Chi l'ha scritta si è documentato.» «Probabilmente è il miglior amico di Frewin» disse Burr, come se fosse per questo che erano famosi i migliori amici. «E' stato preciso sui dati di Modrian ed è stato preciso sui poteri d'accesso di Frewin» dichiarai. «Conosce la procedura delle indagini di controllo.» «Ma non è un'opera d'arte, vero? Non se sei nel giro. Con ogni probabilità un collega. O la sua ragazza, Cosa vuoi chiedermi?» Non mi aspettavo un interrogatorio così serrato. Dopo sei mesi nel Pool, non ero più abituato a che mi si facesse fretta. «Suppongo di aver bisogno di sapere se vuoi che io svolga un'indagine approfondita» dissi. «Perché non dovrei volerlo?» I poteri d'accesso di Frewin sono impressionanti. La sua sezione si occupa di alcuni dei messaggi più delicati che passano per Whitehall. Pensavo che avresti preferito affidare l'incarico al Servizio di sicurezza.» «Perché?» « E' competenza loro. Ammesso che ci sia qualcosa, riguarda decisamente la sicurezza.» E' natura anche questo. Il padrone originario di questa casa - l'uomo che costruì questa casa, l'uomo che la pagò, l'uomo che mandò il suo architetto in Italia a imparare il mestiere - quell'uomo possedeva schiavi e alloggiava i suoi schiavi nella cantina di questa casa. Lei crede che oggi non ci siano schiavi? Che il capitale non dipenda dagli schiavi? Ma che specie di azienda gestite, Cristo? Io normalmente non parlo di filosofia, ma ho paura che non mi piaccia nemmeno sentirmela predicare. Non lo sopporto, vede. Non in casa mia. Mi annoia. Non mi arrabbio facilmente, sono famoso per la mia freddezza. Ma ho una certa visione della natura; dò lavoro alla gente e intasco la mia parte.» Io non dissi niente, e anche questo è registrato. Cosa puoi dire davanti a un assoluto? Per tutta la vita mi ero battuto contro un male istituzionalizzato. Aveva avuto un nome, e il più delle volte anche un Paese. Aveva avuto una finalità collettiva e fece una fine collettiva. Ma il male che mi stava ora davanti era un bambino distruttore in mezzo a noi, e io divenni a mia volta un bambino, disarmato, ammutolito e tradito. Per un attimo fu come se per tutta la vita avessi combattuto il nemico sbagliato. Poi fu come se Bradshaw mi avesse personalmente sottratto i frutti della mia vittoria. Ricordai l'aforisma di Smiley sulla gente giusta che aveva perso la Guerra fredda e sulla gente sbagliata che l'aveva vinta, e pensai di ripetergliela come una sorta d'insulto, ma sarebbe stato come pestare acqua nel mortaio. Pensai di dirgli che, adesso che avevamo sconfitto il comunismo, dovevamo prepararci a distruggere il capitalismo, ma in realtà non era questa la mia opinione: il male non era nel sistema, ma nell'uomo. Inoltre, a questo punto mi stava domandando se volevo fermarmi a cena, io rifiutai cortesemente e mi congedai. Di fatto fu Burr che mi invitò a cena, e mi fa piacere dire che non ricordo molto di quella serata. Due giorni dopo restituii a Sede Centrale il mio lasciapassare. Tu vedi il tuo viso. Non è uno che tu ricordi. Ti domandi dove hai messo il tuo amore, che cosa hai trovato, che cosa cercavi. Vorresti dire: «Ho ucciso il drago. Ho reso il mondo più sicuro». Non puoi, non oggi. Forse non avresti mai potuto. Viviamo bene, Mabel e io. Non parliamo di cose che non possiamo modificare. Non ci scontriamo. Siamo persone civili. Ci siamo comprati una villetta sulla costa. C'è anche un lungo giardino nel quale mi piace mettere le mani: piantare qualche albero, aprire una vista sul mare. C'è un circolo velistico per i ragazzi poveri di cui mi occupo; li portiamo qui da Hackney, si divertono. C'è chi manovra per farmi entrare nel consiglio comunale. Mabel aiuta in chiesa. Io torno ogni tanto in Olanda. Dove ho ancora qualche parente. A volte viene a trovarci Burr. E' questo che mi piace di lui. Va molto d'accordo con Mabel, come ci si poteva aspettare. Non cerca di darsi arie. Chiacchiera con lei dei suoi acquerelli. Non dà giudizi. Noi apriamo una bottiglia di vino buono, mettiamo a cuocere un pollo. Lui mi aggiorna, poi torna a Londra. Di Smiley niente, ma è così che voleva lui. Odia la nostalgia, pur essendo parte di quella degli altri. In realtà non esiste il mettersi a riposo. A volte c'è il fatto di sapere troppo e di non poterci fare molto, ma è la vecchiaia, credo. Io penso moltissimo. Mi sto mettendo a pari con le mie letture. Parlo con la gente, viaggio in autobus. Sono un principiante nel mondo aperto, ma sto imparando.