/<1993>/ Mark aveva undici anni e fumava saltuariamente già da due. Non cercava di smettere ma stava attento a non prendere il vizio. Preferiva le Kool, la marca del suo ex padre, ma sua madre fumava le Virginia Slim, due pacchetti al giorno, e in media Mark riusciva a fregarne dieci o dodici la settimana. Sua madre era una donna molto indaffarata e con molti problemi, magari un po' ingenua quando c'erano di mezzo i suoi figli, e non immaginava neppure lontanamente che il maggiore fumasse a undici anni. Ogni tanto Kevin, il pregiudicato minorenne che abitava due strade più in là, per un dollaro vendeva a Mark un pacchetto di Marlboro rubate. Ma di regola doveva accontentarsi delle sigarette sottilissime di sua madre. Ne aveva in tasca quattro, quel pomeriggio, mentre precedeva il fratello Ricky di otto anni lungo il sentiero nel bosco dietro il camping delle roulotte. Ricky era nervoso: era la prima volta che fumava. Il giorno prima aveva scoperto Mark che nascondeva le sigarette in una scatola da scarpe sotto il letto e aveva minacciato di spifferare tutto se il fratello maggiore non gli avesse insegnato come si faceva. Adesso procedevano furtivi lungo il sentiero, diretti verso uno dei nascondigli dove Mark aveva passato molte ore in solitudine cercando di aspirare e di fare anelli di fumo. Quasi tutti gli altri ragazzi della zona si davano alla birra e alla marijuana, due vizi che Mark voleva evitare. Il loro ex padre era un alcolizzato che picchiava i due ragazzi e la madre, e i pestaggi erano sempre venuti dopo i suoi spiacevoli incontri con la birra. Mark aveva visto e sentito gli effetti dell'alcol. E aveva paura anche della droga. «Ti sei perso?» chiese Ricky, da vero fratello minore, mentre lasciavano il sentiero e si addentravano in mezzo alle erbacce che arrivavano al petto. «Chiudi il becco» disse Mark senza rallentare il passo. Quando il padre stava in casa lo faceva solo per bere, dormire e maltrattarli. Adesso se n'era andato, grazie al cielo. Da cinque anni Mark doveva occuparsi di Ricky, e si sentiva come un padre undicenne. Gli aveva insegnato a tirare un pallone da football e ad andare in bicicletta. Gli aveva spiegato quello che sapeva del sesso. Lo aveva messo in guardia contro la droga e lo aveva difeso dai bulli. E si sentiva sconvolto all'idea di iniziarlo al vizio. Ma era soltanto una sigaretta. Avrebbe potuto essere qualcosa di molto peggio. Le erbacce finirono. Arrivarono sotto un grosso albero, con una corda che penzolava da un ramo robusto. Una fila di cespugli lasciava il posto a una piccola radura, e più oltre un viottolo sterrato e invaso dall'erba spariva oltre un dosso. In lontananza si sentivano i rumori di un'autostrada. Mark si fermò e indicò un ceppo vicino alla corda. «Siedi lì» ordinò; e Ricky, obbediente, indietreggiò, sedette e si guardò intorno con aria ansiosa, quasi temendo che la polizia li spiasse. Mark lo squadrò come un sergente istruttore e prese una sigaretta dal taschino della camicia. La strinse fra il pollice e l'indice della mano destra e si sforzò di sembrare disinvolto. «Conosci le regole» disse, guardando Ricky dall'alto. Le regole erano soltanto due, quel giorno le avevano discusse una dozzina di volte, e a Ricky bruciava essere trattato come un bambino. Girò gli occhi e disse: «Certo. Se lo dico a qualcuno, mi pesti». «Giusto.» Ricky incrociò le braccia. «E posso fumarne soltanto una al giorno.» «Giusto. Se ti becco a fumarne di più, per te sono guai. E se scopro che bevi o pasticci con le droghe, allora...» «Lo so, lo so. Mi pesti ancora.» «Giusto.» «Tu quante ne fumi al giorno?» «Una sola» mentì Mark. In certi giorni ne fumava davvero una sola, in certi altri tre o quattro, secondo quelle che aveva a disposizione. Strinse il filtro tra le labbra come un gangster. «Una al giorno mi farà crepare?» chiese Ricky. Mark si tolse la sigaretta dalle labbra. «Non tanto presto. Una al giorno non è pericolosa. Ma se ne fumi di più potresti metterti nei guai.» Tornò al ceppo. E nel momento in cui si accucciava e fissava la Lincoln pensando angosciosamente al fratello, la portiera dalla parte del passeggero si spalancò all'improvviso, e Mark uscì. Romey abbassò il mento sul petto, e proprio mentre lui ricominciava a russare, Mark spostò la pistola sul tappetino con la mano sinistra e con la destra aprì la portiera. Premette la maniglia e spinse con la spalla, e l'ultima cosa che sentì mentre ruzzolava fuori fu il russare profondo dell'avvocato. Atterrò sulle ginocchia e si afferrò alle erbacce per trascinarsi lontano dalla macchina. Corse via, tenendosi curvo, e in pochi secondi arrivò all'albero dove Ricky attendeva, ammutolito per l'orrore. Appena fu accanto al ceppo si fermò e si voltò. Si aspettava di vedere l'avvocato che lo inseguiva barcollando con la pistola. Ma la macchina sembrava innocua. La portiera dalla parte del passeggero era aperta. Il motore era acceso. Lo scappamento era libero. Respirò per la prima volta dopo un minuto, poi si girò lentamente a guardare Ricky. «Ho staccato il tubo» disse Ricky con voce stridula e spezzata da brevi respiri affannosi. Mark annuì ma non disse nulla. Si sentiva molto più calmo, adesso. La macchina era a quindici metri e se Romey fosse sceso, avrebbe potuto dileguarsi nel bosco in un istante. E là, nascosti da alberi e cespugli, non sarebbero mai stati visti da Romey se avesse deciso di balzare fuori e di mettersi a sparare all'impazzata. «Ho paura, Mark. Andiamo via» disse Ricky. La voce era sempre stridula, le mani tremanti. «Un momento solo.» Mark scrutava attento la macchina. «Vieni, Mark. Andiamo.» «Ho detto un momento.» Ricky guardò la Lincoln. « E' morto?» «Non credo.» Dunque quell'uomo era vivo e aveva la pistola, e ormai era evidente che suo fratello non aveva più paura e stava pensando a qualcosa. Ricky indietreggiò di un passo. «Io me ne vado» mormorò. «Voglio tornare a casa.» Mark non si mosse. Espirò l'aria con calma e continuò a osservare la macchina. «Un secondo» disse senza guardare Ricky. La voce aveva ritrovato l'autorità. Ricky tacque, si sporse in avanti e appoggiò le mani sulle ginocchia bagnate. Guardò il fratello e scosse piano la testa mentre Mark estraeva con cura una sigaretta dal taschino della camicia senza distogliere lo sguardo dalla Lincoln. L'accese, tirò una boccata e sbuffò il fumo verso i rami. In quel momento Ricky si accorse del gonfiore. «Cos'hai fatto all'occhio?» Mark ricordò. Lo sfiorò delicatamente con le dita, poi massaggiò il bernoccolo sulla fronte. «Mi ha dato un paio di ceffoni.» «Mi sembra una brutta botta.» «Non è niente. Sai cosa faccio?» chiese senza aspettare una risposta. «Torno alla macchina e rimetto il tubo nello scappamento. Lo sistemo io, quel bastardo.» «Sei più matto di lui. Vuoi scherzare, vero, Mark?» Mark emise un altro sbuffo di fumo. All'improvviso si spalancò la portiera dalla parte del guidatore, e Romey uscì barcollando con la pistola in pugno. Borbottò qualcosa mentre si avvicinava alla parte posteriore della macchina, trovò ancora una volta il tubo abbandonato sull'erba. Alzò la faccia verso il cielo e gridò frasi oscene. Mark si acquattò e trattenne Ricky. Romey si girò su se stesso e scrutò gli alberi intorno alla radura. Bestemmiò ancora, poi cominciò a piangere rumorosamente. Il sudore gli colava dalla testa, e la giacca nera gli stava incollata addosso. Girò intorno alla macchina singhiozzando e parlando e insultando gli alberi. All'improvviso si fermò, si issò pesantemente sul bagagliaio, poi trasalì e scivolò all'indietro come un elefante drogato fino a che urtò contro il lunotto posteriore. Allungò le gambe tozze. Aveva perso una scarpa. Prese la pistola, non troppo in fretta e non troppo lentamente, come se fosse un gesto abituale, e mise la canna in bocca. Gli occhi rossi e folli rotearono e per un secondo indugiarono sul tronco dell'albero sopra i ragazzi. Aprì le labbra e strinse la canna con i grossi denti sporchi. Chiuse gli occhi e premette il grilletto con il pollice destro. Era chiaro che Trumann non lo sapeva affatto. «Cosa ve lo fa pensare?» Fink posò i documenti sul sedile. «Io e Romey ci conoscevamo da un pezzo. Abbiamo studiato insieme alla facoltà di Legge vent'anni fa a Tulane. Era un po' matto, ma molto in gamba. Circa una settimana fa mi ha telefonato a casa e ha detto che voleva parlarmi del caso Muldanno. Era sbronzo, fuori di sé e con la voce impastata, e continuava a ripetere che non poteva affrontare il processo, e questo era molto strano perché i casi clamorosi gli piacevano molto. Abbiamo parlato per un'ora. Sragionava, balbettava...» «Ha addirittura pianto» intervenne Foltrigg. «Certo, piangeva come un bambino. All'inizio sono rimasto sorpreso, ma per la verità quello che faceva Jerome Clifford ormai non mi sorprendeva più. Non mi avrebbe sorpreso neppure un suicidio. Alla fine ha riattaccato. L'indomani mattina alle nove mi ha telefonato in ufficio: aveva il terrore di essersi lasciato sfuggire qualcosa la sera prima. Era in preda al panico, continuava a lasciar capire che poteva sapere dov'era il cadavere e cercava di scoprire se nelle sue confidenze da ubriaco aveva buttato là qualche indizio. Be', io sono stato al gioco e l'ho ringraziato per le informazioni che mi aveva fornito la sera prima, anche se non aveva detto niente di utile. L'ho ringraziato due volte, poi tre, e ho capito che stava sudando. Quel giorno mi ha ritelefonato altre due volte in ufficio, e la sera mi ha chiamato a casa. Era di nuovo sbronzo. Era quasi ridicolo, ma ho pensato che se gli avessi dato corda forse si sarebbe lasciato scappare qualcosa. Gli ho detto che avevo dovuto riferirlo a Roy, e che Roy l'aveva riferito all'Fbi, e che adesso l'Fbi lo stava sorvegliando ventiquattr'ore su ventiquattro.» «E lui ha perso definitivamente la testa» suggerì Foltrigg. «Sicuro. Ha fatto una sfuriata, ma il giorno dopo mi ha cercato di nuovo in ufficio. Siamo andati a pranzo insieme e ho visto che aveva i nervi a pezzi. Era troppo spaventato per chiedere apertamente se sapevamo del cadavere, e io ho proseguito nel mio gioco. Gli ho detto che eravamo sicuri che avremmo avuto in mano il cadavere in tempo per il processo, e l'ho ringraziato ancora. Stava crollando sotto i miei occhi. Non aveva dormito, non aveva neppure fatto il bagno, aveva gli occhi rossi e gonfi. Si è ubriacato a pranzo, e ha cominciato ad accusarmi di averlo raggirato e di essermi comportato in modo contrario all'etica. Una scenata sgradevole. Ho pagato il conto e me ne sono andato e quella sera mi ha telefonato a casa. Era stranamente sobrio. Si è scusato. Ho risposto che non era necessario. Gli ho spiegato che Roy stava esaminando la possibilità di incriminarlo per avere ostacolato il corso della giustizia, e lui è esploso. Ha detto che non potevamo provarlo. Ho risposto che forse era così, ma comunque sarebbe stato incriminato, arrestato e processato, e non avrebbe avuto la possibilità di difendere Barry Muldanno. Lui ha urlato e inveito per un quarto d'ora, poi ha riattaccato. Non l'ho più sentito.» «Lui sa, o meglio sapeva, dove Muldanno ha nascosto il cadavere» soggiunse Foltrigg in tono sicuro. «Perché non siamo stati informati?» chiese Trumann. «Stavamo per avvertirvi. Anzi, io e Thomas ne abbiamo discusso oggi pomeriggio, poco prima che arrivasse la telefonata» disse Foltrigg con aria indifferente, come se Trumann non avesse il diritto di fargli domande del genere. Trumann lanciò un'occhiata a Scherff che teneva gli occhi incollati sul blocco e continuava a disegnare pistole. Foltrigg finì il succo di pomodoro e gettò la lattina nel cestino. Incrociò i piedi. «Dovete ricostruire i movimenti di Clifford da New Orleans a Memphis. Che strada ha preso? Aveva qualche amico lungo il percorso? Dove ha fatto sosta? Con chi si è incontrato a Memphis? Senza dubbio deve aver parlato con qualcuno tra il momento in cui ha lasciato New Orleans e quello in cui si è sparato. Non lo pensa anche lei?» «Ecco, secondo la mia teoria, il ragazzo era in macchina prima che Clifford si sparasse, e c'è rimasto parecchio tempo a giudicare da tutte le impronte che abbiamo trovato; e lui e Clifford hanno parlato. Poi, a un certo momento il ragazzo è sceso dalla macchina, Clifford ha cercato di aggiungere qualcosa alla lettera e poi si è sparato. Il ragazzo si è spaventato. Il fratello minore è caduto in stato di shock, ed eccoci qui.» «Perché il ragazzo dovrebbe mentire?» «Uno, ha paura. Due, è un bambino. Tre, forse Clifford gli ha detto qualcosa che non dovrebbe sapere.» L'esposizione di McThune era perfetta, e la conclusione drammatica lasciò nell'ufficio un silenzio pesante. Foltrigg sembrava paralizzato. Boxx e Fink fissavano la scrivania a bocca aperta. Dato che il suo superiore era momentaneamente frastornato, Wally Boxx intervenne per soccorrerlo e fece una domanda stupida: «perché la pensa così?». McThune aveva perduto già da vent'anni la pazienza con i procuratori federali e i loro portaborse. Li aveva visti andare e venire. Aveva imparato a stare al loro gioco e a manovrare il loro egocentrismo. Sapeva che il modo migliore per fronteggiare le loro banalità consisteva semplicemente nel rispondere. «Per via della lettera, delle impronte e delle bugie. Quel povero ragazzo non sa cosa fare.» Foltrigg posò il foglio sulla scrivania e si schiarì la gola. «Ha parlato con lui?» «No. Due ore fa sono stato all'ospedale ma non l'ho visto. Ha parlato con lui il sergente Hardy della polizia di Memphis.» «Ha intenzione di interrogarlo anche lei?» «Sì, fra qualche ora. Io e Trumann andremo all'ospedale verso le nove e parleremo con il ragazzo, forse anche con la madre. Mi piacerebbe anche parlare con il fratellino, ma dipenderà dal dottore.» «Vorrei essere presente» dichiarò Foltrigg. Tutti sapevano quale sarebbe stata la risposta. McThune scosse la testa. «Non è una buona idea. Ce ne occuperemo noi.» Lo disse in tono brusco, per non lasciare dubbi sul fatto che spettava a lui decidere. Erano a Memphis, non a New Orleans. «E il medico del bambino? Gli ha parlato?» «No, non ancora. Proveremo questa mattina. Non credo che ci dirà molto.» «Pensa che i ragazzi direbbero la verità al dottore?» chiese Fink con aria innocente. McThune lanciò un'occhiata a Trumann come per chiedere: "Che razza di imbecilli mi hai portato?". Poi disse: «Non posso rispondere. Non so che cosa sappiano i ragazzi. Non so come si chiami il dottore. Non so se ha parlato con i ragazzi. Non so se i ragazzi gli diranno qualcosa». Foltrigg aggrottò la fronte e guardò Fink che abbassò la testa imbarazzato. McThune diede un'occhiata all'orologio e si alzò. «Signori, è tardi. I nostri avranno finito di esaminare la macchina verso mezzogiorno. Propongo che ci vediamo allora.» «Dobbiamo scoprire tutto quello che sa Mark Sway» disse Roy senza muoversi. « E' stato su quella macchina, e Clifford ha parlato con lui.» «Lo so.» «Sì, signor McThune, ma ci sono diverse cose che lei ignora. Clifford sapeva dove si trova il cadavere, e ne aveva parlato.» «Ci sono molte cose che ignoro, signor Foltrigg, perché questo è un caso di competenza di New Orleans e io lavoro a Memphis, capisce? Non voglio sapere altro sul conto del povero senatore Boyette e del povero signor Clifford. Qui sono sommerso dai cadaveri fino al collo. E' quasi la una del mattino, e sono in ufficio a occuparmi di qualcosa che non mi riguarda, a parlare con tutti voi e a rispondere alle vostre domande. Lavorerò su questo caso fino a domani a mezzogiorno, poi passerà nelle mani del mio amico Larry Trumann. Io avrò finito.» «A meno che, naturalmente, non riceva una telefonata da Washington.» «Sì, a meno che, naturalmente, non riceva una telefonata da Washington, e allora farò tutto quello che mi dirà il signor Voyles.» «Io parlo con il signor Voyles ogni settimana.» «Congratulazioni.» «In questo momento il caso Boyette ha per l'Fbi la massima priorità, secondo lui.» «L'ho sentito dire.» «Sono sicuro che il signor Voyles apprezzerà i vostri sforzi.» «Io ne dubito.» Roy si alzò e fissò McThune. « E' indispensabile che noi sappiamo tutto quel che sa Mark Sway. Capisce?» McThune ricambiò l'occhiata e non disse nulla. Erano molto disponibili per il loro genere di lavoro investigativo, e in certi ambienti erano conosciuti come due carogne efficienti che accettavano il denaro, facevano il lavoro sporco e non lasciavano tracce. Ottenevano risultati straordinari. Tutti i clienti che si rivolgevano a loro lo facevano su segnalazione di qualcun altro. Jack Nance era nel suo ufficio, quella sera dopo l'imbrunire, quando qualcuno bussò alla porta. La segretaria era già andata via. Cal Sisson stava pedinando un trafficante di droga che aveva agganciato il figlio di un cliente. Nance era sulla quarantina, e, lungi dall'essere corpulento, aveva un fisico agile e sodo. Attraversò l'ufficio della segretaria e aprì la porta. Si trovò davanti una faccia sconosciuta. «Cerco Jack Nance» disse il visitatore. «Sono io.» L'uomo tese la mano. «Mi chiamo Paul Gronke. Posso entrare?» Nance aprì un poi di più la porta e indicò a Gronke di accomodarsi. Si fermarono davanti alla scrivania della segretaria. Gronke si guardò intorno nel piccolo ufficio disordinato. « E' tardi» disse Nance. «Cosa vuole?» «Ho bisogno che mi sbrighi un lavoro, in fretta.» «Chi la manda?» «Ho sentito parlare di lei. Le voci corrono.» «Mi dica un nome.» «Okay. J.L. Grainger. Mi pare che lo abbia aiutato in una questione d'affari. E mi ha anche parlato di un certo signor Schwartz che è stato molto soddisfatto del suo lavoro.» Nance rifletté per un secondo mentre studiava Gronke: un uomo massiccio con il torace voluminoso, prossimo alla quarantina, che si vestiva male ma non se ne accorgeva. L'accento rivelava che era di New Orleans. «Voglio un anticipo di duemila dollari, non restituibili e in contanti, prima di alzare un dito.» Gronke tirò fuori dalla tasca un rotolo di biglietti di banca e ne contò venti da cento dollari. Nance si rilassò. In dieci anni non aveva mai ricevuto un anticipo tanto in fretta. «Si sieda» disse. Prese i soldi e indicò un divano. «L'ascolto.» Gronke si tolse dalla tasca della giacca un ritaglio di giornale e glielo diede. «Ha visto questo articolo sul quotidiano di oggi?» Nance lo guardò. «Sì, l'ho letto. Lei cosa c'entra?» «Sono di New Orleans. Anzi, il signor Muldanno è un vecchio amico, ed è molto dispiaciuto di vedere il suo nome sul giornale di Memphis. Qui c'è scritto che ha legami con la mafia e via di seguito. Non c'è da credere una parola di quel che dicono i giornali. La stampa sarà la rovina del nostro paese.» «Clifford era il suo avvocato?» «Sì. Ma adesso ne ha un altro. Comunque non ha importanza. Lasci che le dica cosa lo preoccupa. Una fonte attendibile gli ha riferito che quei due ragazzi sanno qualcosa.» «Dove sono i ragazzi?» «Uno è all'ospedale, in coma o qualcosa del genere. Ha avuto uno shock quando Clifford si è sparato. Il fratello era addirittura in macchina con Clifford prima del suicidio, e abbiamo paura che sappia qualcosa. Si è già rivolto a un avvocato e rifiuta di parlare con l'Fbi.» «E io cosa dovrei fare?» «Abbiamo bisogno di qualcuno che sappia muoversi qui a Memphis. Dobbiamo vedere il ragazzo. Dobbiamo sapere sempre dove si trova.» «Come si chiama?» «Mark Sway. Pensiamo che sia all'ospedale con la madre. La notte scorsa sono rimasti nella camera del fratello minore che si chiama Ricky Sway. Al nono piano del St. Peteris, stanza 943. Vogliamo che lei trovi il ragazzo, accerti dov'è, e lo tenga d'occhio.» « E' piuttosto semplice.» «Forse no. E' sorvegliato dalla polizia e probabilmente anche da agenti dell'Fbi. Ha attirato una folla di gente.» «Voglio cento dollari l'ora, in contanti.» «Lo so.» Si faceva chiamare Amber, che con Alexis era il nome d'arte più diffuso fra le spogliarelliste e le puttane del Quartiere Francese. Rispose al telefono e lo portò nel piccolissimo bagno dove Barry Muldanno si stava lavando i denti. « E' Gronke» disse, e gli passò l'apparecchio. Muldanno lo prese, chiuse il rubinetto e ammirò il corpo nudo di Amber che tornava a infilarsi sotto le lenzuola. Si fermò sulla soglia. «Sì» disse al telefono. «Chi era il signor Love?» chiese Mark che continuava a masticare con il burro sulle labbra e sulle dita. «Un giovanotto di Memphis. Si sposarono quando lei aveva sedici anni...» «Diciassette» precisò Mamma Love senza voltarsi. Adesso stava apparecchiando la tavola con piatti e posate. Reggie e i suoi gioielli erano d'impaccio, perciò li raccolse e mise Axle sul pavimento. «Quando si mangia?» chiese. «Fra un minuto.» «Corro a cambiarmi» disse Reggie. Axle sedette su un piede di Mark e cominciò a strusciargli la testa contro la gamba. «Mi dispiace molto per il tuo fratellino» disse Mamma Love mentre lanciava un'occhiata alla porta per assicurarsi che Reggie si fosse allontanata. Mark trangugiò un boccone di pane e si asciugò la bocca con il tovagliolo. «Guarirà. Abbiamo bravi dottori.» «E avete il miglior avvocato del mondo» aggiunse la vecchia signora in tono severo, senza più sorridere. Attese la conferma. «Sicuro» disse Mark. Lei annuì in segno di approvazione e andò al lavello. «Cosa avete visto, voi due ragazzi?» Mark bevve un sorso di tè e fissò la coda di cavallo grigia. Poteva diventare una serata lunga, con molte domande. Era meglio farla finita subito. «Reggie mi ha raccomandato di non parlarne» disse addentando un altro pezzo di pane. «Oh, Reggie dice sempre così. Ma con me puoi parlare. Lo fanno tutti i suoi ragazzi.» Durante le ultime quarantanove ore Mark aveva imparato molte cose sugli interrogatori. Non dare tregua all'altro. Quando le domande non ti piacciono, fanne qualcuna tu. «Porta spesso un bambino a casa?» Mamma Love tolse la pentola dal bruciatore e rifletté per un momento. «Più o meno due volte al mese. Vuole che mangino bene, e allora li porta da Mamma Love. Spesso passano la notte qui. Una bambina è rimasta per un mese. Si chiamava Andrea. Il tribunale l'aveva tolta ai genitori perché erano adoratori di Satana, sacrificavano animali e via di seguito. Era così triste. Stava qui sopra nella vecchia camera da letto di Reggie; quando ha dovuto andarsene, ha pianto. Anche a me si è spezzato il cuore. Ho detto a Reggie: "Non portare più bambini in casa". Ma Reggie fa quello che vuole. Ti ha preso in simpatia, sai?» «Cos'è successo ad Andrea?» «L'hanno affidata di nuovo ai genitori. Prego tutti i giorni per lei. Tu vai in chiesa?» «Qualche volta.» «Sei un buon cattolico?» «No. E' un po'... ecco, non so bene che specie di chiesa sia, ma non cattolica. Battista, mi pare. Ci vado ogni tanto.» Mamma Love ascoltava preoccupata, sconcertata dal fatto che Mark non sapesse quale chiesa frequentava. «Forse dovrei portarti nella mia chiesa. St. Luke's. E' molto bella. I cattolici sanno costruire chiese bellissime, sai.» Mark annuì, ma non trovò niente da dire. Mamma Love aveva già dimenticato le chiese; aveva aperto lo sportello del forno e stava studiando il contenuto con una concentrazione degna del dottor Greenway. Mormorò qualcosa fra sé, evidentemente soddisfatta. «Vai a lavarti le mani. Là in fondo al corridoio. I ragazzi di oggi non se le lavano abbastanza. Su, vai.» Mark si cacciò in bocca l'ultimo pezzo di pane e seguì Axle nel bagno. Quando tornò, Reggie era seduta a tavola ed esaminava un mucchio di posta. Il cestello del pane era di nuovo pieno. Mamma Love aprì il forno e tirò fuori una teglia coperta da un foglio d'alluminio. «Sono lasagne» disse Reggie a Mark, con una vaga sfumatura di anticipazione. Mamma Love raccontò la storia delle lasagne mentre faceva le porzioni con un grosso cucchiaio. Il vapore saliva dalla teglia. «Questa ricetta è della mia famiglia da secoli» spiegò guardando Mark come se lui tenesse a conoscere la genealogia delle lasagne. In realtà, lui desiderava solo averle nel piatto. « E' una specialità del mio paese d'origine. Sapevo già prepararle per il mio papà quando avevo appena dieci anni.» Reggie alzò gli occhi al cielo e ammiccò a Mark. «Sono quattro strati, ognuno con un formaggio diverso.» Mamma Love mise nei piatti le fette perfettamente quadrate. I quattro formaggi si fondevano e colavano dalla pasta. Harry lo sbirciò da sopra gli occhiali. «Mi ascolti bene, signor Fink. Non siamo in un lussuoso tribunale di New Orleans, e non sono un giudice federale. Questa è la mia piccola aula personale, e sono io a stabilire le regole. La regola numero uno è che nella mia aula lei può parlare soltanto se le rivolgo la parola. La regola numero due è che non deve tenere a Suo Onore discorsi, commenti od osservazioni non sollecitati. La regola numero tre è che Suo Onore non ama sentire le voci degli avvocati. Suo Onore è costretto a sentire quelle voci da vent'anni e sa che gli avvocati adorano ascoltarsi. La regola numero quattro è che nella mia aula non ci si alza in piedi. Stia seduto al tavolo e parli il meno possibile. Ha capito queste regole, signor Fink?» Fink lo fissò sbalordito e cercò di annuire. Harry non aveva ancora finito. «Questa è un'aula molto piccola, signor Fink, che io stesso ho scelto parecchio tempo fa per le udienze private. Possiamo vederci e sentirci tutti benissimo, quindi tenga la bocca chiusa e il sedere sulla sedia, e andremo d'amore e d'accordo.» Fink stava ancora cercando di annuire. Strinse i braccioli della sedia, ben deciso a non alzarsi più. Dietro di lui McThune, che detestava gli avvocati, represse a stento un sorriso. «Signor McLemore, mi risulta che il signor Fink vuole occuparsi del caso per l'accusa. A lei sta bene?» «Sì, Vostro Onore.» «Allora lo permetterò. Ma lo faccia restare seduto.» Mark era terrorizzato. Aveva sperato di trovare un vecchio mite che irradiasse affetto e comprensione. E invece... Lanciò un'occhiata al signor Fink che aveva il collo paonazzo e ansimava, e provò quasi un senso di pena per lui. «Signora Love» disse il giudice, diventando di colpo tutto gentilezza e comprensione, «so che forse deve sollevare un'obiezione nell'interesse del bambino.» «Sì, Vostro Onore.» Reggie si girò lentamente verso la stenografa. «Ho diverse obiezioni da presentare e vorrei che fossero messe a verbale.» «Certamente» acconsentì Harry, come se Reggie Love potesse avere tutto ciò che desiderava. Fink sprofondò ancora di più sulla sedia e si sentì ancora più stordito. E lui che aveva pensato di far colpo sul giudice con un'esplosione iniziale di eloquenza! Reggie consultò gli appunti. «Vostro Onore, chiedo che la trascrizione del verbale venga dattiloscritta e preparata al più presto possibile per facilitare un appello d'urgenza, se sarà necessario.» «Ordino che sia fatto.» «Ho diverse obiezioni da sollevare per questa udienza. Primo, non è stato dato un preavviso adeguato al bambino, alla madre e al suo avvocato. Sono passate circa tre ore da quando l'istanza è stata notificata alla madre e sebbene io rappresenti il bambino ormai da tre giorni e tutti gli interessati lo sappiano, non sono stata informata dell'udienza se non settantacinque minuti fa. E' ingiusto, assurdo, ed è un abuso della discrezionalità da parte della corte.» «Quando vorrebbe che si svolgesse l'udienza, signora Love?» chiese Harry. «Oggi è giovedì» disse Reggie. «Andrebbe bene martedì o mercoledì della prossima settimana?» «Benissimo. Facciamo martedì alle nove.» Harry guardò Fink che non si era ancora mosso e aveva paura di rispondere. «Naturalmente, signora Love, il bambino dovrà rimanere in custodia cautelare fino ad allora.» «Non è giusto che rimanga in custodia, Vostro Onore.» «Ma io ho firmato l'ordine, e non lo revocherò in attesa dell'udienza. Le nostre leggi, signora Love, stabiliscono il fermo immediato dei presunti delinquenti minorenni, e il suo cliente non viene trattato in modo diverso dagli altri. Vi sono poi altre considerazioni relative a Mark Sway, e sono sicuro che verranno discusse fra poco.» «Allora non posso accettare un rinvio se il mio cliente deve rimanere in custodia» «Sta bene» disse compito Suo Onore. «Sia messo a verbale che la corte ha proposto un rinvio e che il bambino ha rifiutato.» «E sia messo a verbale anche che il bambino ha rifiutato il rinvio perché non vuole restare nel Centro Detenzione per minorenni più dello stretto indispensabile.» «Ne prendo nota» disse Harry con un accenno di sorriso. «Proceda pure, signora Love.» «Sta insinuando che questa corte si tira indietro, signor Foltrigg?» «No, Vostro Onore, ma lo sta facendo l'imputato. Per prendere tempo ha presentato tutte le più inconsistenti richieste note alla giurisprudenza americana. Ha tentato tutte le tattiche, tutti i...» «Signor Foltrigg, il signor Clifford è morto. Non può presentare altre richieste. E adesso l'imputato ha un nuovo avvocato che, come la vedo io, ha presentato un'unica richiesta.» Foltrigg consultò gli appunti e cominciò a fremere. Non aveva immaginato di spuntarla, ma non aveva certo previsto un calcio nei denti. «Ha qualcosa di pertinente da dire?» chiese Suo Onore come se Foltrigg non avesse ancora detto niente d'importante. Foltrigg strinse gli appunti e tornò precipitosamente al suo posto. Era stata un'esibizione piuttosto penosa. Avrebbe dovuto mandare un subalterno. «C'è altro, signor Upchurch?» chiese Lamond. «Nossignore.» «Bene. Ringrazio tutti per l'interesse dimostrato. Mi dispiace che sia stata un'udienza così breve. Forse faremo di più la prossima volta. Emetterò un'ordinanza per fissare la nuova data d'inizio del processo.» Lamond si alzò pochi minuti dopo essere entrato, e se ne andò. I giornalisti uscirono e naturalmente furono seguiti da Foltrigg e Upchurch che si avviarono alle due estremità opposte del corridoio e tennero conferenze stampa improvvisate. Anche se Slick Moeller aveva pubblicato articoli su rivolte carcerarie con stupri e aggressioni, non era mai stato fisicamente all'interno di una cella. L'idea lo preoccupava, tuttavia conservò la calma e continuò a proiettare l'immagine del giornalista sicuro di sé e pieno di fiducia nel Primo Emendamento. Aveva un avvocato a destra e uno a sinistra, due campioni pagatissimi di uno studio legale con cento elementi che da decenni rappresentava la "Memphis Press", e nelle ultime due ore gli avevano assicurato una dozzina di volte che la Costituzione degli Stati Uniti d'America era dalla sua parte e che l'avrebbe protetto come uno scudo. Slick indossava jeans, una sahariana e scarponcini da montagna, e aveva tutta l'aria del giornalista abituato a sfidare gli elementi. Harry non si lasciò impressionare minimamente dall'immagine proiettata da quel furetto. Non si lasciò impressionare neppure dagli avvocati repubblicani con il sangue blu e i calzini di seta che prima di quel giorno non avevano mai varcato la soglia della sua aula. Harry era esasperato. Sedette al banco, lesse per la decima volta l'articolo di Slick apparso quella mattina e riconsiderò i casi relativi al Primo Emendamento che si riferivano ai giornalisti e alle loro fonti anonime. E prese tempo per far sudare Slick. Le porte furono chiuse. L'usciere, che era ancora Grinder, l'amico di Slick, stava nervosamente accanto al banco. Per ordine del giudice, due agenti in uniforme si erano seduti dietro a Moeller e ai suoi avvocati, e sembravano pronti a entrare in azione. Il particolare infastidiva Slick e i suoi avvocati, ma cercavano di non farlo capire. La stessa stenografa, con la gonna ancora più corta, si stava limando le unghie e aspettava di cominciare. La stessa donna anziana dall'aria stizzosa era seduta al suo tavolo e sfogliava il "National Enquirer". Tutti continuavano ad aspettare. Erano quasi le dodici e mezzo. Come al solito, il calendario delle udienze era strapieno e si era già in arretrato sugli orari. Marcia aveva portato un club sandwich che Harry avrebbe mangiato fra un'udienza e l'altra. Quella successiva era per il caso Sway. Harry si puntellò sui gomiti, si sporse e fissò cupo Slick, che con i suoi cinquantotto chili pesava probabilmente tre volte meno di lui. «A verbale» ordinò alla stenografa, che cominciò a battere sui tasti. Per quanto fosse calmo, Slick sussultò a quelle prime parole e si assestò sulla sedia. «Signor Moeller, l'ho convocata perché ha violato una sezione del Codice del Tennessee relativa al segreto dei procedimenti. E' una questione gravissima perché sono in gioco la sicurezza e l'interesse di un bambino. Purtroppo la legge non stabilisce pene, ma prevede soltanto l'oltraggio alla corte.» Si tolse gli occhiali e cominciò a pulirli con un fazzoletto. «Ora, signor Moeller» riprese con il tono del nonno esasperato, «per quanto sia seccato con lei per il suo articolo, sono assai più preoccupato per il fatto che qualcuno le ha passato queste informazioni. Qualcuno presente in quest'aula durante l'udienza di ieri. La sua fonte mi preoccupa molto.» «E nelle altre case c'è gente che ci abita, giusto? Persone con occhi e orecchie?» «Non le ho mai conosciute, ma immagino di sì.» «Non fare lo spiritoso con me.» Barry scivolò sulla sedia di un paio di centimetri. «Scusami» disse. Johnny si alzò e si accostò alle finestre azzurrate, che si affacciavano sul fiume. Scosse la testa in un gesto d'incredulità e lanciò uno sbuffo di fumo dal sigaro. Poi si voltò e tornò alla scrivania. Posò il sigaro sul portacenere e si sporse in avanti appoggiandosi sui gomiti. «Di chi è la casa?» chiese, impassibile, ma pronto a esplodere. Barry deglutì con un sforzo e riaccavallò le gambe. «Di Jerome Clifford.» L'esplosione non vi fu. Tutti sapevano che Johnny era un tipo a sangue freddo e si vantava di non perdere mai la calma. Era una rarità nel suo mestiere, ma gli aveva fatto guadagnare montagne di soldi. E lo aiutava a restare vivo. Si coprì la bocca con la mano sinistra come se non riuscisse a credere a ciò che aveva sentito. «La casa di Jerome Clifford» ripeté. Barry annuì. Quando era successo, Clifford era a sciare in Colorado, e Barry lo sapeva perché era stato proprio Clifford a rivolgergli l'invito. Viveva solo in una casa grande fra dozzine di alberi ombrosi. Il garage era una costruzione separata e si trovava nel giardino. Aveva pensato che fosse il posto ideale, perché nessuno avrebbe avuto dei sospetti. E aveva ragione. Era il posto ideale. I federali non ci si erano neppure avvicinati. Non era stato un errore. Aveva avuto intenzione di spostare più tardi il cadavere. L'errore era stato dirlo a Clifford. «E vuoi che mandi tre uomini a disseppellirlo senza far rumore, e a sbarazzarsene nel modo dovuto?» «Sissignore. Potrebbe salvarmi il collo.» «Perché?» «Perché ho paura che il ragazzo sappia dov'è, ed è scomparso. Chissà cosa sta facendo. E' troppo pericoloso. Dobbiamo portare via il cadavere, Johnny. Ti supplico.» «Non sopporto le suppliche, Barry. E se ci prendessero sul fatto? Se un vicino sentisse un rumore e chiamasse gli sbirri, e quelli arrivassero tanto per controllare e trovassero tre uomini che dissotterrano un cadavere?» «Non si faranno sorprendere.» «Come puoi saperlo? Tu come hai fatto? Come sei riuscito a seppellirlo nel cemento senza farti beccare?» «L'avevo fatto altre volte, okay.» «Voglio saperlo!» Barry si raddrizzò leggermente e accavallò di nuovo le gambe. «Il giorno dopo averlo fatto fuori, ho scaricato nel garage sei sacchi di cemento a presa rapida. Sono arrivato su un camion con le targhe false, vestito da manovale, capisci? Nessuno ha badato a me. La casa più vicina è a una trentina di metri e ci sono alberi dappertutto. Sono tornato a mezzanotte con lo stesso camion e ho scaricato il morto nel garage. Poi me ne sono andato. Dietro il garage c'è un fosso, e al di là del fosso c'è un parco. Sono passato fra gli alberi, ho attraversato il fosso e sono entrato di nascosto nel garage. C'è voluta una mezz'ora per scavare una fossa poco profonda, metterci il cadavere e preparare il cemento. Il pavimento del garage è di ghiaia, sai, pietra bianca. La notte successiva sono tornato, dopo che il cemento si era asciugato, e l'ho coperto con la ghiaia. C'era la vecchia barca di Clifford, e l'ho rimessa al suo posto, sopra la fossa. Quando me ne sono andato era tutto a posto. Clifford non si è mai accorto di niente.» «Fino a che non glielo hai detto tu.» «Già, fino a che non gliel'ho detto io. E' stato uno sbaglio, lo riconosco.» «Dev'essere stata una faticata.» «L'avevo fatto altre volte, okay. E' facile. Avevo intenzione di spostarlo in seguito, ma si sono messi di mezzo i federali e mi sono stati alle costole per otto mesi.» Johnny si era innervosito. Riaccese il sigaro e tornò alla finestra. «Sai, Barry» disse guardando l'acqua, «hai un certo talento, ma quando si tratta di far sparire le prove sei un idiota. Ci siamo sempre serviti del Golfo. Che fine hanno fatto i pesi e le catene e le botti?» «Ti prometto che non succederà più. Basta che adesso tu mi aiuti, e non farò più lo stesso sbaglio.» «Non ne avrai più l'occasione, Barry. Se riuscirai a sopravvivere a questa storia, per un po' ti lascerò guidare un camion e magari fare il ricettatore per un anno o più. Non so. Forse potrai andare a Las Vegas, a passare un poi di tempo con Rock.» Gironzolarono senza fretta per le vie alberate. Era una giornata calda e serena. Davanti a tutte le case la gente falciava i prati, strappava le erbacce o dipingeva le persiane. Il lichene spagnolo pendeva dalle querce maestose. Era la prima volta che Reggie visitava New Orleans, e avrebbe voluto che le circostanze fossero diverse. «Si è stancata di me?» chiese Mark senza guardarla. «No, naturalmente. Tu sei stanco di me?» «No, Reggie. In questo momento è l'unica amica che ho al mondo. Spero solo di non darle sui nervi.» «No, te lo assicuro.» Reggie aveva studiato la carta stradale per ben due ore. Completò un ampio giro e tornò nella via di Romey. Passarono davanti alla casa senza rallentare e tutti e due guardarono con attenzione il garage con il tetto spiovente sopra le porte rientranti. Aveva bisogno di una riverniciatura. Il vialetto di cemento si fermava a sei metri dalle porte e svoltava verso la parte posteriore della casa. Una siepe irregolare alta quasi due metri fiancheggiava un lato del garage e nascondeva la casa più vicina che era almeno a una trentina di metri. Dietro il garage, il piccolo prato era chiuso da una rete metallica, e al di là della rete c'era una zona boscosa. Durante la seconda ricognizione non si scambiarono parola. L'Accord nera vagò senza meta nel vicinato e si fermò accanto a un campo da tennis in un'area aperta che si chiamava West Park. Reggie aprì la cartina stradale e la girò e la rigirò fin quasi a ricoprire tutto il sedile anteriore. Mark guardò due casalinghe grasse che giocavano a tennis in modo orribile. Però erano simpatiche, con i calzettoni rosa e verdi e le visiere in tinta. Un ciclista arrivò da un sentiero asfaltato e sparì fra gli alberi. Reggie ritentò di chiudere la carta. «Il posto è questo» disse. «Vuole tirarsi indietro?» chiese Mark. «In un certo senso. E tu?» «Non lo so. Siamo arrivati fin qui. Mi pare assurdo scappare proprio adesso. Il garage non mi sembrava pericoloso.» Reggie continuò a ripiegare la carta. «Credo che possiamo provare. E se ci spaventiamo, torneremo qui di corsa.» «Dove siamo adesso?» Reggie aprì la portiera. «Andiamo a fare due passi.» La pista ciclabile passava accanto a un campo di calcio, poi tagliava un tratto di bosco. I rami degli alberi si congiungevano in alto, e c'era buio come in una galleria. La luce del sole filtrava a intervalli. Ogni tanto passava un ciclista ed erano costretti ad abbandonare il nastro d'asfalto per qualche secondo. La passeggiata era piacevole. Dopo tre giorni trascorsi in ospedale, due giorni in prigione, sette ore in macchina e sei al motel, Mark fece fatica a trattenersi mentre vagavano nel bosco. Sentiva la mancanza della sua bici; sarebbe stato bello se lui e Ricky fossero stati lì a pedalare fra gli alberi senza una preoccupazione al mondo. Sentiva la mancanza delle strade affollate del camping, con i ragazzini che correvano di qua e di là e si mettevano a giocare all'improvviso. Sentiva la mancanza dei piccoli sentieri del suo bosco intorno ai Tucker Wheel Estates e delle lunghe passeggiate solitarie che gli era sempre piaciuto fare. E per quanto potesse sembrare strano, sentiva la mancanza dei nascondigli sotto i suoi alberi e in riva ai ruscelli che gli appartenevano, dove poteva mettersi seduto a pensare e, sì, fumare una sigaretta o due. Non toccava una sigaretta da lunedì