/<1991>/ Il dottor Steiner più di una volta ne aveva accennato al Comitato Medico e si era molto irritato per il disinteresse generale dei suoi colleghi verso questo problema. La signora Shorthouse avrebbe dovuto essere tenuta lontana di lì e incoraggiata, invece, a fare il proprio lavoro e non starsene a chiacchierare con i pazienti. La signorina Bolam, tanto inutilmente rigorosa con gli altri membri del personale, non mostrava alcuna propensione a imporre la disciplina alla signora Shorthouse. Era risaputo che non era facile trovare buon personale di servizio, tuttavia una brava funzionaria amministrativa capace di fare il proprio lavoro non avrebbe dovuto avere difficoltà in questo senso; con la debolezza non si risolveva nulla. Ma era impossibile persuadere Baguley a lamentarsi della signora Shorthouse e la Bolam non avrebbe mai criticato Baguley. Probabilmente la poveretta era innamorata di lui. Sarebbe toccato a Baguley assumere un atteggiamento deciso, invece di aggirarsi per la clinica con la schiena curva e con quel ridicolo lungo camice bianco che lo faceva rassomigliare a un dentista di seconda categoria. Veramente quell'uomo non aveva idea della dignità che un lavoro come il loro comportava. Sul corridoio si udirono dei passi pesanti. Probabilmente era il vecchio Tippett, un paziente di Baguley affetto da schizofrenia che negli ultimi dieci anni aveva regolarmente passato i pomeriggi del venerdì a scolpire legno nel reparto di terapia artistica. Il pensiero di Tippett aumentò la petulanza del dottor Steiner. Quell'uomo era assolutamente fuori posto in una clinica come la Steen. Se stava abbastanza bene da poter vivere fuori dell'ospedale, del che il dottor Steiner dubitava, avrebbe dovuto farsi curare in un Day Hospital. Erano pazienti come Tippett che davano alla clinica una reputazione dubbia e ne offuscavano la reale funzione di centro psicoterapeutico a orientamento analitico. Il dottor Steiner si sentiva decisamente imbarazzato quando uno dei suoi pazienti, tanto accuratamente selezionati, il venerdì si imbatteva in Tippett, che si aggirava per la clinica strascicando i piedi. Non era nemmeno prudente lasciare che Tippett andasse in giro: un giorno ci sarebbe stato qualche incidente e Baguley si sarebbe trovato nei guai. La gradevole immagine del proprio collega nei guai fu frantumata dallo squillo del campanello. Era davvero una vita impossibile! Stavolta si trattava del personale di un'ambulanza che veniva a portare via un malato. La signora Shorthouse si affrettò ad aprire e li sollecitò a far presto. La sua voce stridula e odiosa echeggiò per il corridoio. «Salve, tesorini. Ci rivediamo la settimana prossima. Fate i bravi, mi raccomando!» Il dottor Steiner sussultò e chiuse gli occhi, ma il suo paziente, beatamente impegnato nel proprio hobby preferito, che era quello di parlare di sé, non parve accorgersi di nulla. In effetti, negli ultimi venti minuti, il monotono e stridulo lamento del signor Burge non aveva subìto il minimo cedimento. «Non pretendo di essere una persona facile. Non lo sono. Sono un diavolo d'uomo un po' complicato e questa è una cosa che Theda e Sylvia non hanno mai capita. Le radici di questo mio carattere vanno molto in profondità, naturalmente. Lei si ricorda la seduta del mese di giugno? Mi era parso che allora fosse emerso qualcosa di piuttosto fondamentale.» Il dottor Steiner non ricordava la seduta in questione, ma non se ne preoccupava minimamente. Con il signor Burge "qualcosa di piuttosto fondamentale" era invariabilmente qualcosa di molto superficiale, che, si poteva star certi, sarebbe emerso senza difficoltà. Inspiegabilmente seguì un silenzio. Il dottor Steiner, che stava scarabocchiando sul suo blocco, osservò i propri disegni con interesse e preoccupazione; li guardò di nuovo, tenendo il blocco rovesciato, e per un attimo si sentì più preoccupato del proprio subconscio che non di quello del paziente. All'improvviso si rese conto di un altro suono, che proveniva dall'esterno, dapprima debole, quindi sempre più forte. Da qualche parte una donna stava urlando. Un rumore orrendo, continuato, assolutamente animalesco. L'effetto che ebbe sul dottor Steiner fu singolarmente sgradevole. Per natura era timido e molto teso. Anche se il proprio lavoro lo coinvolgeva ogni tanto in crisi emotive, era più portato ad aggirare che ad affrontare un caso di emergenza. «Poveretto! Ovviamente il fatto che abbiano usato il suo scalpello lo ha sconvolto, perché appare come un tentativo spiacevole di implicarlo. Ma lei si renderà conto, sovrintendente, che Nagle è uno dei pochi membri del nostro personale che abbia un alibi completo per l'ora presunta della morte.» Dalgliesh non gli fece notare che questo fatto era di per se stesso molto sospetto. «Non ha fatto un calcolo approssimativo dell'ora in cui è avvenuta la morte?» chiese. Il dottor Etherege rispose: «Ho pensato che doveva essere avvenuta da poco e così la pensa anche il dottor Baguley. Oggi in clinica fa molto caldo, abbiamo appena messo in funzione il riscaldamento centrale, e quindi il corpo si deve essere raffreddato molto lentamente. Non ho controllato se era in atto il rigor mortis, ovviamente in queste cose sono proprio poco esperto. E' chiaro che, mentre aspettavamo lei, abbiamo parlato un poi della cosa e, a quanto pare, l'ultima persona che ha visto viva la signorina Bolam è stata la capoinfermiera Ambrose. Questo è accaduto alle diciotto e venti. Cully, il nostro portiere, mi dice che la signorina Bolam lo ha chiamato al citofono verso le diciotto e quindici per dirgli che stava scendendo nel seminterrato e ha chiesto che il signor Lauder, quando fosse arrivato, venisse fatto accomodare nel suo ufficio. Di lì a pochi minuti, perlomeno secondo il suo giudizio, la Ambrose è uscita dalla sala per la terapia elettroshock al pianterreno e ha attraversato l'atrio per raggiungere la sala d'attesa e avvertire un signore che la moglie poteva essere riportata a casa. E' stato allora che ha visto la signorina Bolam passare nell'atrio e dirigersi verso le scale che portano al seminterrato. Nessuno da allora l'ha più vista viva». «Tranne l'assassino» disse Dalgliesh. Il dottor Etherege parve sorpreso. «Sì, naturalmente deve essere così. Io volevo dire che nessuno di noi l'ha più vista viva. Ho chiesto all'Ambrose l'ora e lei è proprio sicura... «Parlerò con la capoinfermiera Ambrose e con il portiere.» «Certo. Naturalmente dovrà vedere tutti, questo ce lo aspettiamo. Mentre attendevamo che lei arrivasse abbiamo tutti telefonato a casa per avvertire che saremmo arrivati in ritardo e non abbiamo dato altre spiegazioni. Abbiamo già fatto ricerche in tutto lo stabile e appurato che la porta del seminterrato e quella dell'ingresso di servizio al pianterreno erano entrambe chiuse a chiave. Naturalmente qua dentro non è stato toccato nulla. Ho predisposto che il personale fosse riunito nella prima sala, a parte la capoinfermiera Ambrose e l'infermiera Bolam che si trovano con gli altri pazienti nella sala d'attesa. Non è stato fatto entrare nessuno tranne lei e il signor Lauder.» «A quanto pare ha pensato a tutto, dottore» disse Dalgliesh, tirandosi su da terra e rimanendo fermo a guardare il cadavere ai suoi piedi. «Chi l'ha trovata?» chiese. «Una delle nostre segretarie, Jennifer Priddy. Cully si era lamentato tutto il giorno di un forte mal di stomaco e la signorina Priddy era andata a cercare la signorina Bolam per chiederle se poteva farlo andare a casa presto. La signorina Priddy è molto sconvolta, ma è stata in grado di dirmi... «Preferirei sentirlo raccontare direttamente da lei. Questa porta è sempre tenuta chiusa?» Il tono era stato cortesissimo, ma Dalgliesh avvertì la loro sorpresa. Tuttavia, quando il direttore rispose, la sua voce era normale. «Di solito lo è. La chiave viene tenuta appesa a un'assicella assieme alle altre nella stanza degli inservienti, qui sotto. Qui si teneva anche lo scalpello.» «E questo feticcio?» « E' stato preso nella sala di terapia artistica qui di fronte. Lo ha scolpito uno dei nostri pazienti.» Era sempre il direttore che rispondeva, e fino a quel momento il dottor Baguley non aveva pronunciato una sola parola. All'improvviso disse: « E' stata colpita con il feticcio, quindi pugnalata al cuore da qualcuno che o sapeva il fatto suo o è stato maledettamente fortunato. Questo è più che evidente. Quello che non è evidente è come mai l'archivio fosse aperto a tutti. Lei è praticamente sdraiata sulle pratiche e quindi ci stava rovistando in mezzo prima del delitto». Il segretario rimise a posto la cartelletta. «Non vedo perché non dovrei dirglielo. Dovrò consultarmi con il comitato, naturalmente, dato che si tratta di circostanze piuttosto insolite, ma penso che raccomanderò caldamente la signora Bostock. E' la stenografa con maggiore anzianità qua dentro. Se anche gli altri la riterranno idonea a ricoprire questa carica, e io penso che lo sia, sarà la candidata più probabile al posto, anche se, naturalmente, si seguirà la regolare prassi interpellando anche altri.» Dalgliesh non fece commenti, ma era manifestamente interessato. Una decisione così rapida per la successione al posto della defunta poteva significare solo una cosa, e cioè che Lauder ci aveva già pensato in precedenza. Forse il personale medico aveva fatto su di lui pressioni non ufficiali, ma certo più efficaci di quanto il segretario non fosse disposto ad ammettere. Ritornò alla telefonata con cui Lauder era stato convocato alla clinica. «Le parole che ha usato la signorina Bolam mi hanno colpito non poco» disse. «Le trovo piuttosto significative. Ha detto che stava succedendo qualcosa di molto grave alla clinica, qualcosa di cui lei doveva essere messo al corrente e che aveva avuto inizio prima dell'arrivo della signorina Bolam alla Steen. Questo fa subito supporre che la defunta non fosse ancora sicura, ma che avesse dei sospetti e, in secondo luogo, che non era preoccupata di un incidente in particolare, ma di qualcosa che durava da tempo. Per esempio una frode sistematica, piuttosto che un furtarello isolato.» «Be', sovrintendente, è strano che lei parli di furtarelli. Qui ce n'è stato uno, di recente, appunto un incidente isolato. Il primo che abbiamo subìto e non vedo come potrebbe essere connesso al delitto. E' successo poco più di una settimana fa, se ricordo bene, martedì scorso. Cully e Nagle, come al solito, erano usciti per ultimi dalla clinica e Cully ha invitato Nagle a bere qualcosa, al "Queen's Head". Lo conoscerà, forse, è il pub all'angolo estremo di Beefsteak Street. Ci sono due o tre cose curiose in questa storia e una delle più curiose è che Cully abbia invitato Nagle a bere. Non mi sono mai sembrati molto amici. Ma Nagle ha accettato e verso le diciannove sono andati al pub. Circa mezz'ora dopo, se non sbaglio, pare che sia entrato un amico di Cully, che si è dichiarato stupito di trovarlo lì dato che era appena passato davanti alla clinica e aveva visto una luce debole dietro una delle finestre, come se qualcuno si muovesse con una pila in mano, così ha detto. Nagle e Cully sono subito andati a controllare e hanno trovato una delle finestre sul retro del seminterrato con il vetro spaccato o, meglio, tagliato. Un lavoro ben fatto. Cully non se l'è sentita di indagare ulteriormente, senza i debiti rinforzi e certo non gli do torto. Ha sessantacinque anni, tenga presente, e non è un uomo molto vigoroso. Dopo essersi consultati a bassa voce, Nagle ha detto che lui sarebbe entrato e ha chiesto a Cully di andare a telefonare alla polizia dal benzinaio sull'angolo. I vostri uomini sono arrivati quasi subito, ma non hanno acciuffato l'intruso. E' riuscito a sfuggire a Nagle all'interno dell'edificio e quando Cully è ritornato, dopo aver telefonato, ha fatto appena in tempo a vedere un uomo che stava sgattaiolando fuori dal cortile.» «Controllerò a che punto stanno le indagini su questa faccenda» disse Dalgliesh «ma sono d'accordo con lei, un nesso con il delitto mi sembra piuttosto improbabile. Quanto è stato rubato?» «Quindici sterline da un cassetto della scrivania dell'assistente sociale di psichiatria. La porta era chiusa a chiave, ma è stata forzata. Il denaro, in una busta con indirizzo scritto in inchiostro verde, era stato inviato alla segretaria dell'Amministrazione della clinica la settimana precedente. Non era accompagnato da nessuna lettera, solo da un biglietto in cui si diceva che veniva da un paziente grato. Il resto di quanto contenuto nel cassetto è stato buttato fuori e strappato, ma non è stato rubato altro. C'è stato anche qualche tentativo di forzare gli schedari nell'ufficio dell'Amministrazione e anche i cassetti della scrivania della signorina Bolam sono stati forzati, ma nulla è stato asportato.» La signora Amy Shorthouse non aveva ritenuto necessario tenere addosso gli abiti da lavoro in attesa di essere interrogata e così, quando fu chiamata da Dalgliesh, era già vestita per andare a casa. La metamorfosi era notevole. Le comode pantofole erano state sostituite da un paio di scarpe eleganti e alla moda con tacchi alti, un abito bianco spuntava da sotto una giacca di pelliccia e in testa aveva un foulard che rappresentava l'ultima idiozia della moda in quanto a copricapo. L'effetto generale era stranamente antiquato. La signora Shorthouse sembrava una reliquia degli allegri anni Venti, effetto che era rafforzato dalla gonna corta e dagli elaborati riccioli ossigenati sistemati con abilità attorno alla fronte e alle guance. Ma non vi era nulla di artificioso nella voce e, Dalgliesh sospettava, ancora meno nella personalità. Gli occhietti grigi erano furbi e divertiti e lei non era né spaventata né sconvolta. Dalgliesh intuiva che Amy Shorthouse bramava più eccitazione di quanto la sua vita quotidiana le offrisse e sicuramente ora si stava divertendo. Non avrebbe augurato a nessuno una morte violenta, ma, visto che era successo, tanto valeva ricavarne il massimo. Quando i preliminari ebbero fine e si passò agli eventi del pomeriggio la signora Shorthouse tirò fuori la sua informazione preziosa. «Inutile dire che io so chi è stato, perché non lo so. Non che non abbia le mie idee in proposito, ma c'è una cosa che posso dirle. Io sono stata l'ultima persona che le ha parlato, su questo non ci sono dubbi. No, non tenga conto di quello che ho detto! Io sono l'ultima persona che le ha parlato faccia a faccia, a parte, naturalmente, l'assassino.» «Vuole dire che la signorina Bolam dopo che l'ha vista ha parlato al telefono? Non sarebbe meglio che me lo dicesse chiaramente? Di misteri qui ce ne sono già a sufficienza per stasera.» «Furbo, lei, vero?» disse la signora Shorthouse senza rancore. «Be', è successo in questa stanza. Ci sono entrata verso le sei e dieci, per chiedere quanti giorni di permesso mi restavano se mi fossi presa un giorno di libertà la settimana prossima. La signorina Bolam ha tirato fuori la mia pratica, ma ora che ci penso doveva già essere fuori, abbiamo sistemato la cosa e poi abbiamo chiacchierato un po' di lavoro. Stavo per uscire, anzi ero già davanti alla porta per scambiare le ultime parole, quando è squillato il telefono.» «Voglio che lei rifletta molto attentamente, signora Shorthouse» disse Dalgliesh. «Quella chiamata potrebbe essere importante. Riesce a ricordare che cosa ha detto la signorina Bolam?» «Lei pensa che qualcuno volesse attirarla giù verso la morte, vero?» chiese la signora Shorthouse con marcato compiacimento. «Be', potrebbe essere, ora che ci penso.» Dalgliesh si disse che quella teste era ben lungi dall'essere una stupida. La osservò strizzare il volto, per simulare la tensione dello sforzo, ma lui non dubitava che ricordasse benissimo quanto era stato detto. Dopo una pausa ben calibrata per accentuare la tensione la signora Shorthouse disse: «Bene, come ho detto, è suonato il telefono. Credo che fossero più o meno le diciotto e quindici. La signorina Bolam ha preso il ricevitore e ha detto: "Qui parla la funzionaria dell'Amministrazione". Rispondeva sempre così. Era molto precisa circa la propria posizione. Peter Nagle era solito dire: "E chi crede che ci aspettiamo che risponda: Kruscev?". Non che lo abbia detto a lei, neanche a pensarlo! Comunque è così che ha risposto. Poi c'è stata una piccola pausa e lei mi ha guardata e ha detto: "Sì, lo sono" e con questo voleva dire, suppongo, che era sola, senza contare la mia presenza. Poi c'è stata una pausa più lunga mentre il tipo all'altro capo del filo parlava. Poi lei ha detto: "D'accordo, resti dov'è, scendo io". Poi mi ha chiesto di far passare il signor Lauder nel suo ufficio, se mi trovavo da quelle parti quando fosse arrivato e io ho risposto che l'avrei fatto e me ne sono andata.» « E' proprio sicura che la conversazione si sia svolta così?» «Sicura come del fatto che me ne sto qui seduta. E' quello che lei ha detto.» E andò avanti così: i pazienti interrogatori, gli appunti meticolosi, l'osservazione attenta degli occhi e delle mani degli interrogati alla ricerca di un guizzo di paura rivelatore o di una reazione nervosa a qualche non gradito mutamento di tono. Al dottor Baguley seguì Fredrica Saxon. Nell'incrociarsi sulla porta i due furono attenti a non guardarsi negli occhi e Dalgliesh lo notò. Lei era una donna di ventinove anni, bruna, piena di vita, vestita in modo sportivo e decisa a dare risposte brevi, ma chiare; sembrava provare un piacere perverso nel far rilevare che dalle diciotto alle diciannove era stata sola nella propria stanza a svolgere un test psicologico e nell'affermare dl non essere in grado di fornire un alibi né per se stessa né per nessun altro. Dalgliesh ebbe ben poco aiuto e informazioni da Fredrica Saxon, ma non per questo dedusse che la donna non ne avesse da dare. Fu seguita da una teste molto diversa. La signorina Ruth Kettle aveva evidentemente deciso che il delitto non la riguardava e, pur essendo disposta a rispondere alle domande di Dalgliesh, lo fece con una vaga mancanza di interesse dalla quale traspariva che i suoi pensieri erano volti a cose più elevate. Vi è un numero limitato di parole per esprimere orrore e sorpresa e il personale della clinica le aveva usate quasi tutte nel corso degli interrogatori. La reazione della signorina Kettle fu meno ortodossa. Era sua opinione che il delitto fosse singolare..., davvero assai strano, e se ne stava seduta, sbattendo le palpebre, mentre guardava Dalgliesh attraverso le lenti spesse con un'espressione di dolce smarrimento, quasi trovasse la cosa sì strana, ma decisamente non abbastanza perché valesse la pena di addentrarsi nei particolari. Però due notizie che fu in grado di dare apparvero interessanti e Dalgliesh si augurò solo che fossero fondate. Era stata piuttosto vaga riguardo ai propri spostamenti nel corso di quel pomeriggio, ma, insistendo, Dalgliesh era riuscito a sapere che lei aveva parlato con la moglie di uno dei pazienti sottoposti a elettroshock sino a verso le diciassette e quaranta, quando la capoinfermiera Ambrose aveva telefonato per dirle che il malato poteva essere portato a casa. La signorina Kettle era scesa per le scale con il paziente, aveva dato la buonasera e poi era scesa direttamente per cercare una pratica nella stanza d'archivio. Aveva trovato la stanza in perfetto ordine e quando ne era uscita aveva chiuso a chiave la porta. Malgrado la sua incertezza sulla maggior parte delle proprie attività in quel pomeriggio fu molto precisa riguardo agli orari. Dalgliesh si disse che in ogni caso avrebbe potuto verificare con la Ambrose. Il secondo indizio fu più nebuloso e la signorina Kettle vi accennò apparentemente indifferente alla sua importanza. Circa mezz'ora dopo essere tornata nella propria stanza al primo piano, aveva sentito l'inequivocabile rumore del montacarichi di servizio che si fermava poi con un tonfo. Dalgliesh era stanco ora. Nonostante il riscaldamento centrale aveva brividi di freddo e riconobbe il familiare malessere che precedeva i suoi attacchi di nevralgia. Il lato destro del volto già cominciava a irrigidirsi e ad appesantirsi e sotto le palpebre avvertiva la fitta pungente che gli causava una spasmodica pulsazione. Ma doveva ancora parlare con l'ultima testimone. La signora Bostock, la capo-stenografa, non dimostrava affatto la tolleranza che avevano dimostrato i medici nell'accettare la lunga attesa. Era arrabbiata e la collera entrò con lei nella stanza come una gelida raffica di vento. Prese posto senza parlare, accavallò le gambe lunghe e notevolmente belle e guardò Dalgliesh con un'espressione di antipatia. Aveva un aspetto insolito e interessante. I lunghi capelli, biondi come una moneta d'oro, erano arricciolati in complicate onde sopra un volto pallido, arrogante, dal naso affilato. Il collo lungo e slanciato, la testa fulgida e gli occhi lievemente sporgenti le conferivano l'aspetto di un uccello esotico. Dalgliesh fece fatica a reprimere un moto di sorpresa sgradevole alla vista delle sue mani. Erano enormi, rosse e nodose come quelle di un macellaio e facevano quasi pensare che fossero state innestate assurdamente ai polsi sottili per una maligna ironia della sorte. C'erano troppe cose a cui pensare, troppi progetti da fare. Gli occhi grigioverdi, contornati di crema, la guardavano calmi dallo specchio. Chinandosi in avanti, esaminò attentamente le delicate increspature della pelle sotto ogni occhio alla ricerca delle prime rughe. In fin dei conti aveva solo ventotto anni, non c'era bisogno di preoccuparsi per il momento, ma Ralfe quest'anno ne compiva trenta. Il tempo passava, se volevano conseguire qualcosa non avevano tempo da perdere. rifletté sulla tattica da mettere in atto. La situazione richiedeva molta attenzione e non c'era spazio per gli errori. Già ne aveva commesso uno. La tentazione di schiaffeggiare il volto di Nagle si era rivelata irresistibile, comunque era stato un errore e probabilmente un errore grosso. Un atto troppo vicino alla volgarità, per essere innocuo. Un'aspirante funzionaria di amministrazione non schiaffeggia un portiere, anche se è sotto tensione, soprattutto se vuole creare l'impressione di una competenza calma e autorevole. Ricordò l'espressione comparsa sul volto della signorina Saxon. Be', Fredrica Saxon non era nella posizione migliore per assumere atteggiamenti critici; peccato che il dottor Steiner fosse stato presente, ma si era tutto svolto così in fretta che lei non era neppure certa che lui avesse veramente visto la scena. La piccola Priddy, naturalmente, non aveva alcuna importanza.» Era chiaro che quando lei avesse ricevuto il nuovo incarico, Nagle se ne sarebbe dovuto andare, ma anche qui doveva stare molto attenta. Era un maledetto insolente, ma la clinica poteva anche trovare di peggio e i medici lo sapevano. Un inserviente efficiente faceva loro molto comodo, soprattutto se volenteroso e capace di effettuare le piccole e numerose riparazioni necessarie. Nessuno l'avrebbe approvata, se con quella sua decisione essi fossero stati costretti ad aspettare che arrivasse qualcuno dal reparto tecnici ogni volta che si rompeva un cordone o bisognava sostituire una valvola. Nagle se ne doveva andare, ma lei, prima di intraprendere qualunque azione, avrebbe messo fuori le antenne per trovare un buon sostituto. La preoccupazione centrale del momento era quella di ottenere l'appoggio dei medici. Poteva essere sicura del dottor Etherege e la sua era la voce più potente; ma non era l'unico. Di lì a sei mesi sarebbe andato in pensione e la sua influenza sarebbe calata moltissimo. Se le avessero offerto l'incarico a titolo provvisorio e tutto fosse andato bene, il Comitato Amministrativo dell'ospedale forse non avrebbe avuto troppa fretta di annunciare che c'era un posto vacante. Quasi sicuramente avrebbe atteso che il delitto fosse risolto oppure che la polizia mettesse a tacere la cosa. Stava a lei riuscire a consolidare la propria posizione nei mesi a venire, non doveva dar nulla per scontato. Quando in cliniche come la Steen sorgeva qualche guaio, il Comitato tendeva a dare il posto a qualcuno che arrivava da fuori, perché pareva più prudente introdurre un estraneo non contaminato da fatti precedenti. Il segretario in questo caso era un personaggio influente. Era stata una mossa saggia parlargli il mese prima e chiedere i suoi consigli sulla possibilità di ottenere un diploma dell'Istituto di Amministrazione Ospedaliera. A lui piaceva che il proprio personale si qualificasse ed essendo un uomo lo lusingava sentirsi richiedere consigli. Ma non era uno sciocco e nemmeno era necessario che lo fosse. Lei era una candidata molto adatta, perché era proprio una persona con le sue qualità quella che serviva e lui lo sapeva. Si adagiò rilassata su letto singolo, i piedi tenuti alti su un cuscino, la mente indaffarata a immaginare i futuri successi. "Mia moglie è funzionario amministrativo della Clinica Steen." Era molto più soddisfacente che non: "In effetti al momento mia moglie lavora come segretaria; alla Clinica Steen, tra l'altro". E' a meno di tre chilometri di distanza, in un obitorio nella zona settentrionale di Londra, il cadavere della signorina Bolam, strettamente imballato come un'aringa in una ghiacciaia, stava lentamente irrigidendosi nella notte autunnale. La ragazza non mostrò alcun imbarazzo alla vista di Dalgliesh, ma tolse le gambe dal letto e gli fece un sorriso che era manifestamente felice, quasi di benvenuto, certo privo di civetteria. «Gradisce un poi di tè?» gli chiese. Nagle disse: «I poliziotti non bevono mai quando sono in servizio e questo vale anche per il tè. Sarà meglio che ti vesta, bambina, non è il caso di scandalizzare il sovrintendente». La ragazza sorrise di nuovo, raccolse gli abiti con una mano e prese il vassoio con l'altra, quindi scomparve da una porta al lato opposto dello studio. Era difficile riconoscere in quel personaggio sicuro di sé e sensuale, la ragazzina piangente e diffidente che Dalgliesh aveva visto la prima volta alla Clinica Steen. La guardò mentre gli passava davanti e si rese conto che chiaramente era nuda sotto la vestaglia di Nagle. I capezzoli eretti risaltavano sotto il tessuto di lana leggera. Dalgliesh intuì che dovevano aver appena fatto l'amore. Mentre lei scompariva il sovrintendente si voltò verso Nagle e gli lesse negli occhi un fugace bagliore di divertimento. Ma nessuno dei due parlò. Dalgliesh prese a camminare per lo studio, osservato da Nagle che continuava a star sul letto. La stanza era in ordine, un ordine quasi ossessivo che gli ricordò l'appartamento di Enid Bolam con il quale peraltro questo non aveva nulla in comune. La pedana con il semplice letto di legno, la sedia e il tavolino fungevano manifestamente da stanza da letto, il resto dello studio era occupato dagli strumenti di lavoro, senza che però vi fosse nulla di quella confusione indisciplinata che i non iniziati associano alla vita di un artista. Una dozzina circa di grandi tele a olio era appoggiata alla parete di fronte a lui che rimase sorpreso dalla loro forza espressiva. Non si trattava di un dilettante che soddisfaceva il proprio piccolo talento. La signorina Priddy era l'unica modella di Nagle. L'immagine del suo corpo adolescente, dal seno prosperoso, rimbalzava da ogni parte in una multiforme varietà di pose, ora in prospettiva, ora stranamente allungata quasi che l'artista si compiacesse della propria competenza tecnica. Il ritratto più recente era sul cavalletto e raffigurava la ragazza seduta a cavalcioni di uno sgabello, con le mani infantili rilassate tra le cosce, il seno portato in avanti. C'era qualcosa in quell'esibizione di capacità tecnica, nell'uso audace dei verdi e dei viola e negli attenti rapporti tonali, che risvegliò un ricordo nella mente di Dalgliesh. «Chi le dà lezioni?» chiese. «Sugg?» «Esatto.» Nagle non parve sorpreso. «Conosce le sue opere?» «Ho uno dei suoi primi olii, un nudo.» «Ha fatto un buon investimento, se lo tenga stretto.» «Ho tutta l'intenzione di farlo» rispose con mitezza Dalgliesh «perché si dà il caso che mi piaccia. E' da molto che studia con lui?» «Due anni. Non un corso regolare, naturalmente. Ancora tre anni e sarò io a insegnare a lui, voglio dire, se sarà capace di imparare. Sta diventando vecchio ormai e ama troppo i suoi piccoli trucchi.» «A quanto pare anche lei ne ha imitato qualcuno.» «Le pare? E' interessante.» Nagle non pareva offeso. «Per questo è una cosa buona che io me ne vada. Parto per Parigi al più tardi alla fine di questo mese. Ho chiesto una borsa di studio, la Bollinger. Il vecchio ha detto una parolina per me e la scorsa settimana ho ricevuto una lettera con cui mi comunicano che mi è stata concessa.» Per quanto facesse, non riuscì a mascherare completamente la nota di trionfo nella propria voce. Sotto l'atteggiamento indifferente c'era un sottofondo di gioia ed effettivamente aveva ragione di essere soddisfatto di sé, perché il Bollinger non era una cosa da nulla. Come Dalgliesh sapeva, significava due anni in una città europea con una cifra generosa a disposizione e piena libertà, affinché lo studente potesse vivere e lavorare come voleva. Il fondo Bollinger era stato stanziato da un fabbricante di specialità medicinali che era morto ricco e famoso, ma non soddisfatto. Il denaro gli era venuto dalle polverine per il mal di stomaco, ma il suo cuore era stato tutto rivolto alla pittura. «In qualche sacco della spazzatura in giro per Londra se ancora non li hanno svuotati. Il povero Cully non ha osato metterlo nella propria pattumiera per paura che la polizia andasse a frugare e nemmeno ha potuto bruciarlo, perché abita in una casa del comune col riscaldamento elettrico e senza caldaia. E così ha aspettato che sua moglie andasse a letto, poi è rimasto sveglio fino alle undici e l'ha tagliato a pezzi con le forbici di cucina. Ha messo i pezzi in una serie di sacchetti di carta, li ha cacciati in una borsa grande, poi è salito sull'autobus numero trentasei ed è andato molto lontano dal suo quartiere. Quando è sceso si è messo a gettare a uno a uno i sacchetti in ogni bidone della spazzatura che incontrava e ha fatto cadere i bottoni di metallo nelle grate della fogna. E' stata un'impresa terribile e il poveretto non vedeva l'ora di tornarsene a casa, tra la paura, la stanchezza, aveva perso l'ultimo autobus, e il mal di pancia. Quando sono andata a trovarlo la mattina seguente non l'ho trovato in ottima forma. Sono però riuscita a persuaderlo che non si trattava di una faccenda di vita o di morte, e in particolare di morte, e gli ho detto che ne avrei parlato con lei.» «Grazie» disse Dalgliesh con aria seria. «Suppongo non abbia altre confessioni da farmi. Oppure ha obiezioni di coscienza all'idea di consegnare alla giustizia uno sfortunato psicopatico?» Lei rise, infilandosi il cappotto e annodandosi il foulard sui capelli neri e ricci. «Oh, no! Se sapessi chi è stato glielo direi. Il delitto non mi garba e sono ligia alle leggi. Ma non sapevo che stessimo parlando di giustizia, è la parola che ha usato lei. Come Porzia, penso che nessuno di noi troverebbe la salvezza nella giustizia. Per favore, vorrei proprio pagare il mio caffè.» "Non vuole aver l'impressione che io ho comperato le sue informazioni" pensò Dalgliesh "nemmeno per il valore di uno scellino." Resistette alla tentazione di rispondere che il caffè andava sul conto spese, stupendosi un poi per l'impulso al sarcasmo che lei gli suscitava. Quella ragazza gli piaceva, ma c'era qualcosa in quella sua sicurezza, in quella sua autosufficienza che lui trovava irritante. Forse quello che in realtà provava era invidia. Quando uscirono dal locale le chiese se stava recandosi alla Clinica Steen. «Oggi no, non ho sedute il lunedì mattina. Ma ci andrò domani.» Lo ringraziò molto formalmente del caffè e si salutarono, lui diretto alla Clinica Steen, mentre lei scompariva verso lo Strand. Osservandone la figura snella e scura Dalgliesh immaginò Cully che strisciava nella notte con il suo patetico fagotto, semipietrificato dalla paura. Non si stupiva che il vecchio portiere si fosse confidato con Fredrica Saxon. Al suo posto forse avrebbe fatto anche lui lo stesso. Lei gli aveva dato informazioni interessanti, ma quello che non era stata in grado di dargli era un alibi per il dottor Baguley e per se stessa. La signora Bostock, pronta con il suo blocco di appunti per stenografare, sedeva al fianco della poltrona del dottor Etherege, le eleganti gambe accavallate e la testa rossa sollevata in attesa di ricevere le istruzioni del direttore. «Ha telefonato il sovrintendente Dalgliesh per avvertire che sarà qui tra poco. Vuole vedere di nuovo alcuni membri del personale e ha chiesto di parlare con me prima di pranzo.» «Non vedo come può trovare il tempo di parlargli prima di pranzo, dottore» disse la signora Bostock con tono di rimprovero. «Alle due e mezzo c'è la riunione del Comitato del Personale Professionale e lei non ha ancora avuto tempo di guardare il programma. Alle dodici e trenta ha appuntamento con il dottor Talmage, che è rientrato dagli Stati Uniti e io speravo che lei mi potesse dettare un poi di lavoro dopo le undici.» «Questo dovrà aspettare. Temo che il sovrintendente porterà via parecchio tempo anche a lei. Deve fare diverse domande sul funzionamento della clinica.» All'improvviso la signora Fenton disse: «Dunque qualcuno l'ha uccisa. Lo so che dovrei provare pietà per lei qualunque cosa abbia fatto, ma non ci riesco. Non ancora. Avrei dovuto rendermi conto che Matthew non sarebbe stato l'unica vittima. Questa gente non si ferma mai, non è così? Probabilmente qualcuno non ha più resistito e ha cercato questa via di uscita; è una cosa tremenda, ma riesco a capirla. L'ho letto sui giornali, sa, prima che il direttore della clinica mi telefonasse. Lo sa che per un momento sono stata contenta? E una cosa orribile da dire, ma è la verità. Sono stata contenta che fosse morta. Ho pensato che ora Matthew non si sarebbe più dovuto preoccupare.» «Non riteniamo che la signorina Bolam stesse ricattando suo marito» disse Dalgliesh con dolcezza. «Potrebbe essere, ma è improbabile. Pensiamo che sia stata uccisa perché ha scoperto che cosa stava succedendo e intendeva porvi fine; per questo è così importante che io parli con lei, ora.» Le nocche della signora Fenton sbiancarono e le mani che stringevano il corrimano cominciarono a tremare. «Temo di essere stata molto stupida. Non devo sprecare oltre il suo tempo. Comincia a far freddo vero? Vogliamo entrare?» Si voltarono verso la casa senza parlare e Dalgliesh accorciò il passo per uniformarlo a quello lento della figuretta snella e diritta che gli stava al fianco. La guardava con preoccupazione: era molto pallida e gli parve di veder le labbra muoversi silenziosamente. Ma l'andatura era ferma. Non si sarebbe sentita male. Dalgliesh si disse che non doveva affrettare le cose. Entro mezz'ora, forse meno, avrebbe avuto saldamente nelle mani il movente. Come una bomba che avrebbe fatto esplodere tutta la storia. Ma doveva essere paziente Di nuovo provò un'indefinibile irrequietezza come se, persino in quel momento di imminente trionfo, il suo cuore avesse la certezza dell'insuccesso. Il crepuscolo calò su di loro, da qualche parte un falò si spense riempiendogli le narici di fumo acre. Il prato era come una spugna umida sotto i suoi piedi. La casa li accolse con il suo gradevole calore e con un vago profumo di pane fatto in casa. La signora Fenton lo lasciò solo un attimo per andare a cacciare la testa in una stanza in fondo all'atrio. Dalgliesh intuì che era andata a ordinare il tè. Poi lei tornò e lo condusse nel salotto davanti a un confortevole fuoco di legna, che gettava un'immensa ombra sulle poltrone e sul divano rivestiti di chintz e sul tappeto sbiadito. Accese un'enorme lampada a stelo a fianco del camino e tirò le tende sulle finestre, tagliando fuori la desolazione e lo squallore. Arrivò il tè, su un vassoio che fu posato su un basso tavolino da una cameriera flemmatica col grembiulino, vecchia come la sua padrona, che evitò attentamente di guardare Dalgliesh. Il tè era buono. Dalgliesh si rese conto, con un senso di turbamento troppo simile alla compassione per essere gradevole, che ci si era data molta pena per lui. C'erano biscotti appena usciti dal forno, due tipi di panini, torta fatta in casa e pan di Spagna glassato. Troppo di ogni cosa, un tè da offrire a un ragazzino. Era come se le due donne, di fronte al problema di un ospite sconosciuto e per nulla gradito, avessero cercato sollievo alla loro insicurezza, offrendo quel banchetto eccessivamente ricco. La stessa signora Fenton pareva stupita della varietà di cose che si trovava davanti. Manovrava le tazze sul vassoio come una padrona di casa ansiosa e inesperta. Fu solo quando Dalgliesh ebbe nelle mani il tè e un panino che lei riprese a parlare dell'omicidio. «Mio marito ha frequentato la Clinica Steen per circa quattro mesi, quasi dieci anni fa, poco dopo aver lasciato l'esercito. Allora abitava a Londra e io mi trovavo a Nairobi da mia nuora, che aspettava il primo figlio. Ho saputo che mio marito si era sottoposto a un trattamento solo quando lui me lo ha detto una settimana fa.» Si interruppe. Per ultima cosa prese la lettera che lui aveva scritto ai genitori di Jennifer e i guanti e li gettò nella caldaia. Ora c'era soltanto da aprire la manopola del gas che era situata sulla destra del forno e a portata del braccio inerte di lei. Le sollevò il braccio, le premette l'indice e il pollice contro la manopola e ruotò. Si udì il sibilo basso del gas che fuoriusciva. Si chiese quanto ci sarebbe voluto certo non molto, forse era solo una questione di minuti. Spense la luce e arretrò, chiudendosi la porta alle spalle. Fu in quel momento, che si ricordò delle chiavi della porta principale: bisognava che gliele trovassero addosso. Sentì un colpo al cuore nel rendersi conto di quanto avrebbe potuto essergli fatale quell'unico errore. Entrò di nuovo nella stanza, facendosi luce con la torcia elettrica. Togliendosi le chiavi di tasca e trattenendo il fiato per non respirare il gas, gliele mise nella mano sinistra. Era arrivato alla porta quando udì il miagolio di Tigre. Il gatto probabilmente dormiva sotto la credenza e ora si stava muovendo lentamente attorno al corpo di Jennifer. Lo vide tendere una zampa verso il piede destro di lei e si rese conto che non ce l'avrebbe fatta a tornarle vicino ancora una volta. «Vieni qui, Tigre» bisbigliò. «Vieni qui, gattone!» Il gatto volse verso di lui i grandi occhi ambrati e parve riflettere, ma senza emozione e senza fretta. Poi lentamente arrivò sino alla porta. Nagle infilò il piede sinistro sotto il suo ventre morbido, lo sollevò e lo mise fuori della porta con un rapido movimento. «Vattene, stupido. Vuoi perdere le tue nove vite in un solo minuto? Quella roba è mortale.» Chiuse la porta, e il gatto, di colpo attivo, sfrecciò via nell'oscurità. Nagle si fece strada al buio verso la porta sul retro, aprì i chiavistelli e uscì. Per un attimo si fermò, la schiena appoggiata alla porta per controllare che non ci fosse nessuno. Adesso che era tutto finito, si rendeva conto della tensione provata. La fronte e le mani erano madide di sudore e aveva difficoltà a respirare. Aspirò profondamente l'umida e gradevolmente fresca aria della notte. La nebbia non era fitta; poco più di una bruma pesante attraverso la quale il lampione stradale luccicava come una macchia gialla nell'oscurità. Quella luce a soli cinquanta metri di distanza rappresentava la salvezza. Eppure d'un tratto sembrò irraggiungibile. Come un animale nella tana, fissava affascinato e inorridito quel pericoloso faro di luce e ordinava alle proprie gambe di muoversi. Ma la forza in esse era scomparsa. Accoccolato nell'oscurità e protetto dalla porta, la schiena premuta contro il legno cercò di vincere il panico. In fine dei conti, non aveva una gran fretta. Di lì a un attimo avrebbe abbandonato quel provvisorio rifugio e si sarebbe lasciato tutto alle spalle. Poi si sarebbe trattato solo di rientrare nella piazza dalla parte opposta e aspettare fino all'arrivo di un casuale passante, che potesse essere testimone dei suoi vani e ripetuti colpi sulla porta principale. Anche le parole che avrebbe detto erano pronte: "Si tratta della mia ragazza, credo che sia là dentro, ma non vuole aprirmi, era con me fino a poco fa poi, quando se n'è andata, ho scoperto che mi erano scomparse le chiavi. Era strana, meglio chiamare un poliziotto, intanto io spacco il vetro". Poi il rumore del vetro infranto, la corsa verso il seminterrato per poter chiudere di nuovo a chiave la porta sul retro prima di sentirsi alle calcagna i passi dei soccorritori. Il peggio era passato. Da quel momento in avanti sarebbe stato tutto molto facile, entro le dieci il cadavere sarebbe stato rimosso e la clinica vuota. In un attimo lui avrebbe compiuto l'atto finale, ma non subito. Non proprio subito. Sul Lungotamigi il traffico era quasi bloccato. Ci doveva essere qualche ricevimento al Savoy. All'improvviso Dalgliesh chiese: «Non c'è nessuno di guardia alla clinica, naturalmente, vero?». «No, signore, si ricorda che stamani le avevo chiesto se dovevamo mettere qualcuno di guardia e lei mi ha risposto di no?» «Ricordo.» «In fin dei conti, signore, non pareva necessario, avevamo ispezionato tutto l'edificio da cima a fondo e poi non abbiamo tutti questi uomini a disposizione.»