/<1994>/ «Lo ricordo bene» disse la ragazza carina che avevo appena incontrato, guardandomi con un sorriso timido. «Eravamo nella stessa classe a scuola, quando eravamo bambini. Era gentile, tranquillo, e diverso. Fui tristissima quando morì.» Gli occhi al buio sembravano umidi, o era un'illusione della luce di candela? «Nascondeva sempre camaleonti nel suo banco.» «Pep, guarda cos'ho trovato!» Emanuele era arrivato di corsa, trionfante, con una specie di drago verdastro abbarbicato ai capelli dritti e biondi. Trattenni il fiato. Con estrema delicatezza Emanuele districò quell'essere dalla sua testa, e me lo porse per mostrarmelo. Era un brutto «affare», pelle rugosa ricoperta di vescicole aride, tre escrescenze sul muso come creste o corni di rinoceronte, e una larga bocca sdentata da rana, piuttosto rivoltante. Indietreggiai. Era un pomeriggio di marzo a Nairobi, dopo uno dei primi scrosci delle Lunghe piogge, che lasciano un odore intenso di terra bagnata e di paglia umida, e sono seguiti da un sole violento che asciuga immediatamente le gocce intrappolate fra l'erba. Mi guardò con quegli occhi profondi di velluto bruno, oscurati da sconosciute malinconie più antiche dei suoi anni. « E' un camaleonte di Jackson, Pep» mi disse orgogliosamente. «L'ho trovato nei cespugli di bambù.» Lo guardò con ammirazione. «Non è bellissimo? Non ti sembra che assomigli a un triceratopo? Posso tenerlo? Si chiama King Alfred.» King Alfred il Grande fu il re britannico che si batté con i danesi e li vinse. Nel libro di storia di Emanuele questi indossavano i cornuti elmi dei leggendari vichinghi, e a tale inconscia associazione immagino sia dovuto il nome regale del suo primo camaleonte. Annuii debolmente. Un lampo di trionfo per un istante gli illuminò gli occhi. Nacque così il suo amore per i rettili, la sua passione per i camaleonti, e la straordinaria capacità di trovarne, dovunque si andasse. Emanuele era un collezionista nato. Fin da piccolissimo aveva raccolto minerali, figurine di animali, conchiglie. Più avanti i serpenti sarebbero divenuti la sua passione irresistibile. I camaleonti furono i primi rettili che possedette ufficialmente. Non sapevo ancora che con quel primo camaleonte eravamo entrati in una nuova era, e che non vi sarebbe stato più ritorno. Pochi anni dopo vi sarebbero stati serpenti veri, fino al culmine del suo destino. Aveva sei anni. In breve ci affezionammo tutti a King Alfred. Somigliava davvero a un gigantesco rettile erbivoro munito di corna che era esistito nel cretaceo, come appresi da una delle enciclopedie di Emanuele che avevo consultato per documentarmi. I dinosauri avevano fatto il loro ingresso a casa nostra quando mio padre, durante le sue peregrinazioni, ne aveva scoperto un grande giacimento fossile nel letto di un fiume scomparso nel deserto del Teneré. Una foto in bianco e nero di Emanuele a quattro anni, in punta di piedi per toccare il mostruoso scheletro di un diplodoco, apparve in un libro in cui mio padre narrò quell'avventura. Al contrario di me, Emanuele sapeva tutto sui dinosauri, il loro aspetto, nomi e abitudini, e senza dubbio c'era una forte similarità tra l'originale triceratopo e il suo enigmatico discendente che venne a vivere con noi. I camaleonti sono creature con una spiccata individualità, abitudinari, precisi, ed era facile capire come un bambino curioso, interessato agli animali e alla loro vita, potesse essere affascinato da questi amichevoli piccoli mostri. Durante il giorno, King Alfred viveva in una scatola piena di rami e foglie, e fu nutrito di insetti che Emanuele catturava a scuola in ogni momento libero e conservava in un vecchio barattolo della marmellata. Spesso però lo portava di nascosto con sé in una scatolina di cartone forata, e negli intervalli delle lezioni lo lasciava arrampicare sui rami dei cespugli bassi, e stava a osservare la caccia, rapito. King Alfred era lungo una decina di centimetri; le quattro zampe terminavano in «mani» a forma di pinza, ognuna con dita disposte ad angoli opposti per consentire una presa saldissima fin sui più esili rami, nei più precari equilibri. La coda arricciata, da serpe, costituiva un ulteriore appiglio, attorcigliandosi svelta sulle asperità degli arbusti. King Alfred possedeva lo stesso sorprendente senso dell'equilibrio che consente alle scimmie di tuffarsi nel vuoto dai rami più alti della foresta. Ma la più strana caratteristica, che sbalordisce in tutti i camaleonti, erano gli occhi: indipendenti l'uno dall'altro, coperti di fitte membrane, con un solo foro centrale in corrispondenza dell'iride, che gli permette di mettere a fuoco un ristretto campo visivo e consente alla lingua a molla, vischiosa, un'eccezionale infallibilità nella mira. L'insetto ignaro dondolava sullo stelo; la lingua scattava così rapida che l'orrore della scena si prolungava ben oltre la scomparsa della cavalletta incauta nella bocca cavernosa. Un giovane guerriero che aveva già guadagnato, negli anni delle libere scorrerie, abbastanza vacche da potersi permettere una moglie, le aveva fatto dono di una catenella; i genitori allora si erano messi ad attendere il «fidanzato» e lui era giunto portando in regalo del miele che le ragazze del suo stesso gruppo ed età, quelle circoncise nel suo stesso anno e perciò per sempre sue sorelle, avevano mescolato con del latte e bevuto insieme. Grandi quantità di miele erano poi state portate dal futuro sposo, fatte fermentare e distillate in un forte liquore che i vecchi del clan avevano bevuto in gran tripudio: a questo punto il giovane guerriero era stato chiamato e gli avevano comunicato che la sua richiesta era stata accolta, e nessun altro poteva ora intromettersi e reclamare la ragazza, perché i suoi doni rituali erano stati accettati. Il giorno delle nozze lo sposo aveva portato per la ragazza due vitelli e un toro, dello stesso colore candido. Dovevano essere sani e giovani, grassi e vigorosi, senza cicatrici sulle lisce pelli tiepide e lustre di sole. La vecchia madre ricevette un agnello, il padre un vitello e pelli di pecora conciate per confezionare il vestito da sposa. Un montone e due pecore vennero aggiunti all'offerta. Lo sfortunato montone venne subito sgozzato e il suo grasso usato come unguento. Nel giorno stabilito, dopo che un torrido sole s'era alzato come un doblone incandescente nel cielo immobile, color indaco, di ogni alba africana, le vecchie donne erano venute. Avevano asperso la ragazza di quel liquore di miele e con l'aiuto della madre, fiera dei nuovi monili che aveva ricevuto anche lei come segno di gratitudine, avevano sistemato gli ornamenti di ottone, con un laborioso rituale, all'orecchio e alla gamba destra. Ascoltavo affascinata. Il sole era già caldo e il frinire delle cicale assordante e asciutto come un suono di stecchi battuti insieme da mille mani nascoste. La donna alta e magra sbadigliò. Capii che per il momento la storia era finita. Si guardò intorno, e i suoi occhi si fissarono su una saponetta verde, appoggiata a un sasso, con cui Paolo si era risciacquato le mani. Vi accennò, indicandola con un gesto subitaneo del mento acuto; e per enfatizzare la sua richiesta si strofinò il dorso della mano sul naso e aspirò a fondo con un'espressione d'intensa beatitudine. Gliela porsi; e cominciò a lisciarla sulla pelle asciutta come se fosse una crema, con mugolii di piacere. Le mosche imperterrite volarono via dalle palpebre irrequiete per riposarvisi subito dopo. Le chiesi quanti figli avesse. Dopo averci pensato un poco aprì tre dita, ma battendosi la mano sulla pancia a grandi colpi, alluse all'altro non nato ancora lì dentro. Mi sorprese la sua magrezza. Mi disse allora che i Masai stavano attenti che le madri incinte non ingrassassero troppo, poiché questo era considerato dannoso per il bambino. Avevano però il privilegio di mangiare anche carne, un lusso inaudito per questa tribù che si nutre solo di latte cagliato con il sangue e l'urina dei bovini. Tradizionalmente essi si cibano solo della carne catturata in razzie, mai sacrificano la propria mandria. Si alzò. Mi soppesò con lo sguardo franco e spavaldo, e mi chiese di colpo, curiosa, quante vacche e vitelli avesse pagato per me il mio bwana ai miei genitori. Un po' umiliata, cercai di spiegare che noi, nella terra chiamata Ulaia, seguivamo altri desturi. Desturi significa usanza in kiswahili, ed è una parola magica per dipanare l'impossibile. Le usanze sono sacre, indiscutibili, accettate all'istante senza domande. Spesso, invocare il mio desturi mi aveva salvata da situazioni e spiegazioni imbarazzanti. Era chiaro che lei considerava questo particolare desturi poco dignitoso; per un momento lo parve anche a me. Non commentò. Alzò solo una spalla, impercettibilmente, come a scrollare via questa incomprensibile avarizia. Con un tintinnio di bracciali si levò in piedi, nella sua altezza vertiginosa, leggera e senza lasciare impronte sulla polvere dove ci eravamo accoccolate insieme. Con naturalezza scostò l'abito di pelle che come un peplo le avvolgeva il petto, ed espose due seni flaccidi, ma gonfi, a forma di oblunghe sacche ricolme. Con il pollice e l'indice ne sollevò uno e lo strizzò con il gesto avvolgente di chi munge: uno spruzzo opalino, lunghissimo di latte passò davanti al mio naso, finendo tra gli sterpi con un rumore secco; con un cenno imperioso della mano mi invitò a fare altrettanto, ma prima che confessassi la mia mortificata impotenza, capendo al volo, si rizzò, e nei suoi occhi colsi un lampo arguto di canzonatura. Si allontanò tra i cespugli di lelechwa, senza dir grazie, come era venuta. Più di tutto gli piaceva andare alla ricerca di marlin, pesci leggendari, ed era imbattibile nell'individuare i banchi di sardine che venivano segnalati all'orizzonte luccicante dal frullare d'ali degli stormi di gabbiani che se ne cibavano. Queste erano regolarmente inseguite da tonni o bonito affamati, a loro volta inseguiti da pesci vela o marlin. Ben conosceva i segreti delle maree e le abitudini dei pesci, come i tracciatori degli altipiani conoscevano la selvaggina a cui davano la caccia. Lo associavo sempre a Luka, quell'inimitabile cacciatore tharaka che accompagnava Paolo in innumerevoli avventure, sapeva pensare come i bufali e riusciva trovarli nel fitto della boscaglia solo ascoltando l'uccello delle zecche, o solo, mi sembrava, fiutando l'aria con le sue narici larghe. Avevano la medesima sicurezza di sé, che veniva loro dall'essere completamente padroni del proprio mestiere e dalla perfetta conoscenza del proprio ambiente, l'oceano Indiano e la savana degli altipiani. Ognuno a suo modo, credevano entrambi che la loro presenza fosse - e probabilmente lo era davvero - indispensabile a ogni spedizione di pesca o di caccia di Paolo. La casa dove stavamo a Kilifi apparteneva a un nostro amico italiano che viveva in una hacienda in Argentina, e che l'aveva abitata una volta sola in dieci anni, da quando era stata costruita. Con generosità latina ce ne aveva concesso l'uso illimitato, e la consideravamo la nostra casa sulla Costa. Il giardino era una profusione aggrovigliata di buganvillee e solanum, con alcune palme e il più magnifico dei baobab, un gigante di proporzioni armoniose, con cui provavo una grande affinità. Gli attribuivo un'anima, e un'anima che amavo. Passavo molto tempo ogni giorno seduta con la schiena appoggiata al suo tronco, seguendo i miei pensieri, scrivendo il mio diario, aspettando che Paolo ed Emanuele tornassero dalla pesca. Erano momenti di pace assoluta in cui riuscivo a catturare qualche intuizione e a trattenere qualche verso di passaggio prima che volasse via con il vento. Come per Ulisse in altri mari e da sempre per tutti i naviganti, c'era spesso per Paolo ed Ema un'avventura da raccontare: la cernia gigante arpionata con Lorenzo Ricciardi; i delfini che si erano uniti alla loro barca in una danza dell'oceano; il pesce-vela che era fuggito insieme all'esca; l'upupa che era volata da chissà dove ed era atterrata sulla testa di Paolo. Una mattina di gennaio, Paolo, con suo fratello e un amico, era andato a pescare i cole-cole a Vuma. Erano ancora i tempi della sua passione per la pesca subacquea, prima che la pesca d'altura prendesse completamente il sopravvento. Senza bombole, solo con la maschera e il boccaglio, si tuffava sicuro verso il fondo e io temevo che i suoi polmoni sarebbero scoppiati; ma risaliva sempre, dopo secoli - mi pareva -, senza neanche ansimare, con un pesce infilzato sull'arpione e uno sguardo blu di trionfo sul viso abbronzato. Ben non era potuto andare quel giorno. Era venuto presto alla mattina ad annunciare che nella notte era nato un altro dei suoi figli; un altro maschio per la sua giovane, dolce moglie swahili, e per i musulmani questo era un fatto serio, motivo di grandi festeggiamenti e cerimonie. Dal momento che non poteva andare anche lui, consigliò che stessero a casa tutti, o che venissero con me al vecchio porto di Mombasa a fare spese, come era stato deciso. Ben detestava quando non poteva per qualche motivo andare a pescare con Paolo e faceva sempre in modo che tutti sapessero della sua disapprovazione, come se la sua presenza fosse essenziale al successo di ogni avventura, e in sua assenza pericoli sconosciuti si sarebbero accaniti di sicuro sulla barca e i suoi occupanti. Parlava spesso dei capricciosi jins, i genietti che volano con i venti marini e portano confusione con i loro scherzi creando caos tra gli incauti, i disattenti e gli infedeli. Ricordava episodi in cui, secondo lui, la sua sola presenza aveva esorcizzato i pericoli: la barca non si era capovolta, tre marlin erano stati catturati uno dopo l'altro, e loro, unici, erano riusciti a pescare abbastanza esca e a trovare i tonni dalle pinne gialle in agosto, quando i pescatori che la sanno lunga non escono mai troppo fuori della barriera corallina a tentare il destino, perché il monsone soffia con una tale rabbia che perfino i pesci sembrano scomparsi e solo restano le seppie degli abissi, e le aragoste che non hanno anima. Senza curarsi delle sue predizioni di disastri, Paolo e i suoi compagni partirono allegramente, e lo lasciarono lì fermo sulla soglia a scuotere la testa in segno di disapprovazione mormorando tra sé e sé. Quando decidemmo di costruire la casa, Paolo chiamò i fundi, e uscii a incontrarli. «Ecco Arap Langat» mi disse, e mi trovai a guardare dentro occhi chiari, grigi, saggi, che non sbattevano le palpebre. Langat era basso di statura e grassoccio; i capelli erano corti e bianchissimi, la sua faccia color carbone era rotonda, con un piccolo naso e zigomi alti, denti regolari non macchiati dall'età né dal tabacco da masticare. I lobi delle orecchie erano dilatati - com'è l'usanza dei Nandi - e pendevano ai lati della sua testa fino a toccare le spalle. Quello che mi colpì di più di lui, a parte i suoi occhi imperturbabili che guardavano dritti e acuti dentro i miei, fu l'aria dignitosa, la sicurezza di sé e la compostezza che irradiava la sua persona. Imparai in seguito che derivavano dalla consapevolezza della sua competenza e versatilità nel proprio lavoro, in cui eccelleva e di cui era fiero. Nguare e Lwokwolognei erano i suoi assistenti. Nguare era un Kikuyu di mezz'età, esperto di falegnameria. Il suo nome - non troppo appropriato poiché era un tipo quieto, lento e serio che strascicava i piedi, e di solito andava in giro appesantito da abiti fuori misura - era l'equivalente swahili di francolino, un uccello vivace e sempre saltellante, che si tuffava velocissimo nei cespugli ai lati della strada. Aveva la faccia di un colorito chiaro, bruno giallastro, in gran contrasto con il nero inchiostro di Langat e Lwokwolognei. Lentissimo e preciso nel suo lavoro, Nguare aveva la particolare abitudine di ripetere sempre l'ultima parola di una frase. Spesso ho trovato in un africano una fisionomia stranamente simile - a parte il colore della pelle - a quella di un conoscente europeo. Nguare era la versione nera, praticamente identica, di un lontano amico veneto, Alvise, e la sua faccia sorridente non mancava mai di ricordarmi quell'altra, ora circondata, nella vaghezza della memoria, dalle brume fumose della laguna. Il trio era completato da Lwokwolognei: costui era più giovane e ancora un apprendista a quell'epoca, e aveva la magrezza vertiginosa tipica dei Turkana. Aveva un viso magro e lustro, dove l'unico occhio brillava di una doppia luce vividissima, quasi a compensare quella dell'altro, perduto non seppi mai come. La palpebra perennemente chiusa sull'orbita vuota gli dava, quando era di profilo, l'aria malinconica dell'uccello-segretario. Lwokwolognei faceva un po' di tutto, dal muratore al falegname, ma la sua vera passione era la scultura, in cui eccelleva, dimostrando in questa una fantasia e un senso artistico davvero rari. Aveva una moglie giovane e vivace di nome Mary, industriosa e abilissima a ricamare pelli di capra con disegni intricati e fantasiosi di perline di vetro e conchiglie; ma un giorno morì di parto, e Lwokwolognei non sorrise quasi più da quella volta. Ci eravamo trasferiti in Kenya dall'Italia di recente, e avevamo appena comprato questa grande proprietà terriera situata sugli altipiani, sull'orlo della grande Rift Valley. Erano i primi tempi a Laikipia; ogni cosa doveva ancora essere imparata, creata, e stavamo ancora cercando di dare una consistenza fisica alle forme dei nostri sogni. Costruire la nostra casa era uno dei primi passi, e dal momento che Paolo allora aveva tantissime altre cose di cui occuparsi, il compito di decidere di cosa avevamo bisogno e di seguire la costruzione spettava a me. Mi guardai intorno e trovai gli oggetti che la natura aveva creato e abbandonato, come un generoso e capriccioso artista, alla nostra gioia di scoprirli. Amavo usare questi materiali locali, pietre raccolte dal fiume e massi scavati dalle colline, tronchi di cedro rosso segati nella foresta, o ceppi di vecchi olivi contorti, sbiaditi da generazioni di soli e scolpiti in forme fantastiche dall'insuperabile arte dei fortissimi venti. Langat sapeva quello che poteva ottenere, ed era in grado di mettere in pratica le mie idee architettoniche: lasciava che la sua istintiva, dormiente fantasia tribale prevalesse sulle stereotipate nozioni di costruzione di tipo europeo che gli erano state inculcate nei tempi del suo apprendistato. Questa combinazione di ispirata intuizione e di tecniche acquisite era la radice della sua eccellenza. Non sbagliava mai, sceglieva esattamente ciò che volevo: e dopo i primi tempi, quando andavamo in giro in macchina insieme alla ricerca di una speciale forma in una roccia o nella venatura di un albero, e gli facevo vedere quello che pensavo sarebbe stato l'ideale, diventò bravissimo a interpretare alla perfezione questa nuova stravaganza europea: il desiderio di preferire rozze pietre al cemento liscio e semplice, vecchi tronchi di mutamayo dimenticati dalle termiti - o troppo duri da divorare anche per loro - alle assi di legno della segheria, fronde intrecciate d'erba o di palma, che ancora sapevano di venti e di savana, alla lamiera luccicante che rovina le pianure africane di oggi. Emanuele era morto solo da pochi mesi, e ancora indugiava la pena della sua assenza, avvolgendomi in ondate di solitudine e di nostalgia. Soffrivo in quel periodo di un problema al setto nasale dovuto alla polvere, e quando lui arrivò avevo ancora un fortissimo mal di testa. Mi dette un'occhiata, poi, con un mezzo sorriso, si ficcò la mano in tasca e ne estrasse uno strano oggetto che mi fece dondolare davanti agli occhi. Era un cono di ottone, lucidissimo per l'uso, legato a un pezzo di sagola. Dovevo essergli sembrata stupita. «Sai cos'è?» mi chiese. « E' un pendolo. Può essere utilizzato per un sacco di cose. Soprattutto per guarire, ma anche per cercare qualcosa che hai perduto, una risposta a un problema, ed è usato dai rabdomanti. Posso provare a curarti. Poi forse potrei insegnarti a trovare l'acqua.» Ero molto incuriosita. Tenne il pendolo sospeso davanti alla mia testa con mano ferma, ed ecco che in pochi minuti cominciò a ruotare, lentamente dapprima, poi sempre più velocemente fin quasi a scomparire in un vortice. Solo a guardarlo mi girava la testa, ma poi il dolore alla fronte sembrò stranamente alleviarsi, e in pochi minuti mi sentii molto meglio. Ero veramente stupefatta. Suggerì di provare qualche altra volta, nei due o tre giorni seguenti, e dopo questi ero completamente guarita. «Vorrei poter riuscire a fare altrettanto. Dev'essere fantastico aiutare la gente in un modo così semplice.» «Molto probabilmente puoi» mi disse seriamente. «La maggioranza di noi ha questa capacità; basterebbe che la sviluppassimo. Nel frattempo andiamo a vedere se riusciamo a trovare l'acqua. Vedremo.» In quel periodo stavo cercando di interessarmi al lavoro del ranch e della farm, e avevo bisogno di identificare alcuni luoghi dove scavare dei pozzi artesiani. Il suo aiuto inaspettato fu più che benvenuto. Come farmer era ferratissimo su raccolti e bestiame, e molto interessato alle nostre attività a Ol Ari Nyiro. C'erano una calma e una profondità nel suo carattere che mi facevano bene, ed era eccitante fargli conoscere il ranch e cercare le zone giuste per i pozzi. Lasciavamo la macchina e procedevamo a piedi, e quando raggiungevamo un punto che ci pareva adatto, tenevamo sospeso il pendolo davanti a noi senza muoverci, aspettando che cominciasse a girare da solo. Spesso non succedeva niente, ma talvolta la reazione era così forte che ero colta di sorpresa. In questo caso riprovavamo con un bastoncino ricavato da un arbusto fresco. E la prima volta che cominciò a vibrare quasi saltando via dalle mie mani contratte, e poi puntò con forza verso il suolo, la reazione fu così inaspettata e io così eccitata, che quasi lo feci cadere. Era come affacciarsi su un mondo diverso, dove le forze sconosciute della terra che avevano guidato le passate generazioni si rivelavano al tempo stesso in tutta la loro semplicità e straordinaria forza naturale. Ero un'allieva entusiasta; i giorni volarono e fui dispiaciuta quando arrivò il momento in cui il mio amico dovette partire. Prima di salire in macchina tolse il pendolo dalla tasca. «Vorrei che lo tenessi tu» mi disse guardandomi seriamente. «Ma devi promettermi che lo userai. Hai questo potere ed è tuo dovere esercitarlo.» Protestai. Sapevo che cosa quel pendolo significasse per lui, e potevo vedere che esisteva tra loro una specie di intimo e personale legame, come c'è forse tra una strega e il suo gatto nero, o tra una fata e la sua bacchetta magica. Ma me lo mise fermamente in mano, e, prima che potessi reagire, era partito. Usai il pendolo di tanto in tanto con il passare del tempo, soprattutto con Sveva quando era ammalata, e una volta o due con mia madre e qualche amico. La maggioranza di loro sembrava provare un certo sollievo, e non riuscii mai a capire veramente quale parte giocasse la suggestione nell'influenzare le reazioni di ognuno. Quelli che lo conoscevano notavano che era davvero straordinario che si fosse privato del pendolo per me, perché era risaputo il valore che gli attribuiva, e io ero fiera e grata di essere stata prescelta. Decidemmo di sacrificare una delle canne da pesca che Hugh aveva ricavato da un lungo ramo sottile, abbastanza ruvida da permettere al serpentello di strisciarci sopra. L'infilammo inclinata nel buco, e, dopo avervi girato intorno un paio di volte, la biscia cominciò a scivolarvi su lentamente, verso il sole e la libertà. «A Emanuele»: la vocetta di Sveva dette parole ai miei pensieri. «Per Emanuele» Hugh e io ripetemmo. Il ricordo della perduta risata del mio ragazzo echeggiò ancora lungo gli alti massi grigi. Aveva amato i serpenti d'erba verde. Fu ben presto evidente che Sveva con le sue gambe corte e grassocce non ce l'avrebbe fatta ad arrampicarsi lungo la seconda sezione di massi più grandi che portava alla piattaforma di roccia meta di Hugh, e che in realtà non offriva nemmeno a noi un appiglio sicuro. Il sole stava completando il suo arco nel cielo. I rumori della notte cominciavano a infiltrarsi attraverso i suoni del giorno. Hugh decise di scendere, e girare intorno alla base del Picco, dal cui retro l'approccio era più facile. Ripercorremmo in auto le nostre tracce, e a un certo punto lasciammo il sentiero battuto tagliando attraverso la boscaglia per un bel pezzo nella direzione del Picco. Parcheggiammo la macchina in uno spiazzo nella savana, vicino a un gruppo di acacie. Hugh prese una borraccia d'acqua, lasciò accesi i fari, e procedemmo a piedi. Il sole stava velocemente avvicinandosi a una catena scura di colline. Presto sarebbe stato buio e dovevamo affrettarci. Fidandomi della conoscenza che supponevo Hugh avesse del posto non mi venne in mente di prendere dei punti di riferimento. L'erba gialla e secca era alta, il terreno era sabbioso, pianeggiante, con cespugli sparsi. Non era facile lasciare tracce visibili. Lo seguimmo attraverso stretti sentieri tracciati dagli animali, cercando di stargli dietro attraverso la fitta vegetazione che impediva di vedere avanti, e formava corridoi di cespugli spinosi in salita che si stagliavano scuri contro il cielo. Finalmente raggiungemmo il retro del Picco e ci arrampicammo. La vista era mozzafiato. Orizzonti infiniti di crateri e di kopijes, di catene di colline che sfumavano nei blu e rosa del tramonto fino al monte Kenya dalla cui cima, avvolta in nembi lilla, la luna stava per levarsi, annunciata da una luminescenza perlacea e dagli orli argentei delle nubi. Alle nostre spalle, il sole stava tramontando dietro le montagne. Ma sopra di noi, le nuvole si andavano accumulando in fretta, nascondendo la luna nascente. Il vento si era placato. Le nuvole erano lì per restare. Esprimemmo disappunto. Speravamo ancora che il cielo si schiarisse. Chiacchierammo, bevemmo dell'acqua, cantammo una canzone, e di colpo fu buio. I babbuini stavano urlando i loro buonanotte dalle rupi su cui si rifugiavano a dormire: buonanotte allarmati perché lì vicino si sentiva il verso ritmico, roco e inconfondibile, del leopardo. Ci rendemmo conto ben presto che la luna quella notte non sarebbe apparsa per ore. Se fossi stata sola non avrei esitato e avrei dormito lì, sicura su quella superficie tiepida di pietra. Ma Sveva era stanca e non eravamo organizzati per lei, presto avrebbe avuto fame e avrebbe potuto piovere da un momento all'altro. Scendemmo dalla piattaforma per la stessa via che avevamo percorso per salire, a tastoni ora, e atterrammo nella fitta boscaglia. Cercammo di ritrovare la strada, e fu un errore. Avevo una torcia tascabile, ma la sua luce limitata, che assorbiva e distorceva le forme, rendeva più scura, più vasta e indistinta la notte che ci circondava. Ogni arbusto sembrava identico all'altro, cosparso di fiori gialli e spumosi tutti uguali, all'infinito. Ogni curva del sentiero tracciato dagli animali selvatici somigliava alla precedente. Le colline erano ora invisibili e senza alcun punto di riferimento fatalmente ci muovemmo in circolo. Hugh si schiarì la gola, si girò verso di me, e la sua voce fonda e incorporea pronunciò dall'ombra la sentenza che non avevo ancora osato ammettere: «Amica mia, temo di avervi fatto perdere la strada. Mi dispiace». Alla parola «perdere» Sveva gemette. Non mi ero mai persa prima d'ora. Fui sorpresa di come fosse inquietante e poco dignitoso il solo pensarci. Idee si susseguirono nella mia mente e non riuscirono a trovare una soluzione. Mi spazientii e mi adirai del mio sgomento. Ero arrabbiata soprattutto con me stessa, per la mia stupidità. Avrei dovuto informarmi di più, guardarmi meglio intorno, e non avrei dovuto permettere che quella ridicola situazione si verificasse: perdermi, davvero! Così inutile, stupido. Non valeva la pena di litigare; mi padroneggiai. Con un respiro di piacere scivolò nell'acqua fresca e scura dell'abbeveratoio. Fu allora che il grosso maschio che era stato ferito da un leone cominciò la scaramuccia di corteggiamento con una delle femmine, e venne intercettato immediatamente dal maschio dominante della mandria. L'altissimo cammello, inferocito, lo sorprese da dietro emettendo terrificanti gorgoglii minacciosi e lo cacciò via. Il cammello più giovane si tuffò fragorosamente con velocità allarmante tra gli arbusti, e sparì subito alla vista. E' straordinario come la boscaglia africana riesca a inghiottire improvvisamente e completamente gli animali. Un fremito tra le foglie e i cespugli si chiudono ricomponendosi, come cerchi che si allargano sulla superficie dell'acqua dopo il lancio di un sasso; qualche grano di polvere sospeso nell'aria, una zaffata di odore pungente, un improvviso trattenere il respiro, forse l'impressione di un'ombra, che scompare troppo veloce per lasciarci mettere a fuoco quello che crediamo di aver visto: e solo impronte di animali in corsa rimangono in mezzo al sentiero, a provare che un branco è appena passato. Borau si affrettò all'inseguimento del suo cammello vestendosi mentre correva. Seguiva le tracce delle orme tondeggianti, ma le perse presto nella confusione di impronte fresche d'elefante intorno a una pozza fangosa. Cercò e cercò invano: le tracce abbondantissime di elefanti denunciavano un grosso branco invisibile, e confondevano tutte le altre. Era più prudente ritornare, e assicurarsi che gli altri cammelli non si fossero spaventati e dispersi in tutte le direzioni. Ora dalle orme che vedeva poteva capire che gli elefanti erano davanti a lui. Non che importasse molto. Era abituato a tutto questo; doveva solo stare più attento, accertarsi di non essere sottovento, così che il suo odore non li allarmasse; muoversi su piedi leggeri, appena toccando il suolo, come gli impala. Presto vide le groppe di due elefanti che emergevano dai cespugli di salvia, pochi passi appena davanti a lui. Si mosse dietro a loro cautamente, con tutti i sensi all'erta, per non disturbarli. Non si accorse della femmina d'elefante che lo seguiva in silenzio. Non la vide neppure, finché fu troppo tardi. Uno sguardo istintivo lanciato dietro alle spalle, una grande ombra che per un attimo oscurò il sole, l'odor pungente di letame e di fieno, un caldissimo fiato che gli soffiò sul collo. L'impressione di un occhio giallo che si fissava nel suo, inesorabilmente. Enormi orecchie grigie appiattite contro le tempie grigie. Una proboscide protesa, incurvata, per esporre lunghe zanne. L'orrenda realizzazione che l'elefante era deciso a prenderlo e che lui non gli sarebbe potuto sfuggire. Un terrore cieco gli schiacciò il cuore, e Borau si mise a correre. Nel più completo silenzio, l'elefante lo inseguì. Era una femmina prossima a partorire, abbastanza giovane da riuscire a muoversi agilmente e velocemente nonostante la mole, abbastanza vecchia da ricordarsi che l'uomo rappresenta l'unico pericolo per l'elefante. Abbastanza vecchia da aver fatto parte di un gruppo caduto in un'imboscata di bracconieri, quando gli urli di dolore e l'odore di sangue dei suoi compagni avevano lasciato un marchio indelebile nella sua memoria. E' risaputo che le femmine degli elefanti diventano eccessivamente protettive, spesso irritabili e aggressive, nel periodo immediatamente precedente il parto. Borau corse e corse a perdifiato, senza curarsi delle spine e degli stecchi che gli laceravano le vesti, accecato dal sudore che gli colava negli occhi. E mentre correva, sapeva che presto sarebbe morto. Pensieri di una ragazza snella, occhi di velluto ridenti sotto lo scialle di mussola avvolto intorno al viso; la ciotola di latte di cammella fumante nel gelo dell'alba; la voce di un bambino che gli correva incontro; il suono familiare, secco e concavo, del campano dei cammelli: le semplici cose irraggiungibili della sua vita ormai perduta. Il suolo vibrava, scosso in profondità dalle zampe dell'elefante. Borau si guardò intorno disperatamente cercando un posto dove nascondersi, un albero su cui arrampicarsi. Ma non ci sono alberi, nella fitta boscaglia di lelechwa. Lelechwa impassibile, impenetrabile, ora fece posto a un 'mbogani disseminato di radici e rami spezzati. Inciampò in uno di questi e cadde a testa in giù sul terreno indurito, il naso schiacciato nella polvere. Con uno scatto si girò a guardare in su. Il suono assordante dell'elica di un elicottero mi ricorda sempre un insetto gigantesco che si dibatte sbattendo le ali in un ultimo frenetico tentativo di volo. Sopra quel frastuono la sua voce suonò chiara e profonda: «Sei pronta?». Si era girato verso di me sorridendo. Notai i ricci sulla sua testa, i lineamenti attraenti e mascolini, il naso romano, così simile a quello di Paolo. Come in tutti quelli che pilotano un aereo, i suoi occhi avevano una particolare qualità: penetranti eppure in pace, riflettevano l'innocenza e la purezza dello spazio sopra le praterie di nuvole, infinitamente remote dal mondo inquinato degli esseri che strisciano quaggiù. C'era un'aura intorno a Tim che prima avevo visto solo in coloro che uno ricorda molto dopo che l'eco dei loro passi è svanita lungo i corridoi del tempo: coloro che non vissero a lungo, che non ci si può immaginare vecchi. Era una presenza allo stesso tempo calda e riservata, forte e gentile, che esigeva un immediato senso di rispetto. Non parlava molto. Camminava eretto, senza alcuno sforzo delle gambe lunghe, la pelle abbronzata dal sole dell'equatore. Guardai fuori dal finestrino convesso verso i dirupi ripidi di rocce coperte di aloe ed euforbia spinosa, e giù verso il denso tappeto formato dalle cime delle palme e dai grandi alberi di fico, che ricopre il fondo del canalone del Mukutan. Per anni avevo desiderato esplorare quelle zone nel profondo della valle che sono impenetrabili all'uomo, e sono adatte solo alle aquile e agli avvoltoi e ai coraggiosi elicotteri d'argento. L'occasione si presentò non molto dopo la morte di Emanuele, quando Robin era appena entrato nella mia vita. Faceva parte di una troupe che filmava un'avventura nella giungla in cui era prevista una scena con un elicottero che doveva essere girata a Nyahururu, prima chiamato Thomsonis Falls, a circa quaranta miglia da Ol Ari Nyiro. Tim, con il suo passato professionale nell'aviazione militare inglese, era il pilota dell'elicottero. Ero andata a visitare il set, e lo avevo invitato con Robin a passare la notte a Laikipia. E gli avevo chiesto di farci volare giù nel Mukutan. Aveva subito accettato con un sorriso, e partimmo. Non potevo pensare a nessuno più adatto di lui per aiutarmi ad avverare questo sogno. Ero pronta. Annuii, con il cuore che mi batteva fortissimo pulsandomi nella testa, e un flusso di calore alla faccia perché stavamo per tuffarci verticalmente, incapsulati in quella precaria macchina di metallo che ricordava tanto una libellula impazzita. Guardai la nuca di Robin, seduto sul sedile anteriore. Il suo collo era irrigidito dalla tensione, e un rivolo di sudore gli colava nella camicia azzurra. Le scarpate di roccia ruvida e piatta erano così spietatamente ripide: solo l'abilità e l'esperienza di Tim, affinate negli anni della guerra delle Falklands, ci avrebbero potuto portare attraverso quei passaggi stretti e precipitosi, e d'improvviso non ebbi alcuna paura. Era completamente a suo agio con il suo apparecchio, leggero e perfettamente in equilibrio come l'uccello bianco che avevo osservato una volta nell'isola degli Uccelli alle Seychelles mentre si appollaiava con meticolosa precisione sulla vetta oscillante di un albero. Si concentrò sui comandi. Il suo profilo antico era fermo e senza tempo come quello di un guerriero su una moneta romana. I suoi occhi si strinsero, e di colpo stavamo precipitando lungo scarpate ripidissime di pietra grigia e rosa, verso i ciuffi delle cime degli alberi mille metri più sotto. Sentii la stessa mistura di euforia e di paura che si sperimenta da bambini lanciandosi, la prima volta, dal più alto ottovolante del luna park. Le foglie verdi furono a un tratto troppo vicine, quasi accarezzavano la pancia dell'elicottero; ci abbassammo sulle cime degli alberi come uccelli che cercano un solido ramo su cui posarsi. Poi scivolammo orizzontalmente lungo il fondo della valle sotto le cascate, dove potevamo intravedere grovigli di liane e dracena lussureggiante, scimmie e aquile, pozze tranquille e segrete; e risalimmo infine verso lo sbocco della valle dove massi di granito facevano la guardia, da millenni, al silenzio e ai misteri noti solo alle creature africane. «C'è una cerimonia del fuoco domattina alle sette giù al torrente. Vieni» disse Hanne la sera del nostro arrivo. Un fuoco veniva acceso ogni notte vicino alle mie tombe a Laikipia, in fondo al mio giardino. Trovavo i fuochi evocativi, purificatori; ero incuriosita dall'idea di una cerimonia del fuoco. Andammo. Seguimmo un sentiero ombroso lungo un ruscello, al mormorio lieve di acqua che scorre, fino a uno spiazzo dove un gruppo era radunato intorno a un gran fuoco acceso in una buca scavata nel terreno. Offerte simboliche di frutta, fiori, riso e miele erano disposte in un angolo; un grosso cristallo di rocca luccicava riflettendo la luce del mattino, e un sottile fumo d'incenso si levava nell'aria fredda e pulita. Alcune persone sedevano in circolo e, tra queste, vestita in un sari rosso c'era una piccola donna. Istantaneamente ebbi la sensazione di averla incontrata prima; e quando si girò a guardarmi dritta in faccia e mi sorrise, sentii che l'avevo conosciuta da sempre. «Sono Sheelah Devi Singh. Benvenuta alla nostra cerimonia del fuoco.» I suoi occhi erano bruni e bruciavano di una luce calda, brillante; mi prese la mano, e le sue dita erano calde, scottanti e asciutte. Una freccia capovolta, con la punta rossa, era dipinta sulla sua fronte, come una fiamma; il fuoco rifletteva riflessi arancione sulla sua pelle olivastra e sui capelli bianchi tagliati molto corti: fin dall'inizio l'impressione che ebbi di Sheelah era che fosse fatta della stessa sostanza del fuoco. Fu un rito semplice con mantra e antichi canti in sanscrito, per ringraziare la Madre Terra per i suoi doni, per restituirle offerte simboliche, e per pregarla di elargire a noi e al nostro pianeta pace, salute e felicità. Trovai la cerimonia pacata, salubre, senza tempo, e ne ricavai una sensazione duratura di armonia e di serenità. Era giusto restituire alla terra qualcosa di quello che le prendevamo; ho imparato da allora, infatti, che tutto ciò che uno dà ritorna sempre, spesso in varie e diverse forme. Dopo questo episodio vidi Sheelah di frequente, in quel periodo e nel corso di altre visite a Baca negli anni seguenti, e partecipai di tanto in tanto alle sue cerimonie del fuoco il mattino presto. Apparteneva alla casta indiana dei Rajput, la più nobile di tutte, i cui guerrieri vanno in battaglia a cavallo, portando lance e spade. Aveva seguito la sua vocazione religiosa dopo una vita fuori del comune, e, benché la mia mente indipendente e razionale non mi avesse mai permesso di adottare una religione specifica, né di dare un'etichetta precisa alla mia ricerca spirituale, trovavo la sua filosofia e la sua musica elementi positivi e lenitivi in quel periodo della mia vita. Un legame più antico dell'amicizia crebbe tra noi. Con lei passai attraverso l'indimenticabile esperienza della meditazione trascendentale mediante la respirazione profonda e ritmata, che mi trascinò al di fuori del mio corpo e mi fece tornare a un passato dimenticato, dove immagini di vite precedenti si dischiudevano e mi lasciavano con una sensazione di appagamento e di grande pace, di felicità assoluta. Le credenze indiane mi avevano sempre affascinata; Sheelah me le spiegò con una semplicità mistica che trovai ineffabile, e quando cantava accompagnandosi con il suo armonio, i suoni delle parole sconosciute scavavano nella mia anima strani echi di reminiscenza. Quando Sveva stava per compiere otto anni, quell'estate andammo a Baca per qualche settimana; e, senza che lo sapessimo, Sheelah partì da Bombay, dove allora viveva, apposta per essere lì per il suo compleanno. Otto è un numero di buon auspicio nella tradizione orientale. Sveva avrebbe avuto otto anni nel diciottesimo giorno dell'ottavo mese del millenovecentottantotto; eravamo a ottomila piedi d'altezza; c'era molta gente, e quando li contai non sembrò una coincidenza che fossero proprio ottantotto. Detti a Sveva otto regali, e l'ultimo fu una bacchetta magica. Sheelah aveva portato doni di argento antico, incenso e seta, e Hanne aveva provveduto affinché un vecchio hippy di Boulder venisse a suonare il suo cimbalo a Sveva per buona fortuna, e le vibrazioni fonde che si ripercuotevano nell'aria del mattino ci fecero rabbrividire. A una speciale cerimonia del fuoco quel mattino Sveva si vestì di rosso, con un fiore dietro l'orecchio, i capelli biondi che le piovevano sulla schiena, ed era straordinariamente bella. Accettava tutto ciò con quella grazia seria tipicamente sua, e io intuivo che permetterle quando era ancora così giovane di sperimentare molti aspetti della ricerca dell'uomo per l'infinito, non poteva che giovare alla sua crescita interiore. Da anni sapevo dell'esistenza di quest'isola leggendaria. La sua eccezionale bellezza, i paesaggi drammatici, squisiti, la difficoltà di raggiungerla, il pericolo di atterrarvi con i suoi fortissimi venti. Per anni avevo sentito parlare della sua strana magia. Dei luoghi che avrei da sempre voluto visitare, senza mai trovare la persona giusta con cui farlo, o le circostanze giuste, l'isola del Sud era di certo il primo. Vi si poteva praticamente soltanto atterrare con un piccolo aereo, ma di tutti i miei amici piloti non ce n'era uno a cui potessi osare chiedere un favore così grosso. Era pericolosissimo atterrare lì. Non c'era una vera pista, solo una zona quasi piatta, una traccia curva con un avvallamento nel mezzo, come se fosse stata disegnata nella sabbia dal colpo di coda di un mitico dinosauro, circondata di rocce e rare acacie, e i venti erano così forti e così desolate le sue dune senz'acqua, che nessuno ci poteva abitare. Solo indomiti pescatori turkana, nudi o appena abbigliati con il più microscopico perizoma, la raggiungevano di tanto in tanto durante un safari di pesca con le loro canoe di legno zeppe di arpioni e ruvide reti fatte a mano, dopo giorni a remare attraverso acque turbolente e infestate di coccodrilli. Così l'isola del Sud era rimasta fuori dalla mia portata, un'esperienza che non avrei mai voluto rovinare con un atterraggio e un decollo mondano e casuale, che avrebbe lasciato pochi ricordi, nessuna emozione duratura. Come per i luoghi sognati a lungo, il desiderio la rendeva più preziosa, irraggiungibile. Come per i luoghi di semplicità essenziale e di purezza quasi religiosa, sentivo che l'avventura della sua scoperta si dovesse dividere solo con qualcuno che amavo e con cui mi sentivo in completa armonia. Poi avevo incontrato Aidan. Era quello che camminava solo, che esplorava montagne vergini e deserti sconosciuti. Amava viaggiare attraverso terre selvagge con l'unica compagnia dei suoi cammelli e cammellieri. Conosceva la boscaglia africana come pochi e conosceva il cielo. Volava sul suo piccolo aereo con leggendaria perizia e poteva atterrare dovunque, su una strada, una spiaggia, sulla sabbia o nel fango e con la luce della luna. Alto è il prezzo che si deve pagare per tutto ciò che è speciale. La nostra storia doveva passare la prova del tempo e l'angoscia della separazione. La nostra storia era la quintessenza dell'amore tra un uomo e una donna, il più profondo, antico, primordiale legame di tutti, dopo quello materno. Era un'altra riunione dopo vite e vite. Non poteva essere facile e senza pena, e pochi anni d'attesa nel fiore degli anni valevano la pena, perché la nostra unione era per sempre. Quando gli dei decisero che gli auspici erano propizi e si degnarono di concederci quello che ci eravamo guadagnati, lui volò ancora nella mia vita a prendere il posto che era suo. Potevo portarlo ora al rifugio che avevo costruito per lui alle sorgenti a Laikipia, apposta per questo giorno. Non c'era bisogno di nascondersi. Adesso potevo vedere i suoi occhi alla luce del mattino e camminare al suo fianco nel sole. Potevamo annusare le erbe secche e le polveri e le piante che crescono. Lentamente ora, come qualcuno che si sveglia da un sonno di secoli, i suoi occhi si schiarivano, si potevano ancora fissare nei miei, potevano ancora stimolarmi, e sapevo che non se ne sarebbe più andato. La mutua conoscenza ci fece scoprire che potevamo meravigliarci davanti allo stesso paesaggio, tremare per la stessa emozione e salire ancora insieme agli stessi vertici di passione. Potevamo condividere lo stesso silenzio, tenerci per mano in totale armonia, essere insieme senza interferire con i nostri reciproci mondi privati, essere uniti senza soffocare la nostra libertà ed essere una persona sola pur rimanendo diversi. La nostra unione crebbe piano e inevitabilmente: era veramente il mio uomo e funzionava perché io ero veramente la sua donna. Pulimmo la spiaggia da ogni detrito abbandonato sulla riva da generazioni di onde, spazzolammo gli scogli dalle alghe secche e infine cominciammo a trasportare l'armamentario di cui avevamo bisogno. Poi il giorno arrivò, e spiegai a Paolo che ci avevano invitato a una cena speciale sulla spiaggia. Incuriosito e intrigato, accettò con entusiasmo, senza rendersi conto che sarebbe stato l'ospite d'onore al suo stesso compleanno, quella mezzanotte. Avevamo lavorato sodo fin dalla mattina presto per finire tutto in tempo. Ora il luogo era trasformato, luminoso di candele che luccicavano da mensole di roccia come in un regno fatato. Lanterne di carta segnavano il limite dell'alta marea, e stuoie di paglia erano disposte sulla sabbia umida, coperte di cuscini blu e turchesi sistemati in un gran circolo intorno a un fuoco ruggente. Lampade a petrolio e collane di frangipane erano appese a pezzi di legno trascinati a riva dalla corrente. La musica accompagnava il suono del vento. Un enorme barbecue mandava bagliori e un profumo fragrante si sprigionava dalla più spaziosa delle caverne, dove carni e pesci venivano arrostiti dal mio cuoco Gatimu. Piatti di pizze e di samousa, ostriche e kebabs, pani all'aglio e formaggi, manghi, papaie e ananas erano disposti su un lungo tavolo basso coperto di foglie di banana. In un bacile di legno pieno di ghiaccio c'erano bottiglie di champagne e in un'altra ciotola piena di fiori galleggianti c'era un punch al rhum, pronto per essere servito in mezzi gusci di cocco decorati con ibischi rossi. Sopra tutto questo aleggiava la notte con brezze balsamiche, gelsomini notturni e stelle infinite. Fummo i primi ospiti ad arrivare, e Paolo fu stupito e commosso nello scoprire la sorpresa. Gli invitati cominciarono a giungere, e in tutti i visi leggevo la stessa meraviglia. Era stata un'occasione allegra e spensierata, con risate e un sacco di cibo e di vino e di danze. Non lo sapevo ancora con certezza, ma potevo intuirlo da segni premonitori, che nel profondo del mio corpo, nell'ostrica segreta del mio ventre, una nuova vita si stava già formando, fatta di Paolo e di me, a ricordarci per sempre della nostra unione. Nelle grotte, tra granchi color arancio, curiosi ed esitanti, le candele illuminavano il buio. Sirene si nascondevano tra le onde grigie e verdi, gabbiani riempivano delle loro strida la notte, e negli occhi di Paolo potevo immaginare venti di domande irrisolte. Non sapevo - come avrei mai potuto, avevo ancora tanto da imparare - che la luminosa tristezza nel lampo visionario dei suoi occhi era la premonizione di un futuro che non avrebbe visto; e che questo sarebbe stato l'ultimo party di Paolo, per sempre. Finì quando il camion non si fermò e l'auto di Paolo non frenò in tempo, e la sua vita fu rapita dal suo corpo per volare a raggiungere i gabbiani che aveva amato e il cielo e le nuvole e le colline a Laikipia. Finì quando la marea notturna rientrò, e onde gentili risucchiarono le buganvillee rosse, e le candele nelle lanterne di carta morirono a una a una portate via dall'oceano, e capimmo che era arrivato il tempo di andarcene. L'indomani eravamo tornati a vedere. Rimaneva solo un poi di cera fusa, qualche ibisco appassito ancora aggrappato agli scogli, tra le alghe, e un bicchiere vuoto che rotolava sulla battigia, miracolosamente intatto. I miei occhi si fissarono ancora sul bicchiere di champagne che tenevo in mano. Charlie mi stava guardando intensamente in attesa di una risposta. Dall'altra parte del tavolo, Sveva, raggiante nel vestito di rose color crema, ritratto vivente di suo padre, mi osservava con occhi color dell'oceano. Mi scossi per tornare ancora al presente. Sorrisi: «Il party alla baia incantata. Certo che me lo ricordo! Come potrei dimenticarlo». Più tardi quella notte, quando le danze erano cominciate, Charlie aveva chiesto a Sveva di ballare come se fosse stata sua sorella, e avevano volteggiato intorno in un valzer incalzante, la donna-bambina radiosa nel fruscio delle sue sete e il giovane alto che avrebbe potuto essere mio figlio. Nella spiaggia sotto di noi la marea si stava ancora una volta ritirando, lasciando sulla sabbia i suoi disegni di conchiglie e di lische di pesce, di legno alla deriva e di alghe ingarbugliate, frammenti di storie dell'oceano da interpretare. Come le maree andiamo, veniamo, lasciando la memoria delle nostre orme sulla dura superficie delle nostre vite. Chi resta, guarda quelle tracce in silenzioso rispetto, e cerca di evocare da loro, con cura e tenerezza, le fragili, amate figure, dalla nebbia del tempo.