/<1980>/ Il principe ranocchio o Enrico di ferro. Nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa, c'era un re, le cui figlie eran tutte belle, ma la più giovane era così bella che perfino il sole, che pure ha visto tante cose, sempre si meravigliava, quando le brillava il volto. Vicino al castello del re c'era un gran bosco tenebroso e nel bosco, sotto un vecchio tiglio, c'era una fontana: nelle ore più calde del giorno, la principessina andava nel bosco e sedeva sul ciglio della fresca sorgente; e quando si annoiava, prendeva una palla d'oro, la buttava in alto e la ripigliava; e questo era il suo gioco preferito. Ora avvenne un giorno che la palla d'oro della principessa non ricadde nella manina ch'essa teneva in alto, ma cadde a terra e rotolò proprio nell'acqua. La principessa la seguì con lo sguardo, ma la palla sparì, e la sorgente era profonda, profonda a perdita d'occhio. Allora la principessa cominciò a piangere, e pianse sempre più forte, e non si poteva proprio consolare. E mentre così piangeva, qualcuno le gridò: Che hai, principessa? Tu piangi da far pietà ai sassi. Ella si guardò intorno, per vedere donde venisse la voce, e vide un ranocchio, che sporgeva dall'acqua la grossa testa deforme. Ah, sei tu, vecchio sciaguattone! Disse, piango per la mia palla d'oro, che m'è caduta nella fonte. Chétati e non piangere, rispose il ranocchio, ci penso io; ma cosa mi darai, se ti ripesco il tuo balocco? Quello che vuoi, caro ranocchio, diss'ella, i miei vestiti, le mie perle e i miei gioielli, magari la mia corona d'oro. Il ranocchio rispose: Le tue vesti, le perle e i gioielli e la tua corona d'oro io non li voglio: ma se mi vorrai bene, se potrò essere il tuo amico e compagno di giochi, seder con te alla tua tavolina, mangiar dal tuo piattino d'oro, bere dal tuo bicchierino, dormire nel tuo lettino: se mi prometti questo, mi tufferò e ti riporterò la palla d'oro. Ah sì, diss'ella, ti prometto tutto quel che vuoi, purché mi riporti la palla. Ma pensava: Cosa va blaterando questo stupido ranocchio, che sta nell'acqua a gracidare coi suoi simili, e non può essere il compagno di una creatura umana! Ottenuta la promessa, il ranocchio mise la testa sott'acqua, si tuffò e poco dopo tornò remigando alla superficie; aveva in bocca la palla e la buttò sull'erba. La principessa, piena di gioia al vedere il suo bel giocattolo, lo prese e corse via. Aspetta, aspetta! gridò il ranocchio: prendimi con te, io non posso correre come fai tu. Ma a che gli giovò gracidare con quanto fiato aveva in gola! La principessa non l'ascoltò, corse a casa e ben presto aveva dimenticato la povera bestia, che dovette rituffarsi nella sua fonte. Il giorno dopo, quando si fu seduta a tavola col re e tutta la corte, mentre mangiava dal suo piattino d'oro, plitsch platsch, plitsch platsch qualcosa salì balzelloni la scala di marmo, e quando fu in cima bussò alla porta e gridò: Figlia di re, piccina, aprimi! Ella corse a vedere chi c'era fuori, ma quando aprì si vide davanti il ranocchio. Allora sbatacchiò precipitosamente la porta, e sedette di nuovo a tavola, piena di paura. Il re si accorse che le batteva forte il cuore, e disse: Di che cosa hai paura, bimba mia? Davanti alla porta c'è forse un gigante che vuol rapirti? Ah no, rispose ella, non è un gigante, ma un brutto ranocchio. Che cosa vuole da te? Ah, babbo mio, ieri, mentre giocavo nel bosco vicino alla fonte, la mia palla d'oro cadde nell'acqua. E perché piangevo tanto, il ranocchio me l'ha ripescata; e perché ad ogni costo lo volle, gli promisi che sarebbe diventato il mio compagno; ma non avrei mai pensato che potesse uscire da quell'acqua. Adesso è fuori e vuol venire da me. Intanto si udì bussare per la seconda volta e gridare: Figlia di re, piccina, aprimi! Non sai più quel che ieri m'hai detto vicino alla fresca fonte? Figlia di re, piccina, aprimi! Allora il re disse: Quel che hai promesso, devi mantenerlo; va' dunque, e apri. Ella andò e aprì la porta; il ranocchio entrò e, sempre dietro a lei, saltellò fino alla sua sedia. Lì si fermò e gridò: Sollevami fino a te. La principessa esitò, ma il re le ordinò di farlo. Appena fu sulla sedia, il ranocchio volle salire sul tavolo e quando fu sul tavolo disse: Adesso avvicinami il tuo piattino d'oro, perché mangiamo insieme. La principessa obbedì, ma si vedeva benissimo che lo faceva controvoglia. Il ranocchio mangiò con appetito, ma a lei quasi ogni boccone rimaneva in gola. Infine egli disse: Ho mangiato a sazietà e sono stanco; adesso portami nella tua cameretta e metti in ordine il tuo lettino di seta: andremo a dormire. La principessa si mise a piangere: aveva paura del freddo ranocchio, che non osava toccare e che ora doveva dormire nel suo bel lettino pulito. Ma il re andò in collera e disse: Non devi disprezzare chi ti ha aiutato nel momento del bisogno. Allora ella prese la bestia con due dita, la portò di sopra e la mise in un angolo. Ma quando fu a letto, il ranocchio venne saltelloni e disse: Sono stanco, voglio dormir bene come te: tirami su, o lo dico a tuo padre. Allora la principessa andò in collera, lo prese e lo gettò con tutte le sue forze contro la parete: Adesso starai zitto, brutto ranocchio! Ma quando cadde a terra, non era più un ranocchio: era un principe dai begli occhi ridenti. Per volere del padre, egli era il suo caro compagno e sposo. Le raccontò che era stato stregato da una cattiva maga e nessuno, all'infuori di lei, avrebbe potuto liberarlo. Il giorno dopo sarebbero andati insieme nel suo regno. Poi si addormentarono. La mattina dopo, quando il sole li svegliò, arrivò una carrozza con otto cavalli bianchi, che avevan pennacchi bianchi sul capo e i finimenti d'oro; e dietro c'era il servo del giovane re, il fedele Enrico. Il fedele Enrico si era così afflitto, quando il suo padrone era stato trasformato in ranocchio, che si era fatto mettere tre cerchi di ferro intorno al cuore, perché non gli scoppiasse dall'angoscia. Ma ora la carrozza doveva portare il giovane re nel suo regno; il fedele Enrico vi fece entrare i due giovani, salì dietro ed era pieno di gioia per la liberazione. Quando ebbero fatto un tratto di strada, il principe udì una schianto, come se dietro a lui qualcosa si fosse rotto. Allora si volse e gridò: Rico, qui va in pezzi il cocchio! No, padrone, non è il cocchio, bensì un cerchio del mio cuore, ch'era immerso in gran dolore, quando dentro alla fontana tramutato foste in rana. Per due volte ancora si udì uno schianto durante il viaggio; e ogni volta il principe pensò che il cocchio andasse in pezzi; e invece erano soltanto i cerchi, che saltavano via dal cuore del fedele Enrico, perché il suo padrone era libero e felice. Gatto e topo in società. Un gatto aveva fatto conoscenza con un topo e gli aveva tanto vantato il grande amore e l'amicizia che gli portava, che alla fine il topo acconsentì ad abitare con lui; avrebbero governato insieme la casa. Ma per l'inverno dobbiamo provvedere, altrimenti patiremo la fame, disse il gatto, e tu, topolino, non puoi arrischiarti dappertutto, se no finirai col cadermi in trappola. Il buon consiglio fu seguito e comprarono un pentolino di strutto. Ma non sapevano dove metterlo; finalmente, pensa e ripensa, disse il gatto: Non so dove potrebbe essere più al sicuro che in chiesa; là nessuno osa commettere un furto: lo mettiamo sotto l'altare e non lo tocchiamo prima di averne bisogno. Il pentolino fu messo al sicuro; ma il gatto non tardò ad aver voglia di strutto, e disse al topo: Volevo dirti, topolino, che mia cugina mi ha pregato di farle da compare: ha partorito un piccolo, bianco con macchie brune, e devo tenerlo a battesimo. Lasciami uscire oggi, e sbriga da solo le faccende di casa. Sì, sì, rispose il topo, va', in nome di Dio; se mangi qualcosa di buono, pensa a me: un gocciolo di quel dolce vino rosso puerperale lo berrei volentieri anch'io. Ma non c'era niente di vero; il gatto non aveva cugine, né l'avevan richiesto come padrino. Andò dritto in chiesa, si avvicinò quatto quatto al pentolino di strutto, si mise a leccar e leccò via la grassa pellicola. Poi se ne andò a spasso per i tetti della città, si guardò attorno e poi si stese al sole, e si leccava i baffi ogniqualvolta pensava al pentolino. Non ritonò che alla sera. Eccoti qua, disse il topo, hai certo passato una giornata allegra. E' andata bene, rispose il gatto. Che nome hanno messo al piccolo? domandò il topo. Pellepappata, rispose il gatto secco secco. Pellepappata! esclamò il topo: che nome strampalato! Si usa nella vostra famiglia? Che c'è di strano? disse il gatto: non è peggio di Rubabriciole, come si chiamano i tuoi figliocci. Poco tempo dopo al gatto tornò la voglia. Disse al topo: Devi farmi ancora il piacere di badare alla casa da solo; mi vogliono di nuovo come padrino, e siccome il piccolo ha un cerchio bianco intorno al collo, non posso rifiutare. Il buon topo acconsentì; ma il gatto girò furtivamente fuori mura fino alla chiesa e si divorò mezzo pentolino. Nulla è più gustoso, disse fra sé, di quel che si mangia da soli ed era tutto contento della sua giornata. Quando arrivò a casa, il topo domandò: E questo piccolo come si chiama? Mezzopappato, rispose il gatto. Mezzopappato! Che dici! Non ho mai sentito questo nome in vita mia; scommetto che non è neanche sul calendario. Ben presto al gatto tornò l'acquolina in bocca: Non c'è due senza tre.