/<1988>/ Le astronomiche quotazioni di mercato raggiunte in questi ultimi anni dalla pittura di Van Gogh sembrano il frutto di una moda impazzita, che nulla ha a che vedere con la meditata serietà di un giudizio di valore. Tuttavia non si tratta soltanto di un fenomeno capriccioso e se il sociologo, l'economista o lo psicologo dovranno cercare una spiegazione tecnica dei meccanismi che presiedono a simili nevrotiche esplosioni, compito dello studioso d'arte è chiedersi se ad esse corrisponda qualche mutamento o modificazione del punto di vista critico nel quadro di una valutazione anche complessiva dei valori dell'arte contemporanea. La prima considerazione è che l'arte contemporanea ha ormai trovato, a più di cento anni dalle innovazioni degli impressionisti, un suo statuto storico che non lascia più margine alle polemiche di principio. Non sono lontani, ma sono ormai superati, i tempi in cui accaniti detrattori del "moderno" imputavano le libertà creative delle avanguardie ad un difetto di mestiere, al fatto che gli artisti "non sapessero" dipingere: accusa che spesso ha colpito proprio anche lo stesso van Gogh. Nel momento in cui la parabola delle avanguardie sembra compiuta o almeno arrivata a una fase di crisi che segna un punto e a capo, si è creato un distacco storico che consente una visione più serena ed equilibrata delle vicende dell'arte contemporanea e soprattutto una loro comprensione più approfondita, non più di parte. Quella furia con cui alcuni si scagliavano contro i padri della "rivoluzione" moderna, come principali colpevoli di una inarrestabile catena di errori, si è rovesciata nel generalizzato riconoscimento di una primogenitura gloriosa. La polemica contro il moderno conobbe il suo momento più aspro tra le due guerre, e proprio in Italia, nel clima ideologico del "ritorno all'ordine"; come noto fu sposata da alcuni tra gli stessi ex-militanti delle avanguardie, o grandi inventori di nuovi linguaggi come Giorgio de Chirico, che non risparmiarono pittoresche invettive ai padri fondatori e tra essi con particolare irruenza («quel disgraziato cloromane e deficiente») proprio al maestro olandese. Tanta ira è però l'indice dell'eccesso passionale di giudizio che può suscitare il caso van Gogh in quanto emblematico e radicale, spinto a quel limite estremo e allucinato in cui l'ardimento espressivo sembra coincidere con la perdita della ragione; e spiega come possa ribaltarsi in un altrettanto veemente entusiasmo. «Colpito d'insolazione» lo definì Waldemar George, destinato a «espiare nella camicia di forza i peccati di un'epoca». Basta cambiare di segno i termini di questa sentenza per avere un giudizio esaltante. Ma van Gogh non è stato soltanto al centro di polemiche così accese. Più sottile è stata la natura di altre riserve, intese a "ridimensionarlo", nel quadro di orientamenti critici e di poetica che identificavano in altri maestri, come Cézanne e Matisse, i capiscuola delle vie maestre dell'arte contemporanea. Si tratta delle tendenze più ortodosse delle avanguardie, quelle che si sviluppano dal cubismo e dal fauvismo verso l'astrazione, scartando l'"irrazionalismo" espressionista; o di quelle linee di ricerca che dal cubismo rimontano verso un modernismo moderato e più tardi verso un nuovo "naturalismo" informale. Ecco ad esempio come Ardengo Soffici giudicava van Gogh e Gauguin: «Tutt'e due ammiratori e in un certo senso discepoli di Cézanne, invece di avanzare nella nuova via che questi aveva tracciato, dovevano esagerare i difetti della sua opera - come sempre avviene in casi simili - e tradire l'ideale che gli era caro. Nonché l'uno e l'altro mancassero di talento, e magari di una scintilla di genio; ma al primo fallì la ragione, quando forse la maturità degli anni l'avrebbe portato a una comprensione più semplice della natura; l'altro, guasto nell'animo da male frequentazioni letterarie, si perse in tentativi pittorici anacronistici». E così Carrà: «In quanto a van Gogh, Monet, Degas, Pissarro, Toulouse-Lautrec, ecc., a me basta saperli tutti a gran distanza dal Cézanne. (...) Per dirla in breve, costoro riuscirono soltanto a legare membri d'incerta risoluzione, e niuna cosa ci vieterebbe di giudicarli dall'effetto che fanno le loro tele qualora venissero paragonate a quelle del Cézanne. Sono di quelle opere scaturite da indole che non soffre freno, per la quale la vita, prima che la bellezza, costituisce lo scopo». Ancora nel 1952 riserve di analoga natura erano espresse in un appassionato scritto di Francesco Arcangeli: «Qualche cosa sempre sterza, fatica, si fa trito sulla sua pagina; e gli anticipi di un espressionismo formale oscillano troppo spesso, incerto alfabeto, fra l'ardimento e l'errore di grammatica. La maggior gloria dell'estate di Arles resta la violenza dell' invenzione cromatica; eppure, nemmeno per questa parte il nostro appagamento è pieno: quei colori sono stesi troppo densamente, troppo ciecamente, perché splendano di vero splendore. Avrebbe dovuto, van Gogh, sfoltire la materia; ma quel sapiente rapporto per cui un colore brilla veramente sul bianco della tela, che lo illumina dall'interno con la sua candida violenza, fu invenzione dei fauves, di Matisse anzitutto». Studi recenti e il ciclo di esposizioni dedicate ai singoli periodi dell'attività del pittore, organizzate in questi ultimi anni e tuttora in corso, hanno ulteriormente contribuito, tramite una rigorosa ricostruzione filologica, ad una valutazione storica più individuata dell'intero arco della produzione di van Gogh. Intento fondamentale e comune alle varie direzioni di ricerca è stato quello di eliminare le distorsioni «critiche di cui è stata oggetto la personalità del pittore olandese: da una parte l'enfatizzazione dell'isolamento di van Gogh nel contesto dell'arte europea e dall'altro il vaglio della sua produzione secondo il progressivo avvicinarsi alla cultura francese, cioè alle correnti impressioniste e post-impressioniste. Anche la fortuna critica di van Gogh nella stessa cultura italiana ha subìto interpretazioni falsanti e alterne vicende: da un primo tempestivo interesse di alcuni circoli intellettuali toscani e di alcuni critici sensibili ai mutamenti dell'arte europea, nel primo decennio del novecento, si passa alla stroncatura di Ardengo Soffici sulle pagine della Voce, dove in una prospettiva filo-impressionista, ma soprattutto cézanniana, si imputava al pittore olandese la distruzione di quei "valori plastici" che la cultura figurativa italiana degli anni Venti-Trenta mirava ad esaltare. Solo in seguito, nell'ambito del recupero dei valori "espressionistici" di Corrente, alcuni artisti riconsideravano con attenzione l'opera di van Gogh, che per la prima ed unica volta fu presentata in Italia in una mostra antologica curata da L. Vitali nel 1952. Tendenza diffusa era tuttavia quella di "isolare" alcune opere e momenti esemplari del pittore, considerando gli anni della formazione in Olanda e la sua prima produzione ancora come una emanazione della Scuola dell'Aja. Tuttavia, come è stato acutamente osservato (Pickvance), sarebbe un errore considerare le diverse fasi della sua attività come cicli rigidamente separati e conclusi, mentre influenze culturali diverse permangono e proprio dalla loro originalissima elaborazione nasce di volta in volta il rinnovato linguaggio del pittore olandese. Gli studi recenti hanno maggiormente focalizzato il composito crogiolo di esperienze culturali degli anni di formazione, cui contribuirono non solo la cultura figurativa a lui contemporanea - la particolare accezione delle correnti veriste e naturaliste europee presenti nella Scuola dell'Aja, alla quale la mostra dedica per l'appunto una specifica sezione - ma anche l'influenza della cultura inglese di ispirazione umanitaria e di reazione idealistica alla società vittoriana, in particolare letteraria, da Dickens a Carlyle. Soprattutto il continuo interesse per la pittura francese, da Delacroix, alla scuola di Barbizon, a Millet, segna diversi momenti della sua attività. La mostra che si presenta alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna intende per l'appunto puntualizzare i rapporti con quell'area della cultura romantica francese, con Millet e con le varie accezioni delle correnti realistiche, i cui temi del lavoro umano e i problemi sociali inerenti alle radicali trasformazioni imposte dal processo di industrializzazione offrivano più motivi di interesse e di ispirazione al pittore olandese, entrando in sintonia, in diversi momenti della ricerca espressiva, con le sue più intime motivazioni etico-religiose. Lo studio approfondito di E. van Vitert, presente in catalogo, permette un chiaro approccio al problema e indica una prospettiva nuova per la riconsiderazione del pittore nella sua intenzionalità di voler essere un nuovo Millet, di voler dare alla sua pittura un ruolo sociale, inserendosi nel vario panorama delle tendenze del realismo francese come "pittore di contadini". Nel contempo, la proposta di una scelta di opere per temi induce a considerare, al di là delle nette divisioni fra i singoli periodi di attività, i ritorni di interesse a motivi basilari degli anni di formazione e a far riflettere sul come le più profonde innovazioni di linguaggio siano avvenute proprio in virtù di una costante capacità di elaborare la poetica impressionista e quella post-impressionista, rimanendo fedele alle sue matrici di ispirazione etico-religiosa, inserendosi nel contempo in modo singolarissimo nella reazione alle correnti realistiche stesse e aderendo alle tendenze spiritualizzanti e simboliste di fine secolo. Si tratta, dunque, di riflettere sulla contraddizione intimamente presente fra la sua matrice olandese e la cultura francese a lui contemporanea, da van Gogh sempre vagheggiata come antitesi alla sua educazione protestante. Ampio spazio è stato dato pertanto agli anni iniziali in Belgio, all'Aja, nel Drenthe e al periodo di Nuenen, quest'ultimo non da ritenersi quale momento conclusivo di una formazione artistica, bensì momento non solo determinante per la comprensione dell'attività del pittore, come ebbe a dichiarare egli stesso, ma strutturante e ricorrente nella sua poetica. L'aspirazione di van Gogh ad essere l'interprete della vita contadina si complica di motivazioni ben diverse. L'arte di Vincent van Gogh: modernizzare la tradizione Evert van Vitert Proliferano, nella seconda metà dell'ottocento, i dipinti raffiguranti il mondo del lavoro, contadini e pescatori, commissionati e richiesti dai ricchi ceti borghesi. Opere di tale soggetto compaiono infatti numerose ai Salons parigini, le esposizioni ufficiali organizzate annualmente nella capitale francese. «Le principali attività dei lavoratori dei campi posseggono quella potenza e semplicità che sono al massimo grado suggestive per un pittore o per un poeta», scriveva André Theuriet nel suo libro La vie rustique (1888), in cui insieme al disegnatore Léon Lhermitte aveva immortalato la vita dei campi, dolorosamente consapevole della imminente scomparsa della cultura ad essa collegata (fig. 1). I dati statistici confermavano la progressiva diminuzione dei lavoratori dei campi, poiché l'industrializzazione li induceva ad inurbarsi e dunque a cambiare natura. Questi fattori socioeconomici erano stati analizzati da Theuriet con un accentuato senso di angoscia e di nostalgia: il contadino, così come lo avevano conosciuto le precedenti generazioni, era destinato a scomparire. In quel libro sia lo scrittore che l'illustratore avevano immortalato con amore la vita del contadino, senza però cedere al sentimentalismo idilliaco, ma anche senza gli errati preconcetti della cosiddetta "scuola naturalistica" di chiara ascendenza zoliana. Theuriet era un moderato sia in politica che in arte. Ammetteva che il contadino potesse essere interpretato da diversi punti di vista e lui stesso ne aveva evocato gli estremi, quando aveva fatto riferimento al contadino felice delle Georgiche di Virgilio ed aveva citato i versi di una canzone bretone che suonano: «Voi siete poveri e rendete ricchi gli altri; la gente vi disprezza e vi stima, la gente vi perseguita e voi vi sottomettete. Soffrite il freddo e la fame». Theuriet aveva anche citato il poeta socialista Pierre Dupont che nella sua Poesia del grano aveva descritto la fatica stremante del contadino. E dimostrava infine convincentemente che il pubblico dei Salons annuali era sensibilissimo ai dipinti di contadini, ma solo nel caso in cui questi venissero rappresentati secondo la tradizione. Com'è noto gli Impressionisti avevano rifiutato, ad eccezione di Pissarro, il genere campestre, che aveva trovato invece i suoi interpreti di punta in Jean François Millet e Jules Breton, seguiti da Jules Bastien-Lepage e Léon Lhermitte. Anche Josef Israels aveva portato la pittura di soggetto campestre ad un livello di fama internazionale, come pure Anton Mauve, che può definirsi il miglior rappresentante del genere in Olanda. I soggetti di vita dei contadini e dei pescatori avevano in tal modo scalzato a poco a poco dalla sua posizione preminente la pittura storica e religiosa. E ciò non solo in conseguenza dei cambiamenti radicali avvenuti a livello sociale per il progressivo imborghesirsi della società, ma anche di quelli manifestatisi a livello del gusto, soprattutto con il diffondersi della pittura di paesaggio. La scoperta del paesaggio è infatti uno degli elementi fondamentali della pittura dell'Ottocento, che assume come modello non solo la stessa natura ma anche i grandi paesaggisti olandesi del secolo XVII, in particolare Jacob van Ruxsdael. Un ruolo importante nello sviluppo della paesaggistica spetta a Barbizon, paese non lontano da Parigi, situato al limite tra la campagna coltivata e la foresta di Fontainebleau; e successivamente a Pont-Aven, in Bretagna. Entrambe le località avevano attirato artisti di nazionalità diverse i quali, una volta tornati ai loro paesi d'origine, avevano scoperto anche lì terre suggestive e pittoreschi paesi di pescatori dove poi stabilirsi per lavorare. Laren, nel Gooi, e Scheveningen sono in Olanda gli esempi più noti. Mauve era attivo in entrambi i luoghi. E van Gogh, che nel 1882 fu per breve tempo suo allievo, concepì ben presto il desiderio di visitare Barbizon, senza riuscire però a realizzare questo suo desiderio. Ma nel 1880, all'inizio della sua carriera d'artista, si era spostato dal Borinage a Courrières (nordFrancia), dove abitava e lavorava Jules Breton, il pittore dei contadini. Successivamente cercò ispirazioni "campestri" nel Drenthe e nel Brabante, nel villaggio di Son e Breugel - ritrovando qualcosa dei paesaggi di Currières - in Provenza e a Auvers-sur-Oise. Le idee di van Gogh Quando, nel 1880, van Gogh decide di diventare pittore, la sua scelta era già stata fatta: dipingere i contadini. Tuttavia il suo interesse non era soltanto limitato ad essi, ma si estendeva a tutto il mondo degli umili. Questa sua scelta influenza la sua interpretazione dell'arte antica e moderna. Per lui l'arte doveva raggiungere l'anima, la pittura essere una «peinture de l'âme» (lettera 133, Borinage, 18 luglio). Si era lasciato guidare da diversi maestri, ma soprattutto da «padre» Millet, nelle cui opere avvertiva «un che di sublime, un sentimento quasi religioso» (lettera 242, L'Aja, 5 novembre 1882). In un seminatore di Millet, scrive van Gogh in una lettera (n. 257, 3 gennaio 1883), «c'è più anima che in un semplice seminatore dei campi». Anche in relazione a questo, sembra che van Gogh fosse decisamente convinto di aver creato, con la versione definitiva, un grande dipinto. Non solo aveva dipinto la tela secondo le teorie in cui credeva, ma aveva anche delle idee ben chiare su come valorizzarle nel modo migliore. L'interno dell'ambiente poco illuminato non avrebbe resistito ad uno sfondo scuro o sbiadito. Come un tessitore, Vincent aveva usato più colori per ottenere un colore vivo. Uno sfondo scuro non avrebbe avuto lo stesso effetto. Le ombre, inoltre, erano blu e l'effetto così prodotto sarebbe stato ottimale solo in circostanze specifiche: «è una pittura che sta bene sul color oro, ne sono sicuro. Ma sarebbe anche bene su di un muro tappezzato con carta del colore profondo che ha il grano maturo». (Theo 404). Raffigurando il suo gruppetto di contadini che mangiano, van Gogh, quanto al tema, non aveva dipinto niente di nuovo. Gente che mangia e che beve è infatti un tema vecchio nella storia della pittura, e soprattutto presente nel diciannovesimo secolo. Le fonti che si possono indicare per I mangiatori di patate sono molte. Vincent conosceva bene probabilmente le scene di Josef Israels che raffigurano gente alle prese con un povero pasto, The Frugal Meal. Questa ipotesi è stata di recente provata (cfr. cat. Mannheim 1987). Anche recente è il riferimento alla incisione in legno di Léon Lhermitte, Le reveflloxl in Le Monde Illustré, una rivista che Vincent riceveva da Theo (fig. 12a). Vincent aveva visto molto probabilmente la tela di Charles de Grow a Bruxelles, durante il suo soggiorno nella città belga, una tela che rappresentava dei contadini che pregano prima del pasto. Questo era senza dubbio un tema che lo avvinceva da molto. Nel 1882 per esempio, all'Aja, faceva riferimento, in una lettera a Theo, alle opere di Théophile Schuler, in particolare ad una stampa di questo illustratore. La citazione è, alla luce degli sforzi fatti più tardi da van Gogh per la creazione de I mangiatori di patate, di un'eloquenza quasi profetica: «Penso veramente che faccia un grande sbaglio chi pensa che certe cose, come per esempio la stampa Le bénédicité (una famiglia di taglialegna e contadini intorno ad un tavolo) sia stata creata in un colpo solo» (Theo 250, 1 o 3 dicembre 1882). Anche questa - poco nota - incisione in legno ha fatto parte, probabilmente, degli esempi usati da van Gogh per i mangiatori di patate. Vincent non aveva usato per ispirarsi un opera particolare, ma aveva aggiunto la sua variante ad un tema conosciuto. La prima versione dipinta dal vero (v. scheda precedente) è da ritenersi il punto di partenza per la composizione della litografia qui esposta. Essa fu realizzata nell'intervallo di tempo tra la prima e la seconda tela. Ora che Vincent aveva trovato un tema per cui poteva elaborare degli «studi di teste» per tutto un inverno, gli era ritornata in mente ancora una volta la vecchia idea di far riprodurre una serie di stampe: «Enfin, penso di realizzare una serie di motivi dalla vita contadina - les paysans chez eux -(...), la brughiera e i paesi sono molto belli anche qui ed ora che mi ci trovo, ci vedo una risorsa inesauribile di motivi dalla vita dei contadini, ed è solo questione di usarli e lavorare» (Theo 400, 13 aprile 1885). Contemporaneamente aveva in mente di far offrire da Theo alla rivista "Le Chat Noir" la litografia dei Mangiatori di patate (Theo 399401, 11-17 aprile c. 1885). Vincent l'aveva fatta stampare nella tipografia di Dimmel Gestel, zio di colui che più tardi diventerà il pittore Leo Gestel, di Eindhoven. Su suggerimento di Gestel aveva sottoposto a morsura le parti chiare, in modo da rendere il contrasto abbastanza forte. Il risultato non soddisfece per niente Van Gogh, perché il rapporto fra i piani era andato perso ed il tutto era privo d'equilibrio. Inoltre era insoddisfatto della stampa riflessa, come scriveva in risposta alle critiche di Theo (Theo 405, inizio maggio 1885). Vincent aveva mandato al fratello un paio di copie della litografia, perché questi gli aveva riferito dell'impressione positiva che un esemplare dei Mangiatori di patate, spedito in precedenza, aveva fatto sul mercante d'arte Arséne Portier. Portier vi aveva visto della "personalité", il che aveva fatto molto piacere a Vincent, che infatti cercava in modo sempre più deciso di essere se stesso indipendente dalle critiche degli altri (Theo 401). E le critiche c'erano, eccome. Da Van Rappard, che ne aveva ricevuta una copia, si sentì dire: «Sarai d'accordo con me che un'opera del genere non può essere considerata seria. Sai fare più di questo tu, per fortuna; e perché allora osservare e trattare il tutto in modo superficiale? Perché non si sono studiati i movimenti? Ora posano. Quella mano civettuola della donna dietro al tavolo è ben poco vera! e che rapporto c'è tra il bricco del caffè, il tavolo e la mano che posa sul manico? Ed in ogni modo quel bollitore che fa? Non sta in piedi, non viene tenuto in mano, ma che fa allora? e perché quell'uomo sulla destra non può avere un ginocchio, né pancia né polmoni?