/<1985>/ Anni duri aspettavano il vecchio Prodip Pal e i suoi. Come dieci o dodici milioni di contadini bengalesi nella seconda metà del nostro secolo, essi sarebbero stati vittime di quel fenomeno endemico che gli economisti chiamano il ciclo della miseria. Una ineluttabile discesa nella scala sociale, con il coltivatore che diventa mezzadro, poi contadino senza terra, poi bracciante e infine esule. Inutile sperare nel percorso inverso. Ognuno consacrava tutte le proprie forze alla difesa di uno stato continuamente minacciato. Migliorarlo era impensabile: la miseria non può produrre che una miseria ancora più grande. Proprio come il carbone non cambia colore quando si lava, anche la povertà abbellita dei colori più smaglianti rimarrà povertà. Le beghe giudiziarie con lo zamindar avevano lasciato ai Pal solo un quarto di ettaro di buona terra, quanto bastava a produrre da cinque a seicento chili di riso, un quarto del necessario per sfamare la famiglia. Per colmare il deficit, il padre e i figli ottennero la mezzadria di un altro piccolo appezzamento. Mentre certi proprietari pretendevano in cambio tre quarti del raccolto, Prodip Pal ne ebbe la metà. Un contributo essenziale. Finito il riso, ci furono le noci dei tre alberi di cocco e gli ortaggi, i begli ortaggi delle terre alte che avevano bisogno di poca irrigazione, come le zucche-serpenti - una specie di cetriolo che poteva essere lungo anche due metri - le zucche e i ravanelli giganti. Ci furono anche i frutti dell'albero del pane alcuni dei quali pesavano quasi dieci chili. La famiglia Pal ebbe così di che vivere alla meno peggio per due anni. Poté perfino comprarsi due capre e ringraziare regolarmente gli dei portando le offerte al tempietto eretto ai piedi del più antico banano del villaggio. Ma il terzo anno la sventura colpì nuovamente. Un parassita distrusse tutto il campo di riso in piena crescita. Per superare la catastrofe, il padre dovette prendere la via della casa di mattoni che con il suo tetto di tegole dominava il villaggio. Un giorno o l'altro, quasi tutti i contadini dovevano andare come lui dal mohajan, il gioielliere usuraio, un uomo panciuto con la testa liscia come una palla da biliardo. Per quanta ripugnanza ispirasse, lì come dappertutto, il mohaja, era il personaggio chiave del villaggio, il suo banchiere, il suo assicuratore, colui che prestava su pegno. E molto spesso ne era anche il vampiro. Ipotecando il campo, il padre di Hasari ottenne un prestito di duecento chili di riso, con l'obbligo di restituirne trecento al primo raccolto. Fu un anno di grandi privazioni per la famiglia Pal. Intanto però "come la tartaruga che avanza faticosamente per raggiungere la meta, la pagina del dio della fortuna aveva potuto essere voltata". Ma i debiti contratti e l'impossibilità di comprare le sementi necessarie fecero sì che i due anni successivi fossero un vero incubo. Uno dei fratelli di Hasari smise di fare il mezzadro per andare a lavorare come bracciante. Stavolta era davvero la miseria per i Pal. Anche le intemperie ci si misero di mezzo. In una notte, un temporale d'aprile fece cadere tutti i manghi e le noci di cocco. Bisognò vendere il bufalo e Rani, una delle mucche, che pure erano così utili nella stagione dell'aratura. Rani rifiutò di andarsene, tirando la corda come una forsennata con dei muggiti strazianti. Tutti ci videro un sinistro presagio, la manifestazione della collera di Radha, l'amante del dio pastore Krishna. Senza gli animali, la famiglia Pal rimase priva di una parte del prezioso latte quotidiano e, soprattutto, dell'indispensabile sterco che, mischiato alla paglia e sagomato a forma di mattonelle seccate al sole, serviva come combustibile per la cottura dei cibi. Ogni giorno la figlia di Hasari e le sue cugine dovettero andarsene in cerca di altro sterco, ma era una manna preziosa che non apparteneva al primo che la raccoglieva e i contadini davano la caccia alle ragazze. Esse impararono perciò a nascondersi e a rubacchiare. Dall'alba alla notte, i fratelli di Amrita battevano la campagna con i cugini più grandi in cerca di tutto quello che si poteva mangiare o barattare. Con le sue due torri dipinte di bianco, la chiesa situata nell'asse del grande ponte metallico sull'Hooghly, proprio dietro la stazione, si vedeva da lontano. Era un edificio imponente, ricco di vetrate colorate. All'interno c'erano molte statue di santi, cassette delle elemosine, e ventilatori sopra i banchi riservati ai fedeli. Scritto a lettere luminose su tutta la larghezza del frontone il suo nome, " Our Lady of the Happy Voyage", sembrava una sfida lanciata alle moltitudini di senzatetto accampati sulla piazza e nelle vie adiacenti. Padre Alberto Cordeiro era originario di Goa. Aveva la pelle molto scura e capelli ricci pettinati con cura. Con le sue guance piene e la pancetta rotonda sotto una tonaca immacolata, faceva pensare più a un monsignore della curia romana che a un parroco dei poveri. Nel cortile davanti alla chiesa era parcheggiata la sua macchina, una Ambassador con radio, e numerosi servitori di religione cattolica gli assicuravano un'esistenza confortevole conforme alla sua condizione di parroco. L'irruzione di quel prete straniero, in jeans e scarpe da ginnastica. sconcertò l'ecclesiastico. «Lei non porta la tonaca?» chiese stupito. «Non è esattamente l'abito più comodo per viaggiare nel suo paese, soprattutto con un caldo a cui non sono abituato», spiegò cortesemente Paul Lambert. «Ah!» sospirò il parroco. «Voi occidentali potete permettervi questo genere di capricci: sarete sempre rispettati. Avete la pelle bianca. Mentre per noi preti indiani, la tonaca è un emblema, oltre che una corazza. In questo paese che ha il senso del sacro, ci assicura un posto a parte.» L'indiano lesse il messaggio del vescovo. «Vuole realmente andare a vivere in una bidonville?» «Sono venuto per questo.» Padre Cordeiro parve scandalizzato. Con aria cupa e preoccupata si mise a camminare su e giù per la stanza. «Ma non è questa la nostra missione di sacerdoti! Qui non pensano che a divorarti. Se dai loro la punta di un dito, ti prendono subito tutto il braccio. No, mio caro, non si fa un favore andando a condividere la loro esistenza. Si rischia di incoraggiare la loro pigrizia latente, e di farne degli assistiti.» Interruppe il suo andirivieni per andare a piantarsi davanti a Lambert. «E poi, lei non resterà qui per sempre! Quando se ne tornerà in patria, verranno da me a lamentarsi che il clero non fa niente per loro. Ma se noi, preti indiani, finissimo come loro, non ci rispetterebbero più.» L'idea di andare ad abitare in una bidonville evidentemente non aveva mai sfiorato padre Cordeiro. Lambert avrebbe capito in seguito che il rifiuto di mescolarsi alla popolazione non nasceva da mancanza di carità, ma dalla preoccupazione, abbastanza diffusa nel clero locale, di mantenere una certa distanza dalla massa. Era un atteggiamento che derivava dal tradizionale rispetto della gerarchia nella società indiana. Nonostante le sue ovvie reticenze, il parroco si mostrò comprensivo. Affidò Paul Lambert a un notabile della parrocchia, un cristiano angloindiano che gli cercò un alloggio nel grande slum vicino ad Anand Nagar, la Città della gioia. Due giorni dopo, alle cinque del pomeriggio, il francese e la sua guida si presentarono all'ingresso della bidonville. Il rosso del sole al tramonto si velava di una coltre di vapore grigiastro. Un odore d'incendio invadeva la città man mano che da ogni parte si accendevano i choula per cuocere il pasto della sera. Nelle strette viuzze, l'aria si era impregnata di un odore denso e acre che bruciava gole e polmoni. Fra tutti i rumori spiccava quello degli accessi di tosse che scuotevano i petti. Prima di sbarcare a Calcutta, Paul Lambert aveva soggiornato per qualche giorno in uno slum della regione di Madras, costruito vicino a una miniera, in aperta campagna. Uno slum pieno di luce e di speranza, perché i suoi abitanti ne uscivano ogni mattina per andare a lavorare fuori e sapevano che un giorno sarebbero andati a vivere in una vera città operaia. A Anand Nagar, era il contrario: tutti avevano l'aria di essere sempre stati lì. E di starci per sempre. Un'impressione immediatamente confermata dall'intensa attività di cui vibrava la bidonville. Pigra, quella gente che Lambert scopriva mentre si apriva un valico dietro il suo cicerone angloindiano? «Delle formiche, semmai» affermerà in seguito. Quelle donne, vere fiaccole di grazia e di seduzione nei loro sari variopinti, nella bruttura dello slum erano la bellezza, erano i fiori. «Il mio problema era di rimanere lucido. Poiché avevo deciso di non cercare una tenerezza duratura, con tutte le implicazioni che avrebbe comportato, non dovevo neanche accettare tenerezze passeggere, dal momento che avevo risposto una volta per tutte all'appello del Signore del Vangelo e fatto mia la sua ingiunzione di non avere "altro focolare che quello in cui ti manderò". «La mia non era una situazione facile. Lo era ancor meno in quanto la mia fama di Babbo Natale attirava spesso verso di me le donne dello slum. Un'allusione, una mano posata sulla mia, un modo civettuolo di aggiustarsi il sari, uno sguardo conturbante mi lasciavano a volte intuire delle intenzioni sospette. Forse mi sbagliavo perché in India i rapporti tra donne e uomini sono spesso improntati a una certa ambiguità. Come la maggior parte delle indiane non ancora sfiorate dalle rivoluzioni femministe, le donne della Città della gioia non avevano altro mezzo che la seduzione per attirare l'attenzione maschile e affermare la loro esistenza. «Avrei potuto sperare che la mia notoria condizione di religioso mi proteggesse da atteggiamenti del genere. Errore. Potevo forse stupirmene? In tutte le opere della letteratura sacra indù, non c'è sempre una scena in cui il guru viene tentato? E che dire delle sculture erotiche dei templi, dove interi bassorilievi rappresentano vere e proprie orge? Notai che la tentazione mi colpiva con maggiore forza nei periodi in cui ero rilassato, e non quando ero sottoposto a prove intense. Era sempre in una fase di impoverimento dei miei rapporti con Dio che mi scoprivo più vulnerabile. Se non si trova la propria gioia in Dio, la si cerca altrove. «Quel rischio lo avvertivo particolarmente nei miei contatti con Margareta, la giovane vedova che mi aveva portato il pane della mia prima messa nella bidonville. Non che avesse mai accennato il minimo gesto o fatto la minima allusione equivoca. Ma dal suo corpo avvolto in un semplice pezzo di mussola si sprigionavano una sensualità, un profumo, un magnetismo a cui resistevo più difficilmente che con le altre donne. E anche dal suo sguardo, dal suo sorriso, dalla sua voce e dai suoi atteggiamenti emanava una tale capacità d'amore, un tale abbandono che quel fiore mi sembrava perpetuamente offerto. Probabilmente sbagliavo e sospettavo che l'ambiente avesse alterato le mie percezioni. Una sera, alla fine di una quieta giornata che il precipitare del barometro aveva reso particolarmente dura, una di quelle giornate in cui la camicia ti si appiccica alla pelle e il corpo e la mente ti si svuotano di ogni energia, tentai di pregare davanti all'immagine della Sacra Sindone. Vacillando nell'umidità dell'aria, la fiammella della lampada faceva oscillare il viso di Cristo e la mia ombra come in un balletto di fantasmi. Avevo l'impressione di andare su una nave alla deriva. Lottai per concentrare cuore e anima sul Signore, ma invano. Mi sentii atrocemente derelitto. In quel momento avvertii la sua presenza. Non l'avevo sentita entrare, ma non c'era niente di strano perché si muoveva con la flessuosità di un felino. Era stato il suo odore a tradirla, un leggero profumo di patchouli. Feci finta di non notarla. Pregai ad alta voce. Ma presto le parole non furono più che suoni. Quella presenza, quel respiro tranquillo nell'oscurità, il pensiero di quella donna che non vedevo ma che sentivo, mi stavano stregando insidiosamente. Era al tempo stesso meraviglioso e atroce. Fu allora che il Signore mi abbandonò completamente. Dall'altro lato della parete arrivarono un lamento, poi un rantolo, poi dei gemiti ininterrotti. Era ricominciata l'agonia del mio piccolo fratello musulmano. «Ciò che è accaduto allora, Margareta e io l'abbiamo cancellato per sempre dalla memoria. Quelle grida di sofferenza ci hanno improvvisamente proiettati l'una verso l'altro. Simili a naufraghi che si aggrappano alla stessa ancora di salvezza, eravamo due esseri sgomenti che volevano gridare in mezzo alla morte la loro irresistibile voglia di vivere. E' tutto. Non posso dire altro. Non mi ricordo niente.» «Sono costretto a mandare tutto. Altrimenti il nostro campo sarà perduto.» Mandare tutto! Voleva dire che per quel mese si era ridotto a una razione da fame: due o tre focacce, un bicchiere di tè o di succo di canna al giorno. «Quando ho visto arrivare correndo il bambino dei vicini, ho capito» racconterà Hasari. «La notizia ha fatto istantaneamente il giro dei principali posteggi della zona. Ci siamo ritrovati in una trentina nel piccolo capannone dietro l'ospedale Chittarajan dove abitava Ram Chander. Riposava sulla tavola che gli aveva fatto da letto nei cinque anni passati a Calcutta. La sua folta zazzera grigia gli faceva come un'aureola. Aveva gli occhi socchiusi e le labbra abbozzavano uno di quei sorrisi maliziosi che erano una delle sue espressioni familiari. Sembrava che si rallegrasse del tiro che ci aveva giocato. Secondo il falegname che divideva con lui la stamberga. era morto nel sonno. Il che spiegava probabilmente perché avesse l'aria tranquilla. La sera prima aveva avuto diversi attacchi di tosse violentissimi. Aveva sputato molto, e anche vomitato sangue. Poi si era addormentato. E non si era svegliato. «Ora bisognava compiere i riti funebri. Abbiamo discusso con gli altri uomini risciò per sapere se lo dovevamo portare a piedi al ghat delle cremazioni oppure se era preferibile noleggiare un Tempo. A Calcutta si possono noleggiare questi furgoncini a tre ruote per un'ora due ore, il tempo che si vuole. Costa trenta rupie all'ora. Vista la distanza fino al ghat di Nimtallah, abbiamo convenuto che era meglio noleggiare un Tempo. Ho proposto di fare una colletta fra noi. Chi ha dato venti rupie, chi dieci, chi cinque. Ho frugato sotto il Longhi di Ram, dove sapevo che nascondeva i soldi, e ho trovato venticinque rupie. I vicini si sono voluti associare alla colletta, perché Ram era molto amato in tutto il quartiere. Non c'era nessuno come lui per raccontare storielle e i bambini lo adoravano. Qualcuno è andato a prendere dei bicchieri di tè al teashop più vicino, e abbiamo tutti bevuto intorno al nostro amico. Forse era per via del suo sorriso, ma non c'era tristezza. Si parlava, si andava e si veniva come se fosse stato vivo e stesse per parlare anche lui. Con tre colleghi siamo andati al mercato vicino alla stazione di Sealdah a comprare gli articoli che servono a compiere i riti, a cominciare dalla lettiga per trasportare il corpo fino al ghat. Abbiamo comprato anche dei bastoncini d'incenso, un vasetto di ghee, il burro fuso purificato cinque volte, cinque metri di tela di cotone bianco e un lungo cordone per legare la tela intorno al corpo. E anche alcune ghirlande di gelsomino bianco, e un vaso di terracotta per versare l'acqua del Gange nella bocca e sulla testa del morto. «Ci consideravamo come la sua famiglia, perciò l'abbiamo vestito noi per l'ultima volta. Non c'è voluto molto tempo. Ram era morto con le mutande, il ranghi e la maglietta da lavoro. L'abbiamo lavato e l'abbiamo avvolto nel drappo che avevamo comprato. Ora erano visibili solo il viso e la punta dei piedi. Poi l'abbiamo steso sulla lettiga. Povero Ram! Non pesava proprio un gran che. Nessun uomo risciò pesa un gran che, ma lui batteva il record dei pesi piuma. Dall'inverno doveva aver perso una ventina di chili. Negli ultimi tempi era stato costretto a rifiutare i clienti troppo grossi. Non si domanda a una capra di tirare un elefante! Poi abbiamo decorato la lettiga con ghirlande di gelsomino bianco e abbiamo acceso bastoncini d'incenso ai quattro angoli. Uno dopo l'altro abbiamo girato intorno al corpo per rivolgergli un namaskar d'addio. «Prima di lasciare il capannone ho radunato le sue cose. Non aveva un gran che, qualche utensile da cucina, un longhi di ricambio, una camicia e un paio di pantaloni per le feste di Dourga e un vecchio ombrello. Era tutto quello che possedeva. «Sei di noi sono saliti con Ram nel Tempo, e gli altri hanno preso l'autobus per andare fino al ghat delle cremazioni in riva al fiume. Era come per la festa di Dourga, salvo che allora non portavamo al fiume sacro una statua della divinità, ma il corpo del nostro amico. C'è voluta più di un'ora per attraversare la città da est a ovest e per tutto il tragitto abbiamo cantato degli inni. Erano versetti della Gita, il libro sacro della nostra religione. Da bambini, li avevamo imparati dai nostri genitori. Cantano la gloria dell'eternità. «Gli altri li abbiamo ritrovati al ghat. C'erano in permanenza dei roghi che bruciavano e molti morti attendevano sulle lettighe. Ho preso contatto con il responsabile delle cremazioni. Quella lussuosa clinica privata del quartiere di Park Street immersa tra le palme dove l'élite medica del Bengala operava e curava i ricchi marwari, gli alti dignitari del governo, e i membri della colonia straniera, in condizioni di igiene e di comodità paragonabili a quelle delle cliniche occidentali. Margareta sapeva che la clinica Bellevue non avrebbe rifiutato di accogliere il Father. Era un sahib. Una smorfia di dolore aveva contratto il viso di Lambert. Voleva parlare ma non ne aveva la forza. L'indiana si era chinata e aveva capito che si rifiutava di lasciare la camera. «Voleva essere curato come un povero dello slum.» Di uomini distrutti dal colera, Paul Lambert ne aveva visti e curati a decine nei tuguri della Città della gioia. Rimanevano a casa. Durante il monsone, i casi si moltiplicavano. Per mancanza di posto, di medicine, di medici, quasi sempre gli ospedali li rifiutavano. I più robusti sopravvivevano, gli altri morivano. Era fuori discussione che lui potesse godere di un trattamento di favore. Davanti a quella resistenza imprevista, le due donne erano andate a consultare le loro vicine. Avevano deciso di avvertire il parroco. Lui solo, pensavano, avrebbe potuto convincerlo a lasciarsi trasportare alla clinica Bellevue. L'accoglienza dell'ecclesiastico in tonaca bianca era stata molto riservata. Aveva escluso subito l'idea di intervenire di persona presso Lambert. «Non vedo che una soluzione» aveva detto alla fine. «Bisogna avvertire il console di Francia. Dopotutto, ricade sotto la sua amministrazione. Lui solo può costringere that stubborn Frenchman, quel francese testardo, a lasciarsi curare normalmente. O per lo meno, lui solo ci può provare.» L'incarico era stato affidato a Margareta. La sua opera di convinzione fu tale che una Peugeot 504 grigia con una bandierina tricolore si fermò un'ora dopo all'ingresso dello slum di Anand Nagar. L'apparizione della macchina fu così sensazionale che Antoine Dumont fece una gran fatica ad aprirsi un varco tra la folla che si era accalcata. Rimboccandosi i pantaloni s'incamminò per la viuzza fangosa. Due o tre volte, nauseato dagli odori, dovette fermarsi per asciugarsi il viso e il collo. Nonostante la sua lunga esperienza dell'Asia, non gli era ancora mai capitato di trovarsi in un simile ambiente. «Questo prete è completamente pazzo» si ripeteva evitando le pozzanghere. Arrivato accanto al corpo raggomitolato in fondo al tugurio, esclamò con una giovialità un po' forzata: «Buongiorno, reverendo! Le porto i rispettosi saluti della Repubblica francese. Sono il console di Francia a Calcutta.» Paul Lambert aprì a fatica gli occhi. «A che cosa debbo un tale onore?» chiese flebilmente. «Non sa che il primo dovere di un console è di vegliare sui suoi concittadini?» «La ringrazio, signor console, ma non ho bisogno della sua protezione. Ho molti amici qui.» «Sono stati proprio loro ad avvertirmi. Il suo stato di salute richiede in effetti un...» «Rimpatrio?» interruppe Lambert ritrovando di colpo un po' di vigore. «E questo che è venuto a propormi? Un rimpatrio sanitario! Non doveva darsi tanto disturbo, signor console. La ringrazio molto per la sua simpatia, ma la prego di risparmiare il suo disturbo e il suo denaro. Non ci sono mai "rimpatri" o altri grandi mezzi per i poveri di qui. Voglio rimanere nella loro stessa barca.» Sfinito, lasciò ricadere la testa e chiuse gli occhi. La secchezza del tono aveva colpito il console. Quest'uomo è un duro, pensò. «Accetti almeno di lasciarsi curare in una buona clinica.» Cercava le parole convincenti: «Pensi a tutto quello che lei dà ai suoi amici. E al vuoto che si creerebbe se li lasciasse.» «La mia vita è nelle mani di Dio, signor console. Sta a lui decidere.» «Sicuramente è perché ha deciso che lei deve guarire che io sono qua» osservò il diplomatico. «E' possibile» ammise Lambert, colpito dalla logica dell'argomento. «In tal caso, la supplico di permettere ai suoi amici di trasportarla in...» «In un ospedale per tutti, signor console. Non in una clinica per i ricchi.» Dumont sentì che era sulla buona strada. Un po' di pazienza e Lambert si sarebbe lasciato convincere del tutto. «La festa di Vishwakarma, noi la chiamavamo "La puja dei risciò"» racconterà Hasari Pal. «Le nostre fabbriche, le nostre officine, le nostre macchine, erano due ruote, una cassa e due stanghe. Bastava che una ruota si rompesse in un buco, che un camion portasse via una stanga, che un autobus schiacciasse la cassa come una chapati, e addio Hasari! Inutile andare a piangere nel gamcha del padrone. Tutto quello che si poteva sperare era che i suoi gunda non ci propinassero un sacco di legnate. Più di chiunque altro, avevamo maledettamente bisogno della protezione del dio. Non soltanto per il nostro trabiccolo. Anche per noi. Un chiodo in un piede, un incidente o la febbre rossa come per Ram e lo Sfregiato, e eravamo bell'e fritti.» Proprio come i loro uomini, i padroni dei risciò consacravano un culto fervente al dio Vishwakarma. Per niente al mondo avrebbero perso l'occasione di assicurarsi i suoi favori organizzando in suo onore una puja non meno vibrante e generosa di quella degli altri luoghi di lavoro di Calcutta. Di solito la festa si svolgeva nelle loro case. Solo il vecchio Narendra Singh, detto il Biharese, il padrone del risciò di Hasari, si ostinava a nascondere il suo indirizzo. «Forse aveva paura che in un giorno di rabbia andassimo a spaccargli ogni cosa» scherzava Hasari. Il figlio maggiore prendeva quindi in affitto un giardino dietro Park Circus e vi faceva drizzare un magnifico pandal che veniva decorato di ghirlande di fiori e di centinaia di lampadine di tutti i colori alimentate da un generatore ordinato per la circostanza. La vigilia della festa ogni uomo risciò procedeva a una pulizia meticolosa del suo carretto. Hasari aveva perfino comprato il fondo di un barattolo di vernice nera per nascondere i graffi sul legno. Oliò i mozzi delle ruote con qualche goccia d'olio di senape perché nessun rumore sgradevole irritasse gli orecchi del dio. Poi andò alla bidonville a prendere la moglie e i figli. Aloka gli aveva preparato gli abiti festivi, un Longhi a quadrettini multicolori e una camicia a righe azzurre e bianche. Anche lei aveva indossato il suo bel sari da cerimonia rosso e oro che avevano portato dal villaggio. Nonostante i topi, gli scarafaggi, l'umidità, le fogne che straripavano, era riuscita a conservargli la sua freschezza originaria. Anche i bambini erano vestiti sontuosamente. Erano talmente lindi ed eleganti che venivano ad ammirarli da tutta la bidonville. Il dio sarebbe stato contento. Tutta la famiglia viveva in una baracca miserabile fatta di tavole e di brandelli di stoffa, ma quel giorno dalla catapecchia uscivano dei principi. Aloka, la figlia Amrita e Shambu, il figlio più piccolo, salirono nel risciò. Mai il povero trabiccolo aveva trasportato passeggeri altrettanto fieri ed eleganti. Tutti e tre sembravano come un mazzo di orchidee. Manooj, il figlio maggiore, si attaccò alle stanghe perché il padre non voleva sudare nella sua bella camicia. Il luogo scelto dal figlio del Biharese non era molto distante. Era infatti una caratteristica della città il fatto che i quartieri ricchi e le bidonville fossero contigui. Pochi uomini risciò avevano la fortuna di celebrare la puja in famiglia. Quasi tutti vivevano a Calcutta da soli, dato che i loro familiari erano rimasti al villaggio. «Peccato per loro» si dispiaceva Hasari, «non c'è niente di più bello che celebrare una festa con tutta la famiglia. E' come se il dio diventasse tuo zio o tuo cugino.» Il padrone aveva fatto le cose in grande. Il suo pandal era lussuosamente decorato. I ricami di fiori bianchi e rossi, le guarnizioni di foglie di palma facevano come un arco di trionfo all'ingresso. Al centro, su un tappeto di garofani e gelsomini, troneggiava un'enorme statua di Vishwakarma magnificamente dipinta con del rossetto sulle labbra e il kajal intorno agli occhi. «Com'è grandioso il nostro dio» si estasiò Hasari. «Non ci sono solo tigri e serpenti in questa giungla di Calcutta» si meravigliò Hasari Pal. «Ci si incontrano anche delle cerbiatte e degli agnelli. Perfino tra gli autisti di taxi.» Di solito erano dei veri boss che non avevano nessuna simpatia per gli uomini cavalli. Mentre circolavano come ragià nei loro bolidi neri e gialli, non perdevano occasione per affermare la loro superiorità. Un giorno, in un ingorgo, uno di questi ragià fece finire in un canaletto di scolo Hasari e il suo carretto. E fu allora che accadde il miracolo. L'autista, un uomo magrolino e piuttosto anziano, con una cicatrice intorno al collo, si fermò per scusarsi. Non era Uri sardarji del Panjab con la barba arrotolata, turbante e pugnale ma un bengalese come Hasari, originario di Bandel, una piccola località in riva al Gange a una trentina di chilometri dal suo villaggio. Si affrettò ad aiutare Hasari a tirar fuori il risciò dal Canaletto e gli propose di scolarsi insieme una bottiglia di bangla alla prima occasione. L'occasione si presentò due giorni dopo durante un rovescio torrenziale. Abbandonando i loro veicoli, i due uomini si rifugiarono in una bettola clandestina dietro Park Street. L'autista di taxi si chiamava Manik Roy. Aveva cominciato come autista di corriere ma una notte una banda di grassatori, i dacoit, l'aveva bloccato lungo la strada. Dopo aver fatto scendere i viaggiatori e averli alleggeriti dei loro averi, li avevano sgozzati. Manik non era in grado di dire per quale miracolo fosse stato ritrovato vivo il giorno dopo. Ma di quella tragica notte conservava una impressionante cicatrice intorno al collo. Per quell'avventura lo avevano soprannominato Chomotkar, letteralmente "Figlio del miracolo". Agli occhi di Hasari era effettivamente un "Figlio del miracolo", ma per un'altra ragione. Invece di stringere le stanghe di un risciò, le sue mani accarezzavano un volante; invece che sull'asfalto e sulle buche, i suoi piedi viaggiavano allegramente su tre piccoli pedali di gomma; invece di faticare e di sudare, guadagnava il riso per i suoi figli seduto sul sedile di un carro più bello di quello di Arjuna. Un taxi! Quale uomo risciò non aveva sognato che un giorno uno delle quattro braccia del dio Vishwakarma sfiorasse il suo trabiccolo per trasformarlo in una di quelle carrozze nere e gialle che solcavano i viali di Calcutta? Per il momento, Figlio del miracolo invitò Hasari ad accompagnarlo per una intera giornata. Era certamente il più bel regalo che gli potesse fare. «Era come partire per Sri Lanka con l'esercito delle scimmie nel carro d'Arjuna, re dei Pandava." Che festa sedersi su un sedile talmente imbottito che lo schienale cedeva alla minima pressione del corpo! Scoprirsi davanti agli occhi quadranti e lancette di ogni tipo che ti informavano sulla salute del tuo motore e degli altri meccanismi. Figlio del miracolo infilò una chiave in una fessura e ci fu immediatamente un allegro scoppiettio sotto il cofano. Poi pigiò uno dei pedali con il piede e manovrò una leva sotto il volante. «Era fantastico» dirà Hasari, «quei semplici gesti erano bastati a mettere in moto il taxi. Fantastico pensare che il solo sforzo da compiere per farlo andare, e poi per dargli sempre più velocità, era di premere con la punta del piede su un minuscolo pedale.» Hasari guardava sbalordito il suo compagno. Potrei fare anch'io gli stessi gesti?, si chiedeva. Figlio del miracolo è già stato autista di taxi in una precedente incarnazione? Oppure ha imparato a guidare un'automobile solo nella sua vita attuale? L'autista di taxi si rese conto della perplessità del suo compagno. «Sai, un taxi è molto più facile a guidarsi del tuo carretto. Guarda, un colpetto su questo pedale e ti fermi di botto.» La macchina si bloccò così bruscamente che Hasari fu scaraventato contro il parabrezza. Figlio del miracolo si mise a ridere: «Che ne dici, coglione, non è certo con il tuo carretto che ti puoi permettere un capriccio del genere!». Capriccio o meno, l'uomo risciò scopriva un altro mondo. Uomini con l'aiuto della polizia, sequestrarono il bestiame, violentarono le donne e s'impadronirono dei beni della gente. La razzia concludeva diversi secoli di scontri tra le popolazioni che vivevano nella foresta e i grandi proprietari che pretendevano di appropriarsi dei loro campi e dei loro raccolti. Eppure la vecchia legge ancestrale scritta nella memoria dell'umanità, secondo la quale la giungla appartiene a colui che la dissoda, avrebbe dovuto mettere gli aborigeni al riparo da siffatte cupidigie. Dopo essere stati nomadi, poi semisedentari, in pochi secoli erano diventati dei piccoli contadini. La loro agricoltura non mirava che a dar da mangiare alle loro famiglie, con l'aiuto dei prodotti selvatici della foresta. L'adivasi raccontò a Lambert come lui e i suoi figli si arrampicassero sugli alberi per cogliere le bacche, come grattassero il suolo per dissotterrare le radici commestibili, come sapessero sbucciare certe scorze, decorticare tuberi, estrarre midolli, spremere foglie dalle virtù curative, scoprire i funghi buoni, staccare saporiti licheni, estrarre succhi, spiccare germogli e raccogliere miele selvatico. Raccontò anche come mettessero lacci, tagliole, reti per la piccola selvaggina e utilizzassero mazze o frecce per gli orsi e gli altri grossi animali. Senza dimenticare la cattura di insetti vari, di vermi, di uova di formiche e lumache giganti. Ogni famiglia versava alla comunità le eccedenze del proprio bottino per le vedove, gli orfani e i malati. «Era duro, ma vivevamo liberi e felici.» Ma un giorno i tamburi dovettero tacere. Come le altre famiglie della vallata Bouddhou Koujour e la sua famiglia erano dovuti partire. In un primo momento erano andati a Patna, la capitale del Bihar, poi a Lucknow, la grande città musulmana. Ma da nessuna parte avevano trovato lavoro. Allora, come tanti altri, avevano preso la via di Calcutta. Fuggendo dapprima la clausura e la promiscuità degli slum, si erano accampati alla periferia della città, con altri aborigeni, lavorando duramente nelle fornaci di mattoni, vivendo come bestie. Poi avevano avuto la fortuna di trovare un tetto nella Città della gioia. Quel giorno l'India aveva subito una nuova sconfitta: uno slum fagocitava un uomo che era l'Uomo per eccellenza, l'Uomo primitivo, l'Uomo libero. Qualche sera dopo, tornando nel cortile, Lambert intuì che doveva esserci stato un dramma. Tutto era stranamente silenzioso. Tacevano perfino i bambini e gli ubriachi. Fece qualche passo e sentì dei gemiti. Davanti alla porta degli eunuchi, diverse lampade a olio ardevano vicino a un charpoi, sul quale riposava una forma avvolta in un drappo bianco. Lambert scorse delle figure accoccolate intorno al morto di cui non si vedevano che i piedi. Nel bagliore delle fiamme riconobbe le trecce nere di Kahma, con il loro nastro azzurro e il fiore bianco. Il giovane danzatore singhiozzava. Il prete s'infilò in camera e vegliò pregando davanti all'immagine della Sacra Sindone. Dopo un attimo sentì alla presenza alle sue spalle. Era il suo vicino Ashish. «Grande Fratello Paul, c'è stata una lite" spiegò a mezza voce. «Bouddhou, il cristiano adivasi, ha ucciso Bela, uno degli hijra. E' un incidente ma con questo il poveretto è morto. E' per via del tuo cobra.» «Il mio cobra?», balbettò Lambert sconcertato. «Da diversi giorni l'adivasi faceva un'indagine in segreto per sapere chi avesse messo il cobra in camera tua. Era venuto a sapere che un incantatore di serpenti aveva dato una rappresentazione durante un matrimonio in un cortile non lontano da qui. Anche gli hijra erano stati ingaggiati per danzare alle nozze. L'adivasi è riuscito a ritrovare l'incantatore di serpenti e questi ha ammesso che uno degli hijra aveva insistito per comprargli un cobra. Voleva, a quanto pare, celebrare un sacrificio e gliene aveva offerto duecento rupie. Era una somma veramente pazzesca per l'incantatore che ha finito per accettare. Ecco come il cobra si è ritrovato in camera tua. Avvelenandoti, tramite il serpente, probabilmente Bela voleva riscattare qualche oscura colpa. Come si fa a saperlo? E' gente talmente misteriosa. C'è chi dice che, uccidendoti, sperava di appropriarsi il tuo sesso in una futura incarnazione.» Lambert volle parlare, ma la voce gli si strozzò in gola. Era rimasto con il fiato mozzo. Le parole dell'indiano turbinavano follemente nella sua testa. Ashish spiegò che in serata l'adivasi era andato dallo hijra per punirlo. Voleva soltanto dargli una lezione. Ma Bela si era spaventato. Aveva afferrato un coltello. Grattarono, avvistarono, selezionarono, immagazzinarono a tutta velocità. In un batter d'occhio i loro sacchi si riempirono di bottiglie, relitti di utensili e di stoviglie, arnesi rotti, pezzi di tubo, pile scariche, barattoli vuoti, suole di plastica, brandelli. di abiti, tubetti di dentifricio, pezzi di cartone, di gomma, di plastica. «Muovetevi, ragazzi! Ecco gli altri.» Nissar lo sapeva: bisognava assolutamente tagliare la corda prima che il nugolo furioso degli altri cenciaioli piombasse addosso a loro. Colto dalla febbre della caccia al tesoro, Shambu affondò un'ultima volta l'uncino nella massa puzzolente e cacciò un grido. «In mezzo a tutta quella merda ho visto un luccichio» racconterà. «Ho creduto che fosse una moneta e ho frugato freneticamente per tirarla fuori. Ma in cima all'uncino ho tirato su un cinturino metallico. E in cima al cinturino c'era un orologio.» «Sul viso di Hasari comparve dapprima un'espressione di stupore» dirà Lambert. «Poi prese l'oggetto tra le mani e lo sollevò con tanta emozione e rispetto che credemmo lo volesse offrire a qualche divinità. Voleva solo portarselo all'orecchio.» Nel cortile tacquero tutte le voci. Hasari rimase così per lunghi minuti immobile, incapace di dir parola, come trasfigurato da quel gioiello il cui tic tac rispondeva ai battiti del suo cuore. In quel momento accadde un fenomeno strano. Spinto da una qualche forza misteriosa, un vortice d'aria rovente spuntò dai tetti e venne a ingolfarsi nel cortile con un rumore di tegole rotte. Subito dopo una serie di tuoni fece tremare il cielo. Hasari e tutti gli abitanti del cortile alzarono gli occhi. Sopra il fumo dei choula comparvero enormi cavalloni di cotone nero. L'uomo risciò sentì le lacrime oscurargli la vista. «Ci siamo, ecco il monsone. Sono salvo: ora potrò morire in pace. Grazie a quest'orologio e al diluvio che sta per cadere, grazie alle cinquecento rupie delle mie ossa, mia figlia avrà un buon marito.» «La città aveva cambiato i nostri occhi», racconterà l'uomo risciò. «Al villaggio scrutavamo il cielo per giornate intere, in attesa delle prime nuvole cariche d'acqua. Cantavamo e danzavamo, pregando la dea Lakshmi di fecondare i nostri campi sotto un benefico diluvio. A Calcutta, non c'era niente da fecondare. Le vie e i marciapiedi, le case, gli autobus, i camion, non possono essere fecondati dalla benefica acqua che fa spuntare il riso delle nostre campagne. Ciò non toglie che spiavamo i segni del monsone con impazienza ancora più febbrile che in campagna. Era per via del caldo tremendo che ti distruggeva, tanto da aver voglia a momenti di fermarti da qualunque parte, e di lasciarti morire. A volte non c'era neanche bisogno di fermarsi per aspettare la morte. Ti sorprendeva in pieno sforzo, mentre portavi un ragazzino a scuola o un marwari al cinema. Di colpo stramazzavi per la strada. A volte, capitava che nel suo slancio il tuo stesso carretto ti investisse prima di andare a ribaltarsi contro un autobus o un marciapiede. Lo chiamavamo "il colpo di Surya", il colpo del dio Sole. «Tutta la notte e l'indomani, grosse nuvole nere si rincorsero nel cielo, immergendo la città in un buio quasi assoluto. Le nuvole si mescolavano al fumo e alla polvere e ben presto ci fu sopra i tetti una specie di coltre nerastra. Sembrava che Sani, il pianeta del malaugurio, volesse asfissiarci per punirci. Si soffocava. Per un nonnulla, la gente si azzuffava per la strada. I randelli della polizia si mettevano a volteggiare senza che si sapesse perché. Io respiravo sempre più a fatica. Perfino le cornacchie e i topi che frugavano nei mucchi di spazzatura di Wood Street avevano un'aria strana. I bambini non la finivano più di piangere. I cani ululavano a morte. Margareta, Aristotele e circa duecentocinquanta operatori sociali, infermieri, educatori, assistiti da medici bengalesi e da volontari stranieri, animano tutta questa organizzazione di assistenza e di aiuti, di centri medici e pedagogici. Dal canto loro, il governo del Bengala e il comune di Calcutta non risparmiarono i loro sforzi. Grazie a fondi prestati dalla Banca mondiale venne lanciato un vasto programma di risanamento degli Seren. Certe stradette della Città della gioia vennero lastricate, altre rialzate, furono scavate nuove latrine, forati pozzi, allacciate linee elettriche. Gli effetti di queste opere furono imprevedibili. Il fatto che i risciò e i taxi potessero ormai accedere alla bidonville fece sì che impiegati, funzionari, piccoli commercianti cercassero casa nella Città della gioia. A dieci minuti a piedi dalla grande stazione di Howrah, e vicina com'era al centro di Calcutta, la bidonville offriva in effetti condizioni ambientali più comode dei nuovi quartieri costruiti a venti o venticinque chilometri dalla città. Di colpo, gli affitti salirono alle stelle. Segno caratteristico di tale mutamento economico, il numero dei gioiellieri usurai decuplicò in meno di due anni. Imprenditori poco scrupolosi si diedero a una speculazione sfrenata. Palazzi di tre o quattro piani cominciarono a spuntare un po' ovunque e molti poveri dovettero andarsene. Le prime vittime di questi cambiamenti furono i lebbrosi. Nuovi dirigenti politici a capo del governo del Bengala privarono il Padrino degli appoggi di cui godeva e una nuova mafia si piazzò a Anand Nagar decretando la loro espulsione. Se ne andarono a gruppetti, senza proteste né violenza. Lambert riuscì a sistemare Anouar, la moglie e il figlio e la maggior parte dei suoi amici in un pensionato di Madre Teresa. In compenso, le circa ottomila mucche e bufale delle stalle rimasero e continuano a far parte della popolazione della Città della gioia. Tre settimane dopo il ciclone, Ashish e Shanta Ghosh tornarono con i figli nel villaggio devastato al limitare della foresta della regione dei Sunderbans. Con un coraggio e un ardore resi più forti dalla dura lezione di sopravvivenza dello slum, ricostruirono la loro capanna, ripulirono i loro campi e ripresero la loro vita di contadini. La loro esperienza di solidarietà li spinse a interessarsi ancora di più alla sorte dei loro vicini. Shanta creò diversi laboratori artigianali per le donne del villaggio, mentre il marito fondava una cooperativa agricola che doveva considerevolmente migliorare le risorse degli abitanti di quella zona particolarmente diseredata. L'esempio di questa famiglia rimarrà purtroppo un caso praticamente isolato. Rarissimi saranno in effetti gli abitanti della Città della gioia che riusciranno a sottrarsi ai loro tuguri per tornare in campagna. In compenso negli ultimi tempi ci fu un fatto nuovo che doveva portare un elemento di speranza. Si constatò un netto rallentamento nella fuga dei contadini poveri verso Calcutta. Il fenomeno si spiega con il sensibile miglioramento della resa della terra nel Bengala. In più della metà di tale provincia oggi si ottengono due raccolti di riso annui, e addirittura tre, su circa un quarto del territorio. Una simile trasformazione permette a centinaia di migliaia di contadini senza terra di trovare lavoro sul posto per quasi tutto l'anno. D'altro canto mentre vent'anni fa Calcutta rappresentava la sola speranza di trovare lavoro in tutto il nord est dell'India, la creazione di nuovi centri industriali in Orissa, nel Bihar e in altre province della regione ha contribuito a creare altre possibilità di assorbimento di mano d'opera che hanno considerevolmente diminuito l'emigrazione verso Calcutta. Se non ci saranno altre grandi catastrofi, si può perciò sperare in una stabilizzazione della popolazione di Calcutta, e forse nell'avvio di un non lontano deflusso degli abitanti degli slogan verso le loro campagne d'origine. Max Loeb tornò in America. Raccontando la sua esperienza, dichiarò che «a parte un viaggio sulla Luna, un soggiorno in uno slum indiano era l'avventura più eccezionale che potesse vivere un uomo del 2000». Altri giovani medici, uomini e donne, continuano a arrivare dal mondo intero per offrire agli abitanti della Città della gioia diversi mesi della loro vita. Quanto a Max, quel soggiorno ha completamente trasformato la sua percezione della vita e i suoi rapporti con gli altri. Con Lambert continua a mantenere legami molto stretti.