/<1991>/ Duke mi guardò come un padre, l'espressione penetrante. «Sogni, eh? E' questo che ti preoccupa?» Annuii. Non disse nulla. Rivolse lo sguardo fuori dalla finestra, poi tornò a guardarmi negli occhi. «Io sogno in continuazione» confessò. «Incubi, per la precisione. Mi passano davanti agli occhi tutte le facce delle persone che...» Lasciò la frase a metà. Abbassò lo sguardo e fissò le mani, le sue grandi mani sciupate. Pensai che forse dovevo dire qualcosa. A un tratto mi guardò di nuovo, era tornato il Duke di sempre... e aveva tralasciato di dire un'infinità di cose. «Ma non permetterò che sia questo a fermarmi. Jim, ascolti quello che ti sto dicendo?» «Sì. E' solo che...» «Cosa?» Mi imbarazzava ammetterlo. « E' solo che ho paura di perdere il controllo» dissi. « E' come se ci fossero delle voci... e penso che se riuscissi a sentire quello che dicono, saprei la risposta e tutto si risolverebbe. Ma non riesco a sentirle. Le avverto come un sussurro in lontananza... Ecco. Ora l'avevo detto.» Restai in attesa di una sua reazione. Duke sembrava preoccupato, come se non riuscisse a trovare la risposta che cercava. Guardò ancora l'elicottero fuori della finestra. Quando posò di nuovo lo sguardo su di me, aveva un'espressione sconfortata. «Dovrei aspettare che ti veda un medico, ma non posso. Ho bisogno di te per la missione. E' così che vanno le cose in questa dannata guerra. Non c'e nessuno tra noi che non si meriti un paio d'anni di licenza RR, per riposare e recuperare le energie, ma non li avremo mai. Invece continuiamo a passare da uno stato di emergenza all'altro e l'unico momento in cui possiamo prenderci cura della nostra salute mentale è quando aspettiamo il verde ai semafori.» Mi guardò attentamente. «E tu pensi di essere pazzo?» Scrollai le spalle. «Non lo so. Però non credo di essere normale.» All'improvviso, sorrise. «Ecco, questo sì che è normale! Non c'è niente di normale su questo pianeta, Jim. Sono tutti pazzi, ricordi?» Annuii. «Lo so. Solo che a volte penso di essere più pazzo del normale.» «Giusto. Ma anche questo è normale. Jim, se sei cosciente di essere pazzo, allora non sei pazzo. E' solo quando vuoi convincerti del contrario che sei pronto per essere chiuso dietro le sbarre.» «Questa è una vecchia battuta, Duke.» E gli citai la frase: "Equilibrio mentale... se pensi di averlo, probabilmente non ce l'hai. Se, invece, sei sicuro di averlo, sicuramente non ce l'hai". «Ho capito il paradosso. L'unica prova che uno ha di non essere pazzo è il timore di esserlo. Però si può diventare pazzi anche pensandoci troppo.» «Jim» disse Duke con calma. «Dimentica tutto questo per un momento. Perché ti trovi qui? Qual è lo scopo?» «Sono qui per uccidere vermi. Lo scopo è quello di arrestare l'invasione chtorran sulla Terra. Con qualunque mezzo.» «Bene» disse Duke. «E ora lascia che ti faccia un'altra domanda. E' necessario essere sano di mente o rispondere a un criterio di normalità per raggiungere questo scopo?» Ci pensai su. Mi rivolsi mentalmente la domanda. Certo che no. «No» risposi. «Bene. Allora, come vedi, non importa se tu sei pazzo oppure no. C'è però una cosa che devo assolutamente sapere. Posso contare su di te oggi?» Ora toccava a me sorridere. «Sì, puoi contare su di me.» «Completamente?» «Completamente.» E dicevo sul serio. «Bene» disse. «Prendi la tua roba e andiamo.» Rimasi immobile. C'era ancora una cosa. «Ehm...» «Qualcos'altro?» Duke sembrava preoccupato. «Ehm, non proprio. Solo una domanda.» «Sì, dimmi.» «Ehm, Duke... e tu con chi parli dei tuoi problemi?» Sembrò colto di sorpresa. Si allontanò per prendere il telefono e la sacca, poi mi disse: «Ogni tanto parlo col capo.» Sollevò un pollice verso il soffitto. «L'uomo del piano di sopra» disse, ed era già fuori della porta. Lo seguii scuotendo la testa meravigliato. L'universo era pieno di sorprese. «E tu sei d'accordo...?» Fletcher scosse la testa. «No, ma capisco le loro ragioni. Le Potenze che fanno parte del Trattato usano la guerra per scopi politici. Vorresti che noi non facessimo altrettanto? Pensa alla nostra storia. Dobbiamo smaltire almeno vent'anni di rancori e risentimento... perciò adesso c'è gente a cui non dispiace affatto dare l'Alleanza del Quarto Mondo in pasto ai vermi almeno per un poi di tempo.» «E nel frattempo l'infestazione prende sempre più piede.» « E' vero. Certe persone sono disposte a tutto pur di raggiungere i loro scopi. comunque...» aggiunse «la gerromicina non sarebbe un'arma efficace.» «Perché no?» «Abbiamo constatato quali sono i suoi effetti ritardati. Due o tre settimane dopo, il pelo del verme ha cominciato a ricrescere, ma molto più scuro. Per lo più ciuffi di pelo rosso, porpora e nero. E' stato a questo punto che il verme ha iniziato a diventare violento. E più il pelo diventava scuro, più violento diventava. Evidentemente la sua percezione del mondo stava cambiando. Alla fine abbiamo dovuto sopprimerlo, temevamo di non riuscire a tenerlo a bada.» Schioccò la lingua. «Pensi che i vermi siano pericolosi? Prova a iniettargli la gerromicina e vedrai.» Non risposi. Non riuscivo a capire. Sapevo che il pelo era formato da una specie di fibre nervose. Usavamo il gas facendo conto proprio su questo. Ma in che modo potevano quelle cellule nervose rendere un verme pacifico o violento? «C'è nessuno tra voi che sta studiando il pelo dei vermi?» domandai. Scosse la testa. «No, sarebbe interessante, ma siamo già oberati di lavoro. Prima di questo ci sono almeno altri quindici aspetti che vogliamo approfondire.» «Mi pare che potrebbe essere di grande importanza in vista della possibilità di addomesticarli.» «Mmm... già » convenne lei. « E' per questo che stiamo cercando di trovare vermi albini...» La jeep rallentò la marcia mentre ci avvicinavamo al ponte della baia di Oakland. La dottoressa Fletcher mostrò la tessera a un lettore ottico e le barriere si aprirono. Un grande cartello appeso al casello vuoto diceva: per ordine del governo militare della California, è vietato l'accesso alla città di San Francisco dichiarata zona altamente infetta. State entrando a vostro rischio e pericolo. «Molto rassicurante » dissi mentre lo superavamo. «Non c'è pericolo» disse lei. «Cosa te lo fa pensare?» «Te l'ho detto. Faccio parte del Comitato Consultivo. Attualmente San Francisco è considerata zona inadatta a qualsiasi attività, fatta eccezione di quella politica.» «Scusa?» « E' un'altra delle buone idee del Comitato. San Francisco potrebbe diventare una Città Protetta... circondata come è su tre lati dall'acqua. Sfortunatamente, però, dev'essere ancora ripulita da un mucchio di rovine... ma dietro ogni lampione ci sono i militanti per la conservazione ambientale che si oppongono. Perciò il governatore gli impedisce di entrare. Mi pagano una bella somma per giurare che in città ci sono ancora sacche di epidemie.» «Ed è vero?» «La verità è che... sì, è vero.» Arrivammo in cima al ponte e davanti ai nostri occhi si stagliò la città... o quel che ne restava. Era uno spettacolo spaventoso, la città era sventrata. Quello che vedevamo era lo scheletro di San Francisco. Il mozzicone della Trans-America Tower spuntava all'orizzonte come un dente rotto; la Coit Tower era ancora in piedi, ma completamente annerita dal fuoco. Non riuscii a distinguere molti altri edifici, al loro posto non c'erano che rovine e macerie. «Mio Dio...» Ero rimasto senza parole. «Ti capisco» disse lei. «Avevo visto le foto» dissi in un soffio. «Ma... non immaginavo... è orribile.» « E' l'effetto che fa a tutti la prima volta. Io provo ancora una stretta alla gola ogni volta che attraverso il ponte.» «Non... non è rimasto niente.» « E' colpa delle tempeste di vento provocate dagli incendi e dalle esplosioni» disse lei. La sua domanda mi riportò coi piedi per terra. Considerai per un attimo quell'ipotesi. Poi scossi la testa. «No, non riesco a immaginare che mio padre possa aver rinunciato alla ragione per... questo. Mi è più facile crederlo morto.» La guardai.» Adesso ne ero assolutamente certo. «Ora posso crederci. Grazie.» Fletcher mi sfiorò una guancia. «So che è stato terribile, Jim. Sono contenta che tu... » Notò qualcosa alle mie spalle che la fece irrigidire. Mi voltai a guardare e vidi un uomo alto e possente che avanzava verso di noi. Era nudo e muscoloso come un guerriero. Aveva il torace poderoso e la sua pelle abbronzata era bagnata di sudore. Era uno stallone. Un toro. Aveva occhi intensi, lo sguardo diretto e penetrante e... un'erezione mostruosa. Impossibile ignorarla. «Ma non è lo scienziato scomparso?» feci per chiederle, ma Fletcher mi allontanò con gesto deciso. Poi avanzò verso il toro mostrando i denti ed emettendo un suono gutturale. L'uomo esitò... Lei ripeté quel ringhio. Il toro cominciò a perdere la sua spavalderia. Fletcher intercalò i ringhi con sbuffi di rabbia e il toro indietreggiò. Poi Fletcher gli mostrò di nuovo i denti gridando: «Via... via... via!» Il toro fece dietro front e si allontanò precipitosamente. La guardai e cominciai a dirle: «Mi sembra molto efficace...» ma vidi che era impallidita. «Cosa ti succede?» «Niente» disse. «Balle» dissi. «Sei una sporca bugiarda.» Cercò di evitarmi, ma la afferrai per un braccio. «Ehi, chi vuoi prendere in giro?» Si liberò dalla mia stretta e si allontanò con le mani sul viso. Mi accorsi che stava tremando. Cercò a tentoni il fazzoletto e si voltò verso di me, asciugandosi gli occhi. «Ci amavamo» confessò. «Ancora non riesco ad accettare di vederlo cosa... specialmente quando è in quello stato. Scusami.» Non sapevo cosa dirle, perciò non dissi nulla. Le presi la mano e ci avviammo alla jeep. Saltammo su, ma lei non avviò subito il motore. « E' per questo che ti interessi tanto al branco, vero?» Annuì. «Voglio accertarmi che stia bene. Glielo devo.» «E...?» la sollecitai. Emise un sospiro. «E poi... continuo a sperare di riuscire a capire. Il branco. E... di riuscire a riaverlo.» Si strofinò il naso. Aveva gli occhi arrossati. « E' molto importante per te, vero?» Annuì. «Era.... è... straordinario. Un uomo incredibilmente gentile.» Guardò lontano, verso quei corpi in continuo movimento. «Certe volte... » lasciò la frase a metà. Seguii il suo sguardo. « E' una tentazione immensa» mi confessò. «Vivono sereni, felici.» Poi aggiunse: «Forse sono gli unici su questo pianeta.» «Mi domando...» dissi. «Mi domando quanto resisterebbero se nessuno si prendesse più cura di loro.» La guardai. «La felicità è un lusso molto pericoloso. Non credo che potremmo più permetterci di essere felici. Almeno, non in questo modo.» Non rispose. Stava ancora guardando in mezzo al branco. Il toro aveva trovato un partner per quel pomeriggio. Un ragazzino che lo guardava con occhi adoranti. Evidentemente il toro non era schizzinoso. Guardai Fletcher. La sua espressione si era indurita, perciò non fiatai. Mise in moto la jeep e ci dirigemmo verso Oakland. Non disse nulla finché non fummo a metà del ponte. «Puoi farmi un favore?» mi chiese. «Certo.» «Non parlarne con nessuno.» «Fai conto che non sia mai stato qui.» «Ti ringrazio.» Mi sorrise con gratitudine. «E poi anch'io vorrei che Duke non venisse a sapere che mi sono lasciato... influenzare.» Fletcher collegò la jeep al pilota automatico e allontanò da sé il volante. «Da me non saprà niente.» «Grazie» le dissi. Si allungò verso di me e mi dette un colpetto sul dorso della mano. Ci eravamo scambiati un segreto. Ora era tutto a posto. Fletcher mi lasciò alla caserma con una stretta di mano e la promessa di procurarmi un permesso permanente per accedere ai laboratori di ricerca. Rimasi a guardarla mentre si allontanava. Quante volte alla settimana attraversava il ponte per andare a San Francisco? Be'... forse non erano affari miei. Sapevo che se avesse potuto andarsene per un po' da solo da qualche parte, poi si sarebbe sentito di nuovo bene... fino alla prossima volta. Ma se non aveva questa possibilità, si sarebbe sentito infelice e l'avrebbe fatta scontare a noi. La mia reazione, invece... Mi sentivo svuotato. A ogni missione aprivo di più gli occhi e mi rendevo conto dell'inutilità dei nostri sforzi. Questa era stata l'esperienza peggiore. Non sapevo che cosa ci stessi a fare lì. I vermi mi disorientavano. Ero inorridito e al tempo stesso affascinato, volevo sapere su di loro tutto quello che era possibile, ero attratto e insieme paralizzato dall'orrore. E provavo anche un'altra sensazione, più oscura e sconvolgente. Come il lampo caldo e rosso di un ricordo improvviso... di qualcosa che un tempo conoscevo e che avevo dimenticato, ma la cui eco risuonava ancora dentro di me. Tutte le volte che provavo questa sensazione, sentivo un profondo disgusto per la mia specie. Gli esseri umani mi apparivano ancora più mostruosi degli invasori. Era a causa di tutti quei massacri? Sapevo che la gente mi guardava con orrore perché vedeva la morte nei miei occhi, come io la vedevo in quelli di Duke. Tutti noi che ci eravamo trovati faccia a faccia con i vermi, avevamo la stessa espressione negli occhi. Eravamo delle macchine omicide. L'unica differenza fra noi e i vermi era che loro non avevano scelta. Noi sì, eravamo noi che sceglievamo di uccidere. Saremmo stati disposti perfino a ucciderci l'un l'altro, se questo avesse significato danneggiare i vermi. Sentii un'oppressione al petto. Un sobbalzo dell'elicottero mi riportò alla realtà. Stavamo riprendendo velocità. Guardai Lizard, la sua espressione era impassibile. A eccezione del momento in cui aveva urlato, si comportava come una perfetta macchina militare, come un pilota automatico, non come un essere umano. Mi domandai se fosse mai stata una vera donna, ma scacciai il pensiero. Il suo viso era scavato nell'acciaio. Non riuscivo a immaginarmela mentre rideva o si divertiva, per non parlare di atteggiamenti più intimi. Indossava il suo corpo come un'armatura e l'effetto era disumano, quasi scostante. Non riuscivo a immaginarla nuda, né potevo credere che riuscisse a fidarsi di un altro essere umano tanto da confidarsi con lui. No, anche lei era una macchina mostruosa. Come tutti noi. Lizard stava controllando il piano di volo. «Va bene, il peggio è passato. Lasceremo finire il lavoro alla Marina. Voglio dare un'occhiata al Red Bluff prima di tornare indietro. Sorvoleremo tutta la costa per osservare la fanghiglia marina.» «Non avete in dotazione palloni aerostatici?» domandò Duke. Il tono della voce e l'espressione del suo viso erano tornati normali, duri e taglienti. «Li avevamo. Ma c'era qualcosa che li faceva precipitare.» «E tu vuoi andare a vedere?» domandai incredulo. Lizard mi ignorò e si rivolse a Duke. «Non abbiamo aerostati a sufficienza per programmare un pattugliamento regolare. E non ce la faremo fino a quando la Lockheed non riprenderà a inviarceli.» «Nemmeno satelliti?» «Sì e ci danno immagini a buona risoluzione, ma se ci sono nuvole stratificate non riescono a trasmettere, e poi si tratta di immagini fisse di un'area limitata... mentre noi abbiamo assolutamente bisogno di sapere che cosa sta succedendo laggiù.» Lizard accese la radio. «Bene, pulcini. Qui parla ELDAVO. Vi siete comportati bene. Mi dirigo verso est. Seguitemi e tenete gli occhi aperti.» «Roger... te la svigni, eh?» L'orizzonte si modificò bruscamente quando Lizard manovrò per dirigere l'elicottero verso est. Stavamo di nuovo sorvolando le colline ondulate. «All'apparenza questa zona sembra verde...» disse Lizard «ma sulla mappa è segnata rossa Perché da un poi di tempo nei boschi continuiamo a localizzare vermi. Da queste parti le autorità hanno proibito qualsiasi attività dell'industria del legname.» Ebbi un dubbio improvviso. «Avremo aria a sufficienza?» Lizard esitò. «Sì... ci sono diverse bombole di ossigeno fra il materiale di pronto soccorso. Possiamo utilizzare quelle. In teoria dovremmo poter resistere per trentasei ore. Però vorrei fare a meno di ricorrere a quelle bombole.» Si tolse la cuffia e la gettò sul quadro di comando che aveva davanti. «Merda» disse. «Adesso che succede?» «Niente. Veramente per questa notte avevo un programma diverso... che non prevedeva il fatto di essere sepolta viva.» «Oh» dissi. Non riuscivo a immaginare che il colonnello Tirelli potesse avere un appuntamento. «Mi dispiace.» «Perché ti scusi? Non è mica colpa tua.» «Mmm... stavo solo esprimendoti la mia comprensione.» «Be', allora grazie del pensiero. Per tutto il giorno non ho fatto che pensare a una bistecca e a un'aragosta.» «Un'aragosta?» «Ah, ah. In Arizona gli impianti di allevamento di aragoste sono di nuovo in funzione. Dovresti vedere che mostri riescono a produrre. Guarda, sono grosse così... » Fece un gesto allontanando le mani di circa un metro una dall'altra, poi aggiunse pensierosa: «L'Arizona è uno degli Stati che possono essere facilmente protetti dall'infestazione... la parte meridionale, almeno. Non c'è abbastanza foraggio e manto di terra per i vermi. E' una zona dove potremmo resistere per molto tempo.» «Rientra nei programmi a lunga scadenza?» «Non ancora, ma in futuro sì.» «Entrerai a far parte del Comitato?» «Me lo hanno chiesto. E' una questione di... priorità.» Si strinse nelle spalle. «Ma a che serve fare programmi a lunga scadenza se non ci si preoccupa del presente?» «D'altra parte» dissi io «tutto quello che facciamo deve inserirsi nel quadro complessivo degli obiettivi a lungo termine, no?» Mi lanciò un'occhiata penetrante. «Hai parlato con il dottor Foreman?» «No, perché?» «Mi sembrava di sentir parlare lui... guarda che è un complimento... Hai ragione, devo andare dove c'è più bisogno di me.» Sorrise. «Il che significa che probabilmente entrerò a far parte del Comitato. Temo però che avrò meno occasione di volare e non ho nessuna intenzione di rinunciarci. «Io credo, invece, che il lavoro nel Comitato ti obbligherà a volare ancora di più... penso alle ricognizioni sul campo.» «Hai ragione» ammise. «Ma non so.» Vidi che osservava con attenzione il parabrezza. «Dammi la torcia elettrica.» Gliela passai e lei diresse il raggio sul margine superiore del vetro. Era completamente rosa. «Già, dovevo immaginarlo. Il muso dell'elicottero è tutto coperto... sta scendendo più fitta.» Puntò le mani sul sedile e si alzò dirigendosi verso il fondo dell'apparecchio. Io la seguii. Frugò dentro un vano laterale e tirò fuori un'altra torcia elettrica e una lampada di emergenza che appese al soffitto. «Ecco... così va meglio.» Mi porse la seconda torcia. Passò oltre Duke e diresse il raggio verso la coda dell'apparecchio. Non capivo cosa stesse cercando. Avvicinò la testa al lunotto posteriore e lo illuminò con la torcia. «Mmm...» siamo completamente sepolti. Spero proprio che questa robaccia non sia un isolante, perché altrimenti qua dentro potrebbe cominciare a fare un po' troppo caldo. «Pensavo che i Banshee fossero coibentati.» «Infatti lo sono, ma se restiamo sepolti sotto quella roba, il calore non può disperdersi.» Proseguì verso il fondo. «Hai fame?» «Sì.» «Bene, prendi le razioni di emergenza.» Controllai Duke, nessun cambiamento... poi tirai fuori la cassetta di emergenza. Tornammo ai nostri posti e girammo i sedili in modo da stare seduti voltando le spalle al parabrezza. Meglio stare inclinati all'indietro piuttosto che scivolare in avanti. Mi appoggiai allo schienale e misi i piedi sul ponte. Le stecche della razione erano gommose e per masticarle ci voleva molta concentrazione. All'improvviso Lizard mi chiese: «Sei mai stato invitato a partecipare a una Messa Azzurra?» Scossi la testa. « E' un invito?» domandai. Mi lanciò un'occhiata acida. «Mi stavo solo chiedendo se ne sapevi qualcosa.» «Scusami.» Poi aggiunsi: «Ho sentito dire che i membri hanno metodi piuttosto energici per reclutare i partecipanti.» «E avete un granchio?» «Mi scusi... » intervenne il capitano Price «lei è esperto in dirigibili?» «No...» «Allora perché non lascia che ce ne occupiamo noi?» «... ma ho partecipato a sette missioni paracadutate da pallonetti in Colorado... e così mi sono fatto un'esperienza sul campo. Qui abbiamo un mucchio di problemi...» «Anche qui non mancano.» «I vostri sono forse di un bel rosso brillante?» ribattei secco. «E pesano tre tonnellate? E possono squarciare un elicottero con i denti?» Per un attimo non ci fu nessuna risposta e potevo quasi vedere i due uomini che si lanciavano un'occhiata. Poi il capitano Price parlò di nuovo. «Ci sono i vermi?» «Ce ne è uno seduto proprio qui, davanti alla porta d'ingresso.» Un altro momento di silenzio. «Mmm...» Era Danny. «Tenente...» Adesso faceva bene attenzione a quello che diceva. «Qualunque cosa abbia intenzione di fare, cerchi di non irritarlo.» «Colonnello...» replicai nello stesso tono prudente. «Non ho nessuna intenzione di irritarlo. Io voglio solo ammazzarlo.» Prima che potesse ribattere, aggiunsi: «Quel verme può fare due cose: o spacca in due questo elicottero di persona o va a chiamare il resto della famiglia... e saranno loro a spaccarlo in due.» «Tenente... » disse il comandante del dirigibile. « E' esperto di vermi?» Sembrava scettico. «Il migliore che può trovare in California» risposi deciso. «Capitano Price» intervenne Lizard. «Lo è davvero. Ho chiesto espressamente che il tenente McCarthy fosse assegnato a me proprio per la sua esperienza nel campo dell'ecologia chtorran. Se lui dice che i vermi stanno per cacare zuppa, sarà meglio che portiate le scodelle e i crostini.» «Se lo dice lei, colonnello... mi scuso per qualsiasi cosa abbia detto di offensivo. Non ne avevo l'intenzione... oggi abbiamo avuto delle brutte esperienze con due rompiballe perciò comprenderà se siamo un poi diffidenti.» «Nessun problema » disse Lizard, poi mi guardò. «McCarthy?» «Va bene» dissi alla radio. «Ma devo uccidere un verme e voi mi state facendo perdere tempo. Naturalmente se avete un'idea migliore, sarò felice di ascoltarla. Però chi sta col culo scoperto sono io...» «Va bene, tenente» era la voce di Danny, molto calma. «Basta con le discussioni. Ha perfettamente ragione, la gatta da pelare è la sua, ma io vorrei che lei fosse sicuro...» Si sentì un tonfo in coda all'apparecchio. Io e Lizard ci voltammo contemporaneamente. «Sono sicuro» dissi. Si sentì ancora un tonfo, questa volta più forte. Lizard disse alla radio. «Danny... sta bussando alla porta.» «Proceda pure col suo lavoro, tenente. Rimarremo in linea nel caso abbiate bisogno di parlare e...» Io mi stavo già avviando. «Lizard, tieni d'occhio il paziente per me» Ma Lizard mi stava già seguendo in coda all'elicottero. «Prendi quel congelatore!» le gridai. « E' una maschera!» «Ecco...» mi gettò i paraocchi. Si sentì un colpo violento sul portello, poi qualcuno che maneggiava e scuoteva i maniglioni. Duke si lamentò nel sonno. Mi misi a posto gli occhiali protettivi, sistemai la maschera sul naso e sulla bocca, poi mi voltai per aiutare Lizard a caricarsi addosso i serbatoi. «Chi è Danny?» le chiesi. «Colonnello Danny Anderson. Ufficiale di Collegamento per la zona nord-ovest» borbottò mentre sistemava l'attrezzatura. «E nonostante quello che dice, non è venuto qui per fare un giro.» «Anderson hai detto?» Lanciai un'occhiata a Duke. «Il cognome di Duke è Anderson.» Lizard annuì col capo. «Danny è suo figlio.» Si allontanò per collegare il tubo del congelatore. Duke continuava a lamentarsi. Era in un dormiveglia e ogni tanto delirava. Aveva il respiro affannoso e stava peggio di prima. «Oh Dio, no...» Si sentì di nuovo graffiare alla porta. Mi risvegliai nell'ambulanza. Stavamo rallentando. All'esterno doveva essere successo qualcosa. Sentivo qualcuno che cercava di dare istruzioni alla folla attraverso un altoparlante, ma nessuno gli dava retta. Si sentivano grida furiose. Mi domandai se non stesse per scoppiare un tumulto. Dove mi trovavo? Ero sdraiato supino con gli occhi fissi su un soffitto di plastica. Girai la testa... una finestra nascosta da una tendina. Sollevai una mano, sentivo il petto intorpidito. Nei polmoni c'era qualcosa che non andava. Sentivo tutto il corpo dolorante, ma avevo l'impressione di non avere il torace. Il lenzuolo sapeva di bianco, l'aria di rosso. Mi spuntavano tubicini dappertutto, dal naso, dalle braccia, dalla bocca. Non so come riuscii a scostare leggermente la tendina. Stavamo rallentando. Fuori era ancora tutto rosa. L'aria, il cielo... E dappertutto gente impaurita. Sui prati, sui vialetti e, soprattutto, davanti all'entrata di emergenza. Alcune persone dovevano essere rimaste lì tutta la notte in attesa di essere curate. Sembravano molto stanche e avevano l'espressione tesa. Gli occhi erano rossi e le facce gonfie. Si trattava di un'altra epidemia? Questo nuovo morbo avrebbe definitivamente distrutto la nostra capacità di resistere? L'ambulanza si fermò. Gli infermieri mi scaricarono come un quarto di manzo e mi caricarono su una lettiga. Qualcuno in camice bianco afferrò la barra dietro la mia testa e cominciammo a procedere velocemente tra due file di facce ansiose e sconvolte. Qualcun altro ci faceva strada tra la folla. Voltai la testa per guardare. La gente si accalcava nell'atrio, lunghe code scomposte in attesa. Mi sembrò di vedere agenti della polizia militare. C'era in corso un attacco? No, quelli erano gli elmetti che indossavano in caso di disordini. L'ospedale era un incubo. Un universo di rumori... bambini che piangevano, gente che discuteva, persone che urlavano. Un'aggressione di suoni e di voci sull'orlo dell'isterismo. Una donna gridava in preda a una rabbia furiosa. La lettiga fece una sbandata e quasi si rovesciò. La donna ormai fuori di sé l'aveva bloccata e ora stava urlandomi in faccia. Avrei voluto urlare anch'io. Mi strappò la coperta di dosso. «Guardate! Un altro maledetto soldato! Lo sapevo! I militari hanno un trattamento privilegiato! E a noi, invece, ci lasceranno morire!» Qualcuno la tirò via e la lettiga riprese a muoversi più velocemente di prima. Sentii ancora delle voci. Stavano discutendo di me. Ci fermammo di nuovo. «...non posso fargli niente che non gli abbiano già fatto. Fategli un'iniezione, fategli fare un'inalazione e mandatelo a casa a riposare...» «Con i polmoni rossi al terzo stadio?» «Quando compariranno i sintomi di avvelenamento da polvere, riportatelo qui...» «Io non sono pagato per portarli a casa. Io ho il compito di consegnare la merce e questo tipo è stato già registrato. Ha una priorità AAA Extra e il primario del reparto chirurgico ha accettato la consegna.» «E ti hanno anche detto dove diavolo lo dobbiamo mettere? I corridoi sono già pieni di materassini ad aria...» «Questo non è un problema che mi riguarda. Ecco, leggi questo...» «Non posso! Devo occuparmi di qualcun altro...» «Questo non è un problema che mi riguarda.» All'improvviso qualcuno avvicinò la sua faccia alla mia. Aveva un'espressione stanca e tirata. «Apri gli occhi!» mi ordinò. «Riesci a muoverti?» Non riuscivo a parlare. Emisi un suono così debole che non era nemmeno un lamento e che si trasformò in un colpo di tosse. Rosa. Penso che questa fu la ragione per cui la questione si risolse a mio favore. La lettiga si rimise in moto ancora più velocemente...... quando mi risvegliai mi stavano mettendo in un letto. Sbattei gli occhi pieni di lacrime per il dolore, voltai la testa e socchiusi le palpebre alla luce. Era una camera privata! Cercai di protestare, ma non riuscii nemmeno a gracchiare qualcosa. Indicai la porta, la folla invisibile e, malgrado il dolore, mi misi a gesticolare freneticamente. L'infermiere mi fece sdraiare di nuovo e disse: «No, non può. Adesso tutto quello che deve fare è starsene qui.» Era un ometto grassoccio con una faccia lustra. Poteva avere indifferentemente dai trenta ai cinquant'anni. Aveva l'aspetto di una di una zitella, ma le sue braccia erano sorprendentemente forti. Mi tenne fermo e mi mise una maschera a ossigeno sul viso. «Adesso si rilassi» disse. «Io resterò qui con lei.» Sentivo oscuramente che mi stava accadendo qualcosa. Adesso nella stanza c'erano altre persone. Qualcosa mi punse il braccio. Mi lasciai andare e presi a fluttuare. Aspettavo di vedere se morivo. Li osservavo dall'alto mentre mi toccavano, mi palpavano e mi esaminavano. Stavo seduto in cima a un albero. Un albero rosso. E io ero una scimmia rossa dal pelo rosso e me ne stavo lì, seduto sotto un sole rosso su un pianeta rosso. Sotto di me vedevo nuvole rosse in un cielo rosso. Rosso in alto, rosso in basso, rosso dappertutto. Avevo il pelo rosso sfumato di rosa nei punti più delicati e la mia memoria risaliva fino a mille generazioni prima. Almeno mille generazioni. Se andavo ancora più indietro, i miei ricordi si offuscavano di rosa. E dietro quella visione confusa, percepivo il tepore di una presenza rossa al margine dell'universo che pulsava e palpitava. Eravamo chiusi in un guscio, era l'interno dell'utero che sfiorava teneramente la pelle nuda della mia anima. E ancora più oltre - oltre il tepore del guscio rosso - percepivo la presenza di Dio. Dio era profondo. E canticchiava. Canticchiava a se stesso. Era felice, quindi anche noi eravamo felici. Ero felice. Stavo seduto in cima a un albero. I rami erano fitti e vischiosi. Attraverso le mani, i piedi, il fondo della schiena, sentivo la linfa vitale pulsare nelle vene della terra. Quel dolce succo nero fluiva nelle vene del mondo per nutrire noi tutti. Pulsava come onde di orgasmo che mi eccitavano e mi solleticavano facendomi ridere. Stavo seduto in cima a un albero. Stavo seduto dentro a uno degli enormi fiori rossi da cui ero circondato. I nostri manti rossi si confondevano. Erano bocche spalancate, morbide labbra protese in un bacio, sensuali e avvolgenti. Fiori vellutati e crudeli, estasi invitanti. Li sentivo inghiottire l'aria e assaporavo il loro nutrimento dall'esterno. Assaporavo ogni cosa, il ronzio sommesso di un girinide, le folate delle cimici spugnose. Assaporavo me stesso. Ero uno degli insetti che loro stavano mangiando, mi sentivo in estasi. Percepivo l'insetto attraverso i miei petali, era squisito. Assaporavo l'albero dalla cima fino alle radici. Assaporavo il terreno, fertile e scuro, l'aria fredda e la pioggia alcalina e tutti gli oli essenziali sulla mia pelle, sulla mia corteccia, sulle mie ali, sulle mie foglie. Assaporavo il variare del clima attraverso l'albero e assaporavo la foresta e la terra e il mondo intero fino all'oceano aperto. L'aria era arida di promesse. Stavo per esplodere. A ovest intravedevo la polvere rossa. Era salata. I veli serici del nord si stavano addolcendo. Fremevo a quel pensiero. Il terreno era dolce, fertile e pieno di cose putride e cose fresche e cose che si annidavano e diventavano calde. Cose rosse che crescevano dentro di me e altre, rosse, che scorrevano nelle mie vene, nelle mie gallerie, nelle mie arterie e nei miei cunicoli. Scorrevano, strisciavano e scivolavano su e giù dai miei rami, attraverso il reticolo delle vene, su, su fino all'atmosfera per poi discendere di nuovo. La cima dell'albero era alta. Il mondo sottostante aveva l'aspetto di un paesaggio rosa smagliante, guarnito di fiocchi di cotone e di fiori, punteggiato di volute e spirali di rami. Le tsughe che cingevano i confini del mondo si ergevano cremisi e nere, arancione e gialle. Si ergevano come un muro, si allungavano verso l'orizzonte sfumando in una foschia ocra. Si autodistruggerebbe prima di rinunciare al proprio patrimonio. In realtà, non potrebbe rinunciarvi. Si autodivorerebbe piuttosto che rinunciare. Se voleva anche solo sperare di arrivare in tribunale, mamma avrebbe dovuto prima disporre dello stesso software della Fondazione, il che significava che avrebbe dovuto spendere più dell'intero valore della Fondazione solo per mettersi in lista. E se anche fosse riuscita ad arrivare fino a questo punto, il software, in caso di necessità, avrebbe tenuto in sospeso il caso per migliaia di anni... tutto il tempo che occorreva per vincere la causa o per autodistruggersi. L'una o l'altra ipotesi, non aveva importanza quale... dipendeva da cosa succedeva prima. Se mamma avesse proprio voluto fare la cattiva, mi avrebbe citato in giudizio solo per impedirmi di accedere ai miei guadagni. Ma se lo avesse fatto, il software sarebbe stato abbastanza intelligente da approntare uno sbarramento di controdenunce per danni. Se mamma avesse scoperto che non poteva in alcun modo mettere le mani sui miei soldi - continuava il mio ragionamento - l'unica giustificazione che le sarebbe rimasta per insistere nella citazione, sarebbe stata quella di voler danneggiare le attività della fondazione. E in questo caso... Era questo l'aspetto più bello delle entità software. Si potevano creare i più interessanti mostri legali e lasciarli liberi di circolare nella società, dove avrebbero lanciato bombe per decenni a venire. Il Baby Cooper Dollar Bill, per esempio, non aveva più di cinquant'anni... e gli avvocati probabilmente avrebbero continuato a lottare contro quel fondo fino alla fine del secolo, e per quell'epoca il suo valore sarebbe stato superiore a quello dell'intero pianeta. Ecco in breve la storia: Nonno Cooper pensò di fare una cosa intelligente. Acquistò un fondo d'investimento del valore di un dollaro, dei proventi del quale sarebbe stato beneficiario il primogenito della sua unica figlia (che a quell'epoca aveva solo quattro anni) nel giorno del di lei o di lui ventunesimo compleanno. Poi Nonno Cooper morì, lasciando l'incarico a un'entità software (presto ribattezzata "fata madrina") di gestire il fondo senza l'intervento di alcun essere umano. L'entità software da principio investì il dollaro in contratti di manodopera cinese, sostituendoli con una speculazione nel settore ottico tre settimane prima dell'Accordo sul Pakistan, e poi in contratti a termine nel settore della micro-biotecnica diciotto giorni prima che la Apple annunciasse il progetto di sviluppo Pippin e così via. Nell'arco di quindici anni il Paperon de' Paperoni elettronico aveva portato i profitti annuali del Baby Cooper Dollar Bill a milioni di dollari. Be', cazzo, se non doveva fare altro che prevedere le tendenze al rialzo - al ritmo di sedici miliardi di operazioni neurologiche al secondo - chiunque sarebbe stato in grado di prendere qualche buona decisione. Poi Wilma Cooper dette alla luce due gemelli. Taglio cesareo. Il dottore sarebbe vissuto abbastanza a lungo da pentirsi del suo intervento. Mamma e papà Cooper, consapevoli della loro responsabilità e desiderosi di proteggere i loro bambini perché non gli accadesse niente di spiacevole, crearono degli "angeli custodi" che dovevano vegliare sui loro interessi. Questi "angeli custodi" erano entità software specializzate nel controllo e nella protezione di tutte le necessità legali e finanziarie dei due gemelli. Caso volle che papà Cooper perdesse la vita nell'incidente che lasciò mamma Cooper quadriplegica; vennero immediatamente attivati gli angeli custodi che in tre giorni presentarono un'enorme quantità di denunce per conto di un gemello in opposizione all'altro. L'angelo custode del gemello B citò il gemello A per ottenere anche l'altra metà del patrimonio, sostenendo che il gemello B sarebbe stato il primogenito se non fosse intervenuto il medico con il taglio cesareo. «Infatti non è possibile, ma a volte succede. Ti mettono in "cassa integrazione", ti trasferiscono, cioè, nel corpo di un vecchio che in quel momento non utilizzano o non sanno dove utilizzare, o non ne hanno bisogno e ti depositano là. Il tuo compito è quello di mantenerlo in funzione. Capito? Così si liberano di te.» «Comunque, eravamo arrivati a quella fase dell'addestramento in cui si cominciano a perdere molti compagni, ma nessuno ne spiega la ragione, e uno non può fare altro che continuare a chiedersi perché. Durante l'addestramento ho avuto un piccolo scontro con il capitano e lei ha minacciato di spedirmi in una colonia di lebbrosi... o in un posto altrettanto spiacevole. Non potevo sapere se avrebbe mantenuto la promessa. Quello poteva continuare a essere il mio corpo chissà per quanti anni ancora. Avevo già commesso un errore e non ne volevo commettere più. Ho quindi deciso di scoprire chi ero o chi stavo indossando, che è la stessa cosa. Sai, Jim, la nostra lingua è veramente inadeguata per parlare di queste cose.» «Te la cavi benissimo» dissi. «Vai avanti.» «Be'... era come essere tornato bambino. Sai, quando uno arriva a una certa età, in un preciso punto della vita, comincia a provare curiosità per il suo corpo e per quello che può fare. In parte questa curiosità ha a che fare col sesso, ma non solo. Si cominciano a esplorare tutte le fessure o i pertugi, e si scopre quali sensazioni si provano, quali sono le parti lisce e quelle pelose, si toccano i punti sensibili per scoprire la propria sensibilità. Per un certo periodo ci si masturba moltissimo. Bisogna farlo, fa parte del processo di appropriazione del corpo per capire come funziona. « E' anche uno dei punti dell'addestramento... si scambiano i corpi e si osserva se stesso dall'interno. Non puoi neanche immaginare quanto sia ridicolo vedere una stanza piena di uomini nudi seduti sul pavimento che giocano col loro corpo, si toccano le mani, le dita, gli alluci, e il resto... Sviluppare la propria sensibilità fa parte dell'addestramento. «Quella era la prima volta che mi trovavo a essere una donna, perciò decisi di seguire la procedura passo per passo, come se stessi consultando un manuale. Ero certo che in quel momento mi stavano mettendo alla prova, perciò ho cominciato a esplorare quel corpo come se avessi dovuto indossarlo per tutto il resto della mia vita. Ho scoperto tutto quello che era possibile scoprire su cosa significa essere una donna. Credo che chi è nato e cresciuto nel corpo di una donna troverebbe queste scoperte terribilmente banali, ma io ero molto eccitato. Mi sentivo come l'esploratore di un nuovo continente. E forse, in un certo senso, era proprio così. «Certo, ho ripetuto tutte quelle sciocchezze che ti propinano nei film. Mi sono pizzicato i capezzoli, ho palpato il seno, mi sono strofinato in mezzo alle cosce... lo sapevi che la parte interna delle cosce di una donna è particolarmente sensibile? La maggior parte degli uomini lo ignora. Ecco perché sono amanti così deludenti. Ci sono un sacco di cose che uno può imparare ascoltando il proprio corpo. « E' stato un pomeriggio indimenticabile, Jim. La mia identità sessuale è stata distrutta... e ricostruita. Ti rendi conto... prima, quando mi trovavo nel corpo di una donna ero solo un visitatore. Ora, invece, ero l'ospite! Ho deciso di fare tutto quello che avevo sempre desiderato, ma che l'educazione mi aveva sempre impedito di chiedere. Era come aver ricevuto in regalo un meraviglioso giocattolo con cui giocare. «Ho passato tutto il pomeriggio a giocare col mio corpo, Jim. E' stato stupendo. Grandioso. Poi ho scoperto che è quello che fanno tutti gli uomini quando si ritrovano per la prima volta all'interno del corpo di una donna. La curiosità è troppo forte. Le donne, invece, hanno la tendenza a essere più timide quando indossano un corpo maschile per la prima volta. Te lo puoi immaginare. E' stata un'esperienza straordinaria, Jim. Lo sapevi che il corpo di una donna non prova lo stesso tipo di orgasmo di un uomo? L'orgasmo femminile arriva a ondate che ti invadono, un'onda deliziosa dopo l'altra. E' stata un'esperienza incredibile. Ho fatto l'amore con me cinque volte di seguito. Sfilò la mano dalla mia e mi accarezzò il viso. «Ti conviene che sia così, perché altrimenti ti spezzerò una gamba.» «Me ne ricorderò.» Mi voltai verso il branco... troppa gente nuda. Il mio senso del pudore prese il sopravvento e decisi di non togliermi i calzoncini. Almeno per il momento. «Be'» dissi «sarà meglio che...» «Già» concordò. A un tratto mi gettò le braccia al collo. Il suo rossetto sapeva di rose, albicocche e sole. Mi scostai imbarazzato. Era stato un bacio un po' troppo appassionato. Mi voltai verso il branco. O adesso o mai più. Il branco era una massa di umanità brulicante. Erano talmente sporchi che riuscivo a sentire il loro odore anche da quella distanza. Mi avvicinai. L'erba scricchiolava sotto i miei passi. Sentivo il calore del sole sulla schiena e la gola secca. Mi fermai ai margini del branco e rimasi a osservarlo. Ancora non sapevo cosa stavo cercando. Un indizio, un suggerimento. Qualcosa che mi indicasse come comportarmi. Un gruppo di giovani torelli si metteva in mostra sul prato. Due di loro stavano facendo la lotta senza convinzione. Alcuni si voltarono a guardarmi. Avevo un nodo allo stomaco. Conoscevo già quella sensazione. Era come rivivere il primo giorno di asilo. La prima volta che avevo fatto la doccia nudo davanti ad altri ragazzi. La prima volta che ero stato con una ragazza. La prima volta che avevo visto un verme. Era quello che si prova a camminare in una stanza piena zeppa di gente sconosciuta che sta lì ferma a guardarti. No, era anche peggio, perché non sapevo se quelle che mi guardavano erano persone o bestie. Avevano l'aspetto di persone ma si comportavano come bestie. Come scimmie. Se mi fossi comportato come una scimmia, il giusto tipo di scimmia, forse mi avrebbero accettato tra loro. Dunque... dovevo provare a immedesimarmi in una scimmia. «Il fatto è» dissi a bassa voce «che nessuno qui intorno è disposto a darmi lezioni su come diventare una scimmia. E a quel punto mi resi conto che nessuno mi aveva mai insegnato a comportarmi da essere umano. Lo ero e basta. Aggirai i torelli che continuavano a lottare e mi diressi in un punto vuoto al centro della piazza dove c'era una grande vasca poco profonda. Era l'abbeveratoio. Alcuni bambini stavano giocando a spruzzarsi con l'acqua a un'estremità della vasca. Mi allontanai. Mi allontanai da tutti e mi lasciai cadere in ginocchio. Mi guardai intorno per vedere come bevevano le altre scimmie. Univano le mani a coppa o tuffavano il viso nell'acqua? No. Dovevo scoprirlo da solo. Infilai il viso nell'acqua e bevvi. Aveva un sapore orribile. Cloro? E cos'altro? Non sapevo dire. Ringraziai il cielo di essere stato vaccinato. Ma come si fa a comportarsi come una scimmia? Era lo stesso problema che avevo da sempre con quelli della mia stessa specie. Non sapevo mai come dovevo comportarmi. Le altre persone sembravano sempre sicure di sé. Io invece sapevo sempre di stare fingendo di essere quello che ero. Ora volevo smettere di fingere. Volevo semplicemente essere una persona. O una scimmia. O qualunque cosa mi capitasse di dover essere. Cosa provavano le scimmie per gli esseri umani? Le infastidiva che noi le studiassimo? Che le osservassimo? O ci sopportavano? Ci erano grate perché le nutrivamo? O non se ne accorgevano nemmeno? Desideravano che ci unissimo a loro? O ci lasciavano stare lì solo perché non sapevano come mandarci via? E se invece non c'era proprio niente di cui far parte? Cominciai a ridacchiare. Non sarebbe stato buffo se tutte quelle persone avessero solo finto di comportarsi da scimmie, proprio come stavo facendo io? Non sarebbe stato buffo scoprire che stavamo tutti facendo finta? Mi tennero sveglio tutta la notte a parlare. Mi riempirono di caffè... qualcuno ne aveva trovato un po' di quello vero. Io avevo minacciato di chiudermi come un'ostrica se mi avessero dato un'altra tazza di surrogato e loro preferirono che andassi avanti a parlare. Continuavo a implorare Fletcher di lasciarmi andare a dormire, ma lei continuava a dire: «Non ancora. Resta ancora un po'». «Perché, cosa stai aspettando?» Mi accorsi che piagnucolavo. Non l'avevo più fatto da quando avevo cinque anni. Alla fine ammise: «Vogliamo essere sicuri che quando ti sveglierai sarai completamente in te. Abbiamo bisogno di sapere che il tuo cervello reagisce di nuovo agli stimoli del linguaggio. Quando dormi non usi il linguaggio e noi vogliamo essere sicuri che domani mattina tu sia in grado di recuperarlo». «Starò... benissimo» dissi. «Credo che ora puoi fidarti di me.» «Saresti disposto a scommetterci la vita?» «Cosa?» «Nel caso che domani mattina, quando ti sveglierai, tu non sia in tutto e per tutto un essere umano, possiamo ucciderti?» «Ripeti quello che hai detto.» «Ho detto: nel caso che domani mattina, quando ti sveglierai, tu non sia in tutto e per tutto un essere umano, possiamo ucciderti? Sei disposto ad accettare il rischio?» «Ehm...» sollevai la tazza. «Posso avere ancora del caffè?» Fletcher sorrise e prese la tazza. «Sei davvero a posto.» Comunque, mi riempì di nuovo la tazza. «Stavamo pensando di metterti accanto una radio accesa, col volume abbassato... ma a questo proposito ci sono due scuole di pensiero. Secondo la prima, la radio ti aiuterebbe a sintonizzarti sul linguaggio. La seconda, invece, afferma che il suono della radio non sarebbe altro che un ulteriore balbettio in sottofondo e ti incoraggerebbe a rifiutarlo di nuovo.» Sospirò. «In ultima analisi... la decisione tocca a te. Sei tu che devi scegliere.» Mi girò la faccia perché la guardassi. «Hai capito? Lo so che vuoi tornare là, ma devi riuscire a resistere all'attrazione. Pensi di farcela... di volerlo?» Abbassai gli occhi. Non riuscivo a sostenere il suo sguardo penetrante, avrei voluto sfuggirlo. «Penso di farcela» dissi e la guardai di sotto in su. «Cercherò.» «Non devi cercare, devi farcela.» Mi prese per il mento e mi fece voltare di nuovo verso di lei. «Non voglio perderti, hai capito?» Annuii. Mi sembrava che le parole avessero così poco senso... ma erano soprattutto parole che lei voleva da me. Mi sentivo in trappola. «Vuoi che ti dia un aiuto?» «Che tipo di aiuto?» «Un trucchetto. Usa il tuo nome come mantra. Mentre ti addormenti ripeti cantilenando il tuo nome... io sono James Edward McCarthy, io sono James Edward McCarthy, io sono James...» «Perché? A che serve?» «Ti servirà a inserire nella tua coscienza delle informazioni che domani mattina ti aiuteranno a rientrare nella realtà. Vedrai che ogni giorno che passa sarà più facile. Lo farai?» «Sì» dissi. «Mi sentirò un po' sciocco, ma lo farò.» «Bene.» Si chinò verso di me e mi baciò sulla fronte. «Adesso ti lascio dormire.» Mentre sprofondavo nel sonno, mi accorsi di stare abbracciato a un cuscino. Mi domandai di chi sentissi la mancanza. Con chi avevo dormito abbracciato nel branco? Ricordavo la curva di una schiena e il contatto di un'epidermide. Occhi liquidi. Mi mancava... Mi svegliai con un acuto senso di perdita e mi ritrovai in uno strano posto tutto bianco, vestito con un ruvido camice bianco. E... «James Edward McCarthy!» dissi. «Mi chiamo James Edward McCarthy!» Mi misi a ridere. Funzionava. In bagno trovai una tuta. Le onnipresenti tute dell'esercito. Andava benissimo per quello che dovevo fare. Per prima cosa dovevo far sapere a Fletcher che ero tornato in me. Secondo, dovevo preparare una danza. "La vita non va mai così male da non poter andare anche peggio." Solomon Short. Restammo a guardare dall'alto. Era uno spettacolo orribile. Non potevamo fare altro che guardare, fotografare e inorridire. Se fosse stata una frenesia famelica, avrebbe avuto un senso... sarebbe stata comprensibile. Si sarebbe trattato di un branco di squali. Ma quello che stava succedendo non era frenesia. Tutto si svolgeva nella calma più assoluta ed era premeditato. I canconigli non erano affatto spaventati e continuavano a strigliare e ad accarezzare i vermi. Cercavano persino di accoppiarsi con quegli esseri giganteschi... uno di loro era seduto a gambe all'aria contro il fianco di un verme e cercava di stuzzicarlo, mentre quello divorava uno dei canconigli più piccoli che non lottava nemmeno. «Sembrano drogati» disse Fletcher. «Non sono drogati» dissi. Lo sapevo bene. Lizard stava caricando le armi. «Ora li brucio disse.» «No, non farlo...» le afferrai un braccio. Lei si liberò della mia stretta, ma non sparò. Disse qualcosa al microfono della cuffia e gli altri due elicotteri si allontanarono lasciandoci soli a sorvolare quell'inferno. «Allora, Jim, cosa c'è?» mi chiese. «Ci siamo sbagliati» dissi. «Completamente sbagliati.» Fletcher si voltò a guardarmi, era pallidissima. Annuii e continuai: «Siamo così attaccati ai nostri schemi mentali che, anche quando tentiamo di sperimentare un nuovo campo di percezione, commettiamo degli errori... scusami Fletch. Sbagliavamo nel credere che quelle creature fossero diverse da come sembravano. Non è così. Sono proprio come sembrano.» Distolsi lo sguardo dalla carneficina che si svolgeva sotto di noi, non potevo sopportare quella vista un momento di più. «Ma... tutte le tecniche di avvicinamento hanno funzionato» insisteva Fletcher. «Hai ballato con loro!» Povera Fletcher, continuava a non capire. «No, non hanno funzionato, magari lo avessero fatto.» Scossi la testa. La prova di quello che affermavo stava morendo proprio in quel momento sotto di noi. «I vermi se ne fregano. Anche i canconigli. Per loro non contiamo niente.» «E quel canto?» chiese Lizard. «Quello è la cosa peggiore. Il canto è... è un...» non trovavo le parole. « E' il modo in cui il cibo annuncia di essere pronto in tavola.» «Oh, mio Dio!» disse Fletcher. «Il branco...» «Già, il branco.» Il solo pensiero mi faceva star male. «Qualunque cosa stia succedendo alla razza umana, il branco è una delle ipotesi possibili per il nostro futuro. Veniamo addestrati o mutati o trasformati in... un pasto senza complicazioni.» Faticavo persino a pronunciare le parole. «E in cambio i vermi ci garantiscono la sopravvivenza della nostra specie. C'è questo alla base del loro rapporto con i canconigli. E' lo stesso tipo di accordo che esiste tra noi e il bestiame, i polli e le pecore.» «Che vadano a farsi fottere» disse Lizard. «Non sarò mai una pecora.» Istintivamente toccò di nuovo la sua arma. Non potevo biasimarla. Sotto di noi i vermi continuavano il loro pasto. Nonostante tutto non potevo fare a meno di guardare. I vermi più grandi avevano mangiato un gran numero di canconigli, quelli più piccoli solo due o tre. Una questione di rango? O di appetito? Quante cose ci restavano ancora da scoprire. I canconigli si stavano allontanando dai vermi e si raggruppavano di nuovo fra loro. Erano tornati in sé e sembravano... felici. «No» disse Fletcher. «Stai tirando a indovinare.» «Vuoi tornare giù a discuterne con loro?» «Non puoi saperlo, Jim. Quello è solo un... pasto frenetico, ecco tutto...» Ma non ci credeva nemmeno lei. «Sì, è un pasto frenetico...» dissi «ma è il cibo a essere frenetico. I canconigli sono storditi da un eccesso di venerazione per i vermi. Per loro è un onore essere mangiati... loro amano i vermi.» Lizard distolse lo sguardo dal quadro di comando e mi fulminò con un'occhiata. «Come fai a saperlo, Jim?» Alzai le spalle colto alla sprovvista. «Non so come faccio a saperlo, ma lo so. Lo... sento.» «Guarda » disse Fletcher.