<1994>/ Nessuno, del resto, è sorpreso dal fatto che la conoscenza umana è, in prima istanza, una conoscenza sensoria. Nessun classico della filosofia, né Platone né Aristotele, lo metteva in dubbio. Il realismo conoscitivo - tanto il cosiddetto realismo ingenuo quanto il realismo critico - sono d'accordo che «nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu» (nulla vi è nell'intelletto che prima non sia stato nel senso). Tuttavia, i limiti di tale «sensus» non sono esclusivamente sensori. Sappiamo, infatti, che l'uomo conosce non soltanto le tinte, i toni o le forme, ma conosce gli oggetti globalmente: per esempio, non soltanto un insieme di qualità riguardanti l'oggetto «uomo», ma anche l'uomo in se stesso (sì, l'uomo come persona). Conosce, dunque, verità extrasensorie o, in altre parole, transempiriche. Non si può neppure affermare che quanto è transempirico cessi di essere empirico. In questo modo si può parlare con tutta fondatezza di esperienza umana, di esperienza morale, oppure di esperienza religiosa. E se è possibile parlare di tali esperienze, è difficile negare che, nell'orbita delle esperienze umane, si trovino anche il bene e il male, si trovino la verità e la bellezza, si trovi anche Dio. In Se stesso, Dio certamente non è oggetto dell'empirea, dell'esperienza sensibile umana; è ciò che, a modo suo, sottolinea la stessa Sacra Scrittura: «Dio nessuno l'ha mai visto né lo può vedere» (cfr. Gv 1,18). Se Dio è oggetto di conoscenza, lo è - come insegnano concordemente il Libro della Sapienza e la Lettera ai Romani - sulla base dell'esperienza che l'uomo fa sia del mondo visibile sia dello stesso suo mondo interiore. E' qui che Immanuel Kant, abbandonando la vecchia strada di quei Libri biblici e di san Tommaso d'Aquino, s'inoltra per quella dell'esperienza etica. L'uomo si riconosce come un essere etico, capace di agire secondo i criteri del bene e del male, e non soltanto del profitto e del piacere. Si riconosce anche come un essere religioso, capace di mettersi in contatto con Dio. La preghiera di cui si è parlato in precedenza è, in un certo senso, la prima verifica di tale realtà. Il pensiero contemporaneo, nel prendere le distanze dalle convinzioni positivistiche, ha fatto notevoli passi nella scoperta sempre più completa dell'uomo riconoscendo, tra l'altro, il valore del linguaggio metaforico e simbolico. L'ermeneutica contemporanea - quale si riscontra, per esempio, nelle opere di Paul Ricoeur o, in altro modo, in quelle di Emmanuel Lévinas - ci mostra sotto angolature nuove la verità sul mondo e sull'uomo. Tanto il positivismo ci allontana da questa più completa comprensione e, in un certo senso, ce ne esclude, tanto l'ermeneutica, che scava nel significato del linguaggio simbolico, ci permette di ritrovarla e persino, in un qualche modo, di approfondirla. Ciò è detto, ovviamente, senza voler affatto negare la capacità della ragione di formare enunciati concettuali veri su Dio e sulle verità della fede. Perciò, per il pensiero contemporaneo è così importante la filosofia della religione: per esempio, quella di Mircea Eliade, e da noi, in Polonia, quella dell'arcivescovo Marian Jaworski e della scuola di Lublino. Siamo testimoni di un sintomatico ritorno alla metafisica (filosofia dell'essere) attraverso l'antropologia integrale. Non si può pensare adeguatamente l'uomo senza il riferimento, per lui costitutivo, a Dio. E' ciò che san Tommaso definiva actus essendi con il linguaggio della filosofia dell'esistenza. La filosofia della religione lo esprime con le categorie dell'esperienza antropologica. A questa esperienza hanno contribuito moltissimo i filosofi del dialogo, come Martin Buber o il già citato Lévinas. E ci troviamo ormai molto vicini a san Tommaso, ma la strada passa non tanto attraverso l'essere e l'esistenza, quanto attraverso le persone e il loro incontro: attraverso l'«io» e il «tu». Questa è una fondamentale dimensione dell'esistenza dell'uomo, che è sempre una coesistenza. Da dove hanno imparato ciò i filosofi del dialogo? Lo hanno appreso prima di tutto dall'esperienza della Bibbia. L'intera vita umana è un «coesistere». E non la si ripete anche nei parlamenti democratici, quando, per esempio, mediante una legge regolarmente emanata, si condanna a morte l'uomo non ancora nato? Dio è sempre dalla parte dei sofferenti. La Sua onnipotenza si manifesta proprio nel fatto che ha accettato liberamente la sofferenza. Avrebbe potuto non farlo. Avrebbe potuto dimostrare la Propria onnipotenza persino al momento della Crocifissione. Gli veniva infatti proposto «Scendi dalla croce e ti crederemo» (cfr. Ma 15,32). Ma non ha raccolto quella sfida. Il fatto che sia restato sulla croce fino alla fine, il fatto che sulla croce abbia potuto dire, come tutti i sofferenti: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34), questo fatto è rimasto nella storia dell'uomo come l'argomento più forte. Se fosse mancata quell'agonia sulla croce, la verità che Dio è Amore sarebbe sospesa nel vuoto. Sì, Dio è Amore! E proprio per questo ha dato Suo Figlio, per rivelarlo sino alla fine come Amore. Cristo è Colui che «am+ sino alla fine» (Gv 13,1). «Sino alla fine» vuol dire sino all'ultimo respiro. «Sino alla fine» vuol dire accettando tutte le conseguenze del peccato dell'uomo, assumendolo su di Sé. Precisamente così come aveva affermato il profeta Isaia: «si è caricato delle nostre sofferenze... Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti» (53,4 e E). L'Uomo del dolore è la rivelazione di quell'Amore che «tutto sopporta» (1Cor 13,7), di quell'Amore che è il «più grande» (cfr. 1Cor 13,13). E' la rivelazione che Dio non soltanto è Amore, ma che anche «riversa amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (cfr. Rm 5,5). In definitiva, davanti al Crocifisso, prende in noi il sopravvento l'uomo che è partecipe della redenzione, rispetto all'uomo che pretende di essere giudice accanito delle sentenze divine nella propria vita e in quella dell'umanità. Così, dunque, ci troviamo al centro stesso della storia della salvezza. Il giudizio su Dio diventa un giudizio sull'uomo. La dimensione divina e la dimensione umana di questo evento si incontrano, si incrociano e si sovrappongono. Non è possibile non fermarsi qui. Dal Monte delle Beatitudini la via della Buona Novella porta al Golgota. E passa attraverso il Monte Tabor, cioè il Monte della Trasfigurazione. La difficoltà del Golgota e la sua provocazione sono così grandi, che Dio stesso volle avvertire gli apostoli di quanto doveva accadere tra il Venerdì Santo e la Domenica di Pasqua. L'eloquenza definitiva del Venerdì Santo è la seguente: uomo, tu che giudichi Dio, che Gli ordini di giustificarsi davanti al tuo tribunale, pensa a te stesso, se non sia tu il responsabile della morte di questo Condannato, se il giudizio su Dio non sia in realtà giudizio su te stesso. Rifletti se questo giudizio e il suo esito - la Croce e poi la Risurrezione non rimangano per te l'unica via per la salvezza. Quando l'arcangelo Gabriele annunziava alla Vergine di Nazareth la nascita del Figlio, rivelando che il Suo Regno non avrebbe avuto fine (cfr. Lc 1,33), era certamente difficile prevedere che quelle parole preludevano a un tale futuro; che il Regno di Dio nel mondo sarebbe stato realizzato a un tale prezzo; che da quel momento la storia della salvezza dell'intera umanità avrebbe dovuto seguire una tale strada. Soltanto da quel momento? O non anche sin dall'inizio? L'evento del Golgota è un fatto storico. Tuttavia esso non è limitato nel tempo e nello spazio. Risale nel passato sino al principio e apre al futuro sino al termine della storia. Comprende in se stesso luoghi e tempi, comprende tutti gli uomini. Cristo è l'attesa ed è, contemporaneamente, il compimento. Sapeva di dover essere un laico. Lo appassionava il lavoro professionale, gli studi di ingegneria. Cercava una compagna di vita e la cercava in ginocchio, nella preghiera. Non potrò scordare il colloquio in cui, dopo uno speciale giorno di ritiro, mi disse: «Penso che proprio questa ragazza debba essere mia moglie, che è Dio a darmela». Quasi non seguisse soltanto la voce dei propri gusti, ma prima di tutto la voce di Dio stesso. Sapeva che da Lui viene ogni bene, e fece una scelta buona. Sto parlando di Jerzy Ciesielski, scomparso in un tragico incidente in Sudan, dove venne invitato a insegnare all'università, e il cui processo di beatificazione è stato già iniziato. Questa vocazione all'amore è naturalmente l'elemento di più stretto contatto con i giovani. Da sacerdote mi resi conto di ciò molto presto. Sentivo quasi una sollecitazione interiore in questa direzione. Bisogna preparare i giovani al matrimonio, bisogna insegnare loro l'amore. L'amore non è cosa che s'impari, e tuttavia non c'è cosa che sia così necessario imparare! Da giovane sacerdote imparai ad amare l'amore umano. Questo è uno dei temi fondamentali su cui concentrai il mio sacerdozio, il mio ministero sul pulpito, nel confessionale, e anche attraverso la parola scritta. Se si ama l'amore umano, nasce anche il vivo bisogno di impegnare tutte le forze a favore del «bell'amore». Poiché l'amore è bello. I giovani, in fondo, cercano sempre la bellezza nell'amore, vogliono che il loro amore sia bello. Se cedono alle debolezze, assecondando modelli di comportamento che ben possono qualificarsi come uno «scandalo del mondo contemporaneo» (e sono modelli purtroppo molto diffusi), nel profondo del cuore desiderano un amore bello e puro. Questo vale tanto per i ragazzi quanto per le ragazze. In definitiva, sanno che nessuno può concedere loro un tale amore, all'infuori di Dio. E, pertanto, sono disposti a seguire Cristo, senza badare ai sacrifici che ciò può comportare. Mi sono fatto questa immagine dei giovani e della giovinezza, immagine che mi ha seguito lungo tutti gli anni successivi e che mi permette anche di incontrare i ragazzi in qualunque posto vada. Ogni parroco di Roma sa che la visita alla parrocchia deve concludersi con l'incontro del Vescovo di Roma con i giovani. E non soltanto a Roma, ma ovunque il Papa si rechi, cerca i giovani e ovunque dai giovani viene cercato. Anzi, in verità non è lui a essere cercato. Chi è cercato è il Cristo, il quale sa «quello che c'è in ogni uomo» (Gv 2,25), specialmente in un uomo giovane, e sa dare le vere risposte alle sue domande! E anche se sono risposte esigenti, i giovani non rifuggono affatto da esse; si direbbe, piuttosto, che le attendono. Si spiega così anche la genesi delle Giornate mondiali dei giovani. Dapprima, in occasione dell'Anno giubilare della redenzione e poi per l'Anno internazionale della gioventù, indetto dall'Organizzazione delle Nazioni Unite (1985), i giovani furono invitati a Roma. E questo fu l'inizio. Nessuno ha inventato le Giornate mondiali dei giovani. Furono proprio loro a crearle. Quelle Giornate, quegli incontri, divennero da allora un bisogno dei giovani in tutti i luoghi del mondo. Il più delle volte sono state una grande sorpresa per i pastori, e persino per i vescovi. Hanno superato quanto anch'essi si aspettavano. Queste Giornate mondiali sono diventate una grande e affascinante testimonianza che i giovani danno di loro stessi, sono diventate un mezzo potente d'evangelizzazione. Nei giovani c'è, infatti, un immenso potenziale di bene e di possibilità creative. Quando li incontro, in qualunque luogo del mondo, attendo prima di tutto ciò che vorranno dirmi di loro, della loro società, della loro Chiesa. E sempre li rendo consapevoli di questo: «Non è affatto più importante ciò che vi dirò: importante è ciò che mi direte voi. Me lo direte non necessariamente con le parole, lo direte con la vostra presenza, con il vostro canto.» Secondo questo spirito il Vaticano II continuerà a essere per lungo tempo una sfida per tutte le Chiese e un compito per ognuno. Nei decenni trascorsi dalla conclusione del Vaticano II, abbiamo potuto riscontrare come detta sfida e detto compito siano stati accolti sotto vari aspetti e in varie dimensioni. Ciò è accaduto innanzitutto con i sinodi postconciliari: sia i sinodi generali dei vescovi di tutto il mondo convocati dal Papa, sia quelli delle singole diocesi o province ecclesiastiche. So per esperienza come questo metodo sinodale corrisponda alle attese dei vari ambienti e quali frutti porti. E penso ai sinodi diocesani che, quasi spontaneamente, si sono disfatti dell'antica unilateralità clericale e sono divenuti un modo per esprimere la responsabilità di ciascuno verso la Chiesa. La responsabilità comunitaria verso la Chiesa, che i laici oggi sentono in modo particolare, è certamente fonte di rinnovamento. Essa forma il volto della Chiesa per le nuove generazioni, nella prospettiva del terzo millennio. Per il ventennale della chiusura del Concilio, nel 1985, fu convocato il Sinodo straordinario dei vescovi. Ricordo questo fatto perché da quel Sinodo proviene l'iniziativa del Catechismo della Chiesa cattolica. Alcuni teologi, a volte interi ambienti, diffondevano la tesi che non ci fosse più bisogno ormai di alcun catechismo, essendo tale forma di trasmissione della fede superata e, perciò, da abbandonare. Esprimevano anche l'opinione che la creazione di un catechismo della Chiesa universale fosse di fatto irrealizzabile. Erano gli stessi ambienti che, a suo tempo, avevano giudicato inutile e inopportuno il nuovo Codice di diritto canonico, annunciato già da Giovanni XXIII. Invece, la voce dei vescovi nel Sinodo rivelava tutt'altro parere: il nuovo Codice era stato una provvida iniziativa che andava incontro a un bisogno della Chiesa. Indispensabile era anche il catechismo, affinché tutta la ricchezza del magistero della Chiesa, dopo il Concilio Vaticano II, potesse ricevere una nuova sintesi e, in un certo senso, un nuovo orientamento. Senza il Catechismo della Chiesa universale ciò sarebbe stato irraggiungibile. I singoli ambienti, in base a questo testo del magistero, avrebbero in seguito creato dei loro propri catechismi secondo le necessità locali. In tempi relativamente brevi la grande sintesi fu realizzata. A essa prese parte veramente tutta la Chiesa. Particolari meriti al riguardo devono essere riconosciuti al cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Il Catechismo, pubblicato nel 1992, è diventato un bestseller nel mercato librario mondiale, a conferma di quanto grande sia la richiesta di questo genere di lettura, che a prima vista potrebbe sembrare impopolare. E l'interesse per il catechismo non cessa. Ci troviamo, dunque, di fronte a una realtà nuova. Il mondo, stanco di ideologie, si apre alla verità. E' giunto il tempo in cui lo splendore di questa verità evangelica comincia a rischiarare nuovamente le tenebre dell'esistenza umana. Anche se è difficile giudicare fin d'ora, sulla base di quanto si è compiuto e di quanto si sta compiendo è evidente che il Concilio non rimarrà lettera morta. Lo Spirito, che ha parlato per mezzo del Vaticano II, non ha parlato invano. L'esperienza di questi anni ci lascia intravedere nuove prospettive di apertura verso quella verità divina che la Chiesa deve annunciare «in ogni occasione opportuna e non opportuna» (2Tm 4,2). Ciascun ministro del Vangelo dovrebbe rendere grazie allo Spirito Santo per il dono del Concilio e dovrebbe costantemente sentirsi suo debitore. E perché questo debito venga estinto saranno necessari molti anni ancora e molte generazioni. I mezzi di comunicazione hanno abituato i vari ambienti sociali ad ascoltare ciò che «solletica le orecchie» (cfr. 2Tm 4,3). Situazione ancor peggiore si ha quando i teologi, e specialmente i moralisti, si alleano con i mezzi di comunicazione, i quali ovviamente danno ampia risonanza a quanto essi dicono e scrivono in contrasto con «la sana dottrina». Infatti, quando la vera dottrina è impopolare, non è lecito cercare una popolarità facile. La Chiesa deve dare una risposta sincera alla domanda: «Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?» (Mt 19,16). Cristo ci ha prevenuti, avvertendo che la via della salvezza non è larga e comoda, ma stretta e angusta (cfr. Mt 7,13-14). Non abbiamo diritto di abbandonare tale ottica, né di mutarla. Questo è il monito del magistero, questo è anche il dovere dei teologi - soprattutto dei moralisti - i quali, come collaboratori della Chiesa docente, hanno una loro parte speciale. Naturalmente, rimangono valide le parole di Gesù riguardo a quei pesi di cui certi maestri caricano le spalle degli uomini, non volendo portarli essi stessi (cfr. Lc 11,46). Ma si deve tuttavia considerare quale sia il peso maggiore: se la verità, persino quella molto esigente; o se, invece, un'apparenza della verità, che crea soltanto l'illusione della correttezza morale. La Veritatis splendor aiuta proprio ad affrontare questo fondamentale dilemma che la gente sembra cominciare a capire. Penso, infatti, che oggi lo si comprenda meglio che nel 1968. E' vero che la Chiesa è ferma e il mondo si allontana da lei? Si può dire che il mondo si sviluppi soltanto verso una maggiore libertà di costumi? Queste parole non mascherano forse quel relativismo che è tanto nefasto per l'uomo? Non soltanto per l'aborto, ma anche per la contraccezione, si tratta in definitiva della verità sull'uomo. Allontanarsi da tale verità non costituisce affatto una tendenza verso lo sviluppo, non può essere ritenuta una misura di «progresso etico». Di fronte a simili tendenze ogni pastore della Chiesa, e soprattutto il Papa, deve essere particolarmente sensibile, per non disattendere il severo monito contenuto nella Seconda Lettera di Paolo a Timoteo: «Tu, però, vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero» (4,5). La fede nella Chiesa oggi. Nel Simbolo - tanto in quello apostolico che nel niceno-costantinopolitano - diciamo: Credo la Chiesa. Poniamo dunque la Chiesa sul medesimo piano del mistero della Santissima Trinità e dei misteri dell'incarnazione e della Redenzione. Tuttavia, come ha ben rilevato il padre De Lubac, questa fede nella Chiesa significa una cosa diversa dalla fede nei grandi misteri di Dio stesso, poiché non soltanto crediamo nella Chiesa, ma contemporaneamente la costituiamo. Seguendo il Concilio, possiamo dire di credere nella Chiesa come in un mistero. E, insieme, sappiamo di essere Chiesa come popolo di Dio. Siamo Chiesa anche come membri della struttura gerarchica e, prima di tutto, come membri della missione messianica di Cristo, la quale possiede un triplice carattere: profetico, sacerdotale e regale. Si può dire che la nostra fede nella Chiesa è stata rinnovata e approfondita in modo significativo dal Concilio. Per lungo tempo nella Chiesa si è vista piuttosto la dimensione istituzionale, gerarchica, e si è un po' trascurata la fondamentale dimensione di grazia, carismatica, propria del popolo di Dio. Attraverso il magistero del Concilio, potremmo dire che la fede nella Chiesa ci è stata nuovamente affidata come compito. Il rinnovamento postconciliare è, innanzitutto, rinnovamento di questa fede, straordinariamente ricca e feconda. La fede nella Chiesa, come la insegna il Concilio Vaticano II, induce a rivedere certe schematizzazioni troppo rigide: per esempio, la distinzione tra Chiesa docente, che insegna, e Chiesa discente, che impara, deve tener conto del fatto che ogni battezzato partecipa, seppure al suo livello, della missione profetica, sacerdotale e regale. L'amore è fonte di predilezione per tutto ciò che è buono. Tale amore, secondo le parole di san Giovanni, scaccia ogni timore (cfr. IGv 4,18). Ogni segno di timore servile davanti alla severa potenza dell'Onnipotente e dell'onnipresente sparisce e lascia il posto alla sollecitudine filiale, perché nel mondo si attui la Sua volontà, cioè il bene che ha in Lui il suo principio e il suo definitivo compimento. Così, dunque, i santi di ogni tempo sono anche l'incarnazione del filiale amore di Cristo, che è fonte dell'amore francescano per le creature e anche dell'amore per la potenza salvifica della Croce, che restituisce al mondo l'equilibrio tra il bene e il male. L'uomo contemporaneo è veramente mosso da un tale timore filiale di Dio, timore che è prima di tutto amore? Si può pensare, e le prove non mancano, che il paradigma di Hegel del padrone e del servo sia più presente nella consapevolezza dell'uomo di oggi che la sapienza, il cui principio sta nel timore filiale di Dio. Dal paradigma hegeliano nasce la filosofia della prepotenza. L'unica forza in grado di regolare efficacemente i conti con questa filosofia è rinvenibile nel Vangelo di Cristo, nel quale l'impostazione padrone-servo si è radicalmente trasformata nell'impostazione padre-figlio. L'impostazione padre-figlio è perenne. E' più antica della storia dell'uomo. I «raggi di paternità» in essa contenuti appartengono al Mistero trinitario di Dio stesso, che s'irradia da Lui verso l'uomo e verso la sua storia. Ciononostante, come si sa dalla Rivelazione, in questa storia i «raggi di paternità» incontrano una prima resistenza nel dato oscuro ma reale del peccato originale. Questa è veramente la chiave per interpretare la realtà. Il peccato originale non è solo la violazione di una volontà positiva di Dio ma anche, e soprattutto, della motivazione che vi sta dietro. Esso tende quindi ad abolire la paternità, distruggendone i raggi che pervadono il mondo creato, mettendo in dubbio la verità su Dio che è Amore e lasciando la sola consapevolezza del padrone e del servo. Così, il Signore appare geloso del Suo potere sul mondo e sull'uomo; di conseguenza, l'uomo si sente provocato alla lotta contro Dio. Non diversamente che in ogni epoca della storia, l'uomo schiavizzato si vede spinto a schierarsi contro il padrone che lo teneva in schiavitù. Dopo quanto ho detto, potrei racchiudere la mia risposta nel seguente paradosso: per liberare l'uomo contemporaneo dalla paura di se stesso, del mondo, degli altri uomini, delle potenze terrene, dei sistemi oppressivi, per liberarlo da ogni sintomo di una paura servile nei confronti di quella «forza prevalente» che il credente chiama Dio, occorre augurargli di tutto cuore di portare e di coltivare nel suo cuore il vero timor di Dio, che è principio della sapienza. Tale timor di Dio è la forza salvifica del Vangelo. E' timore creativo, mai distruttivo. Genera uomini che si lasciano guidare dalla responsabilità, dall'amore responsabile. Genera uomini santi, cioè veri cristiani, ai quali il futuro del mondo in definitiva appartiene. Certamente aveva ragione André Malraux, quando diceva che il xx secolo o sarà il secolo della religione o non sarà affatto. Il Papa che ha cominciato il suo pontificato con le parole «Non abbiate paura!» cerca di essere pienamente fedele a tale esortazione ed è sempre pronto a servire l'uomo, le nazioni e l'umanità nello spirito di questa verità evangelica. /