/<1994>/ «Io, per fortuna, ho avuto i nonni e un cugino che mi hanno fatto da padre nella vita quotidiana e poi ero molto piccolo quando i miei si sono separati. Posso dire di non averne risentito, se non per il fatto che, nel mio ambiente di provincia, mi sentivo diverso dagli altri e, alle elementari, ho nascosto ai miei compagni che ero figlio di separati, perché credevo di essere l'unico in classe. Anni dopo ho scoperto che anche una mia compagna era figlia di separati, ma che anche lei come me diceva che suo padre era lontano per lavoro. Mi preoccupa invece mio fratello George, che ha un temperamento da artista, suona bene il violino, ma non ha la costanza necessaria per diventare concertista, ha cambiato tre volte facoltà, ma non ha finito l'università, e non è mai rimasto in un posto di lavoro per più di qualche mese. Lui ha sofferto molto per la separazione dei genitori: aveva 15 anni e, fino ad allora, era cresciuto tra le liti di mio padre e Simone, che neanche adesso si parlano in modo disteso. George frequenta ragazzi che si drogano, e con le ragazze sembra imitare mio padre al suo peggio: le cambia spesso e non riesce o non vuole stabilire un legame impegnato con nessuna». George, un bel ragazzo di 26 anni, che ama «viaggiare coi piedi e con la fantasia» dice di aver l'anima dello zingaro («Sarà per questo che amo il violino»). E' risentito con il padre che ha fatto soffrire sua madre: «Lui si è subito risposato. E mia madre, invece, non l'ha neppure sposata. Annette voleva il matrimonio e lui l'ha accontentata, nonostante le sue professate avversioni ideologiche in materia. La verità è che non sa stare senza una donna al fianco. Mia madre, invece, apparentemente se la cava bene, ma dentro di sé credo che sia ancora ferita per come è finita la loro storia. Se però fosse rimasta con mio padre, non sarebbe riuscita a realizzarsi come persona, come professionista. Lui era troppo ingombrante, troppo dominante sulle nostre vite, pur stando poco in casa con noi. Mia madre mi piace, trovo sia una bella persona, la vedo spesso e volentieri, anche ora che abito da solo. Quanto a mio padre, invece, lo vedo poco perché non posso sopportare la sua attuale moglie, una che l'ha sposato per farsi una posizione ed essere la moglie di un deputato. Sta allevando le mie due sorelle come due ochette viziate. Non mi trovo bene da loro. Non ho neppure una stanza per me come da mia madre. «Abito con due amici e pago le mie spese coi soldi che mi passano mia madre e mio padre. So che a 26 anni dovrei forse mantenermi da solo, o finire l'università, ma francamente preferisco vivere alla giornata. La politica non mi interessa per nulla, non farei mai la vita di mio padre. Quando stavamo insieme, ricordo che arrivava sempre tardi, che saltavamo le vacanze e non festeggiavamo i compleanni. E per cosa? Il comunismo in cui lui credeva si è rivelato un esperimento che ha causato la morte e l'infelicità di tante persone. Numerosi politici, che lui frequentava e stimava, si sono rivelati solo assetati di denaro e potere. «Mio padre è un politico puro. Infatti noi non possediamo neanche una casa. Per questo motivo definisco la sua vita "un onesto fallimento". Lui però è un duro e non vuole rinunciare alle sue illusioni, né ai suoi sogni politici. Mi dice sempre: "Vedrai George che il bisogno di comunismo nel mondo non si è spento perché è fallito il socialismo reale. Bisogna capire gli errori commessi e ricominciare". E visto che qui in Francia i comunisti stanno scomparendo, lui segue con passione l'evoluzione di Rifondazione comunista in Italia. Lui pensa che il comunismo vero, come lo intende lui, sia ancora da applicare. E spera sempre. Mi irrita, mi fa compassione, ma a volte lo invidio anche per la sua passione, per la forza con cui crede anche in cose forse superate. Nei periodi di transizione, quando cioè una classe di «oppressi» è di recente stata affrancata, gli individui meno sicuri psichicamente e più deboli economicamente possono provare paura e rabbia verso i deboli che riescono finalmente a far valere i loro diritti. Per esempio, nella competizione per i buoni posti di lavoro, già scarsi per le categorie meno forti negli anni Ottanta e Novanta, gli uomini, che hanno fatto fatica a trovare una soluzione professionale soddisfacente, hanno talvolta colpevolizzato le donne che, grazie alle loro nuove opportunità di lavoro, sono riuscite ad affermarsi in settori fino a quel momento esclusivamente maschili. Lo stesso è avvenuto - e tuttora avviene - in particolare quando le donne sono riuscite a ottenere posti di capoturno o supervisore. La maggior parte dei contesti lavorativi è organizzata ancora in maniera tale che l'ingresso delle donne scatena una «guerra tra poveri» per i pochi posti gratificanti e di prestigio disponibili. Gli uomini frustrati per la propria posizione e per la difficoltà a fare carriera vedono nelle donne delle nuove concorrenti con meno diritti di loro ad avere successo. In realtà, essi non si rendono conto (o non vogliono farlo) che le scarse opportunità di progresso nel lavoro non sono da imputare alle donne, ma al sistema stesso in cui il lavoro viene organizzato: soltanto in alcune aziende, infatti, si è capito di recente quanto sia controproducente limitare le persone solo per il loro titolo di studio (un operaio, per quanto bravo, non può accedere a un lavoro per un diplomato; un diplomato creativo ed esperto si vede precluse possibilità di carriera perché non ha una laurea; ecc.) o far fare loro per decenni lavori ripetitivi che non implicano nessuna crescita professionale. Analogamente, gli uomini delle classi meno abbienti, che si sentono minacciati nella loro capacità di provvedere alla famiglia, non vedono di buon occhio il successo professionale delle donne. Da loro si sentono minacciati nella «mascolinità», poiché secondo l'opinione comune (anche da parte femminile) i disoccupati sono meno virili degli uomini che lavorano. Infatti, nelle famiglie in cui il marito ha perso il lavoro si acutizzano i problemi sessuali, di autostima, di abuso di alcol o droga, e si moltiplicano i casi di violenza (pestaggi, suicidi, liti con ferite...). I comportamenti violenti, infatti, possono essere vissuti dall'uomo come un tentativo di compensare la perdita di virilità sofferta con la diminuzione delle prospettive lavorative. La mascolinità, inoltre, è associata al controllo sugli altri e su se stessi: l'uomo è orientato all'azione, non si può permettere di essere debole, di mostrarsi o sentirsi vulnerabile come una donna. Perciò, quando la situazione lavorativa o sociale generale minaccia l'immagine della mascolinità, molti uomini, avvertendo la propria debolezza, cercano per reazione di sentirsi forti e potenti, magari picchiando la moglie e i figli o stuprando una sconosciuta. Lo stesso genere di reazione si può avere quando i ruoli tradizionali nella coppia sono incerti e non vengono accettati. Per gli uomini di classe elevata, la minaccia ai posti di lavoro da parte femminile è meno sentita, perché sono ancora poche le donne che occupano vere posizioni di potere. Un'indagine condotta tra i dirigenti di una grande impresa multinazionale ha mostrato, tuttavia, che l'ingresso delle donne nel management può suscitare reazioni ambivalenti e complesse. Alcuni dirigenti, per esempio, hanno ammesso di invidiare alle donne la loro doppia possibilità di realizzazione come madri e casalinghe e come lavoratrici. Altri, invece, hanno avvertito un certo disagio per «l'invasione delle donne». Quanto all'opinione sulle donne-manager, tutti gli uomini hanno sentito il bisogno di sottolineare che le loro colleghe avevano caratteristiche diverse dalle proprie, di distinguersi da loro. Quando poi si esaminano le differenze che hanno indicato, si nota una contraddizione: alcuni dirigenti hanno attribuito loro più fantasia, creatività, istintività degli uomini, mentre altri le hanno descritte come, in generale, più precise e razionali di loro. Ammettere infatti che donne e uomini possono avere simili caratteristiche rischia di suscitare a livello profondo delle ansie relative alla propria identità sessuale e alla presenza di componenti maschili e femminili dentro di sé. Per i dirigenti, quindi, è difficile accettare questo genere di «bisessualità» e coltivare in sé prerogative maschili e femminili, perché genera confusione, ma al tempo stesso è auspicabile dato che in tutte le aziende emergenti la figura del nuovo manager deve integrare caratteristiche maschili e femminili. La maggior parte dei coniugi con figli che decide di separarsi perché spera di conseguire una qualità di vita più soddisfacente non soltanto per sé, ma anche per i propri figli, ottiene effettivamente un miglioramento. Come illustrano le testimonianze che seguono, i figli possono avere, invece, diverse esperienze e reazioni dopo la separazione a seconda delle circostanze. I fattori più determinanti nel creare questi diversi vissuti sono: il grado di conflitto tra genitori, il contesto socioeconomico e culturale (reddito, tipo di abitazione, risorse strumentali e ambientali) e il modo di svolgere il proprio ruolo educativo di almeno uno dei genitori. Se si sta peggio dopo la separazione. Giorgio ha 24 anni, porta i capelli rasati con un codino biondo che spunta dal cranio, calza stivali con borchie di metallo lucente e lavora saltuariamente come meccanico nel garage di un amico nei dintorni di Mestre. Ha studiato da ragioniere perché sua madre sperava di sistemarlo in banca. Ma: «Io odiavo ragioneria, mi sono fatto bocciare due volte, i professori erano una tale "pizza", bacchettoni della peggior specie. Mi vedevano male perché io non me li filavo proprio. Per me la scuola non ha mai contato un cazzo. Chiaro? Ci andavo solo per vedere gli amici e rimorchiare». Giorgio parla, si veste, si comporta come se fosse arrabbiato con il mondo intero, diffidasse di tutti e temesse di venire offeso, calpestato. E' il terzogenito di una famiglia friulana. Il padre muratore ha lavorato per lunghi periodi in Svizzera, mentre la madre casalinga si occupava dei figli. I genitori si sono sposati giovanissimi, perché la madre aspettava sua sorella maggiore Teresa, che oggi ha 28 anni. Il loro matrimonio non è mai andato molto bene, perché: «Non c'erano abbastanza soldi. Mio padre, poi, ci dava dentro con il vino: qui da noi si comincia con un goccetto al bar la mattina, siamo grandi bevitori in Friuli. Però mio padre non regge bene l'alcol. Sbronzo, diventava cattivo e ci menava tutti con la cinghia. Quando non beveva era un uomo simpatico, bravissimo con le mani, sapeva far tutto». Quando Giorgio aveva 6 anni, sua madre, stanca della vita di stenti e litigi, tornò dai genitori e tentò di separarsi. Ma la sua famiglia è molto religiosa e cercò di osteggiarla. Così passarono vari anni tra periodi di separazione di fatto, riconciliazioni e litigi. A quell'epoca, Giorgio cominciava ad avere problemi di comportamento a scuola. Litigava con i compagni, studiava poco. In prima media venne bocciato. Nel frattempo, la madre si separò definitivamente. Era molto depressa. Il marito le passava pochi soldi e lei cercava di guadagnarne un po' facendo la cassiera in un bar. La sera lavorava fino a tardi e Giorgio e i suoi fratelli, che rimanevano soli, cominciarono a frequentare locali e posti di ritrovo e a far tardi la notte. Lei tentava di disciplinarli ma, mentre la figlia la ascoltava, i due maschi ormai adolescenti facevano quel che volevano. Di conseguenza, i litigi tra sorella, madre e fratelli aumentavano. Poi, il padre trovò un'altra donna, con cui andò a convivere ed ebbe una bambina, e cominciò a vedere poco i figli di primo letto. Ricordando quel periodo, Giorgio racconta: «Quando è nata la mia sorellastra, avevo 14 anni e avevo già capito che a mio padre non gliene fregava più niente di noi. Io volevo un motorino, ma lui non ha scucito neanche un soldo. Così io e un mio amico ne abbiamo "preso a prestito" uno. I carabinieri volevano metterci dentro, ma io non avevo ancora 14 anni e così me la sono cavata». Giorgio non è mai stato in carcere, anche se ha avuto guai con la giustizia in varie circostanze per risse e pestaggi. Fa parte di un gruppo di estrema destra che detesta ebrei, immigrati e omosessuali. Fuma spinelli e, quando va in discoteca il sabato, si fa di pasticche. Ha cominciato a 12 anni, quando: «Mia madre piangeva sempre perché si era lasciata con mio padre e io non sapevo come tirarla su e provavo solo rabbia». Il padre di Chiara sta per risposarsi e lei è contenta di questa sua decisione, perché nutre simpatia per la sua nuova compagna e perché avendo due famiglie: «Si conoscono persone diverse, ambienti diversi, si frequenta gente nuova. Insomma si ha la possibilità di vedere tante cose, di conoscere mentalità diverse». Chiara spera di avere presto un fratellino, si definisce una «separata tranquilla», e consiglia a una ragazza che dovesse affrontare la separazione dei genitori: «Non si può pensare che il matrimonio dei genitori o magari, anche in futuro, il proprio duri per sempre. Si deve sempre calcolare la possibilità che un matrimonio non vada più avanti. Si devono capire i motivi perché è successo, perché i propri genitori si separano. E' importante parlarne, affrontare il problema, non subirlo passivamente». Chiara vuole iscriversi alla facoltà di architettura, spera di avere un figlio intorno ai 27 anni e preferirebbe convivere piuttosto che sposarsi. Se l'accordo tra genitori è importante nelle famiglie unite, come dimostrano le storie di Carla e Federico, un buon rapporto tra ex partner, almeno in qualità di genitori, è fondamentale, come risulta dalla vicenda di Chiara. Tuttavia una simile buona intesa è spesso un equilibrio piuttosto difficile da stabilire: la separazione di per sé può portare, infatti, a rapporti conflittuali, che possono degenerare se i due genitori si detestano o si ignorano, come il padre e la madre di Massimiliano. Non ci si stupisce quindi che, esaminando le ricerche empiriche sugli effetti della separazione, si noti che i due anni che la seguono diventano sovente un periodo di crisi per adulti e figli che ne sono coinvolti. Generalmente una situazione di crisi viene considerata un evento negativo, insolito e possibilmente da evitare. L'etimologia della parola rivela invece che si tratta di un'interpretazione riduttiva del concetto: il termine deriva infatti dal greco krinein che significa decidere, giudicare, e pertanto indica una scelta, una decisione. In altre parole, la crisi può essere intesa come una svolta in seguito alla quale si arriva a un cambiamento, in meglio o in peggio. Questo fatto risulta ancor più chiaramente dal corrispondente ideogramma cinese, costituito da due caratteri che rappresentano il pericolo e l'opportunità. La crisi può comportare dunque anche cambiamenti in positivo a seconda di come viene vissuta la sua evoluzione. Ci separiamo: come e quando dirlo ai figli. Molti ragazzi soffrono all'annuncio della separazione dei genitori anche perché subiscono la loro decisione e tendono a sentirsi impotenti di fronte a un evento stressante e imposto. Per questo motivo, nella maggior parte dei casi reagiscono con dispiacere o sorpresa. Fanno eccezione i figli che sono stati esposti a conflitti prolungati e violenti, per i quali la separazione non giunge inaspettata e rappresenta, invece, un sollievo. Roberta, undicenne romana, afferma per esempio: «Per me è stato un grosso sollievo. Non c'erano più liti, non sentivo più urla. All'inizio io ero triste perché il mio papà se n'era andato via, ma la mamma sembrava più contenta. Almeno era tutto più calmo. I nodi nel mio stomaco cominciavano ad allentarsi, sentivo meno tensione attorno a me». Analogamente, Jack, tredicenne texano, dichiara: «Ho pensato: finalmente posso portare a casa i miei amici di pomeriggio. Prima c'era sempre il rischio che papà tornasse arrabbiato e che loro due cominciassero a litigare. Ho capito che stavano meglio ognuno per conto proprio e anch'io poi sono stato più felice». Emanuele, venticinquenne romano, che aveva 9 anni al momento della separazione, testimonia: «Litigavano così tanto che io mi mettevo a letto sotto le coperte e mi schiacciavo le unghie per distrarmi dalle loro urla. Una volta me le ero talmente infiammate che mi facevano male i piedi a camminare, ma i miei genitori non si sono neanche chiesti perché le avessi così mal ridotte. Erano troppo presi nella loro guerra. Quando si sono separati, mi sono sentito sollevato». Roberta, Jack ed Emanuele fanno parte di quel terzo circa di figli di separati che erano consapevoli del fatto che i genitori stavano male insieme e avevano pensato, se non addirittura desiderato, che si separassero. José ha 10 anni e abita a Lisbona. Quando i suoi genitori si sono separati dopo mesi di indecisione, aveva 6 anni. Di quel periodo ricorda: «Papà andava a dormire dalla nonna quando litigava con la mamma. E certe volte restava fuori casa anche per una settimana. Io non sapevo mai se sarebbe tornato a casa la sera, se sarebbe venuto ad aiutarmi a fare i compiti. Mamma era sempre nervosa e, alcune volte, si dimenticava di cucinare. Di conseguenza, spesso mangiavamo fuori. Quello era bello, ma io avrei anche voluto che si mettessero d'accordo. Quando poi mi hanno detto che io sarei rimasto con la mamma, ma che avrei potuto continuare a vedere papà tutte le volte che avrei voluto e avrei potuto continuare ad andare alla corrida con lui, mi sono sentito triste e contento allo stesso tempo». Quando il divorzio avviene dopo litigi quotidiani o quando, addirittura, i figli assistono a violenze fisiche tra i genitori, i mesi che seguono la separazione vengono vissuti come un periodo di «quiete dopo la tempesta». Nelle famiglie in cui è un solo coniuge a volere la separazione, i rapporti tra genitori e figli mutano molto presto. Se a provocare il divorzio è il coniuge affidatario, in genere, questi si sente molto meglio e i figli stanno bene con lui, ma possono provare rimorso al pensiero di aver lasciato solo l'altro genitore, che magari è triste, ammalato o arrabbiato. Spesso, infatti, il genitore a cui è stata imposta la separazione regredisce a comportamenti infantili e i figli lo devono accudire come se loro stessi fossero i suoi genitori. In altri casi, invece, le persone separate da poco vivono una seconda adolescenza: mutano abitudini, modi di vestire, hobby, escono tutte le sere, si fanno nuovi amici e vogliono godersi la ritrovata libertà. Talvolta i figli devono mediare tra i genitori che litigano su questioni legali, sulla divisione dei mobili o sulle visite del coniuge non affidatario. In queste fasi molti genitori soffrono di insonnia, sbalzi di umore, esagerano nel bere o nel fumo. I padri usciti di casa, inoltre, possono sentirsi sradicati, mentre i figli possono colpevolizzarsi per avere consentito che la madre li allontanasse. I figli maschi in particolare possono temere che la madre cacci anche loro oppure prendere il posto del padre, diventando l'uomo di casa su cui fanno affidamento tutti gli altri familiari. In questo periodo la maggior parte dei genitori si sente più insicura, teme che la separazione danneggi i propri figli e, ritenendosi responsabile, tende a essere con loro, a fasi alterne, troppo indulgente o troppo severa. Tuttavia, come è risultato chiaramente dagli studi sulle interazioni tra genitori e figli dopo la separazione, meno depressi e ansiosi sono madri e padri e meno conflittualità vivono tra loro, più riescono a essere buoni genitori dopo la separazione. Inizialmente, un modo in cui i separati possono dimostrare se saranno anche in futuro dei genitori efficienti è riuscire a risolvere i problemi logistici e finanziari che si presentano nell'attrezzare due case diverse e, spesso, con disponibilità di denaro minori che in passato. Molti padri infatti non sanno dove portare i figli piccoli, se vivono in camere d'affitto, mentre molte madri, oberate dalle difficoltà economiche, sfogano le loro ansie sui figli. In parte l'instaurarsi di nuovi rapporti familiari buoni dipende dall'abilità di figli e genitori a formare relazioni più flessibili con tutti, tra singolo genitore e figli e tra fratelli. E' importante, infatti, che si rafforzi il legame di ogni membro della famiglia con ciascuno degli altri, perché quando questo avviene tutti, genitori e figli, escono dalla crisi cresciuti e maturati. In una ricerca su 331 genitori italiani separati in media da un anno, più della metà ha affermato che il rapporto con i figli era mutato, perlopiù, in meglio. Come testimonia Giacomo, professore universitario trentasettenne, separato da quattro anni e padre di un figlio di 6, diventare padri single è un processo graduale: «Quando ero sposato con Giulia, di Marco si occupava lei con l'aiuto di una ragazza alla pari. Io, allora, gli facevo il bagnetto o gli davo da mangiare soltanto qualche volta e in genere mi limitavo a farlo giocare la sera o a portarlo in giro la domenica. Quando ero con lui, però, Giulia c'era quasi sempre oppure c'erano zii, nonni o babysitter: insomma prima della separazione sarò stato da solo con mio figlio al massimo cinque o sei ore. «Quando ci siamo separati, Marco aveva quasi 2 anni e io e la mia ex moglie abbiamo deciso che io lo avrei tenuto dal venerdì sera alla domenica sera a settimane alterne, il giovedì pomeriggio e la notte. La prima volta che Marco è venuto a casa mia a dormire, però, l'ho portato da mia madre perché, se si fosse sentito male, non avrei saputo come comportarmi. Nei primi sei mesi, sono sempre stato molto dipendente dalle sue reazioni: se era contento, se mangiava e dormiva, mi sentivo un padre adeguato, in caso contrario non mi consideravo all'altezza del mio ruolo. A volte gli comunicavo la mia ansia e lui diventava piagnucoloso e insopportabile. Poi mi sono tranquillizzato a poco a poco e, quando sono diventato più sereno nel rapporto con lui, anche lui stesso ha cominciato a trovarsi meglio con me. Adesso, se Marco mi chiede di sua madre, lo invito a telefonare a casa. Inoltre ho stabilito con lui un'intimità, anche corporea, che dimostra che stiamo bene insieme: ho imparato a cucinare per lui, a lavarlo e a pulirlo. «Questo nuovo rapporto con mio figlio è stato di grande giovamento anche per me stesso. Con lui ho conosciuto un mondo che ignoravo, ho scoperto i diversi ruoli di padre e di madre e l'esistenza di parti materne e paterne dentro di me. L'esigenza di creare un ambiente accogliente per mio figlio mi ha poi spinto ad abbellire la mia casa che è migliorata anche per me stesso. Cercando di capire i suoi bisogni emotivi sono diventato più attento anche alle mie stesse emozioni e ho capito che, se avevo avuto difficoltà a diventare un buon padre e a stare con mia moglie, era perché mio padre era sempre stato troppo distaccato con me, troppo razionale, insomma era stato uno di quei padri che stanno sempre dietro al giornale e intervengono soltanto per ristabilire la loro autorità. Diventando padre ho cambiato opinione su cosa significhi essere uomo: prima pensavo che volesse dire essere razionale e avere successo nel lavoro, mentre ora ho scoperto il valore della gioia, della spontaneità e il piacere di vivere pienamente le proprie emozioni. Di conseguenza ho mutato le mie priorità: prima il successo nel lavoro e il conseguimento della cattedra erano le mie prime preoccupazioni, mentre ora sono professore associato e non credo che diventerò ordinario molto presto. Infatti, per stare con mio figlio, non passo molto tempo sui libri. Allo stesso tempo, mi dedico anche a qualche lavoretto extra per guadagnare soldi che mi servono a soddisfare alcune sue esigenze. Il prestigio e il potere mi interessano meno che in passato. Adesso desidero anzitutto riuscire a far star bene le persone che mi vivono accanto. Per esempio, mi sono battuto per il miglioramento del servizio della scuola materna di mio figlio e, per amor suo, mi sono iscritto alla Lega degli amici degli animali. Ora ho imparato ad aiutare gli altri, mentre prima mi sentivo al centro dell'universo, sempre in competizione con mio padre o con altri uomini. Adesso sono più sereno e so come avere rapporti migliori con gli altri». Fino agli anni Settanta non si sono studiate dunque le famiglie di questo tipo, perché non se ne sono riconosciute la novità e la complessità, e le si è assimilate semplicemente alle famigliastre tradizionali. Oppure si è pensato che risposandosi si formi una nuova famiglia nucleare, che va a sostituire la famiglia che si è «rotta» con il divorzio. In questo senso, oltre a stepfamilies si è coniato anche il nome di «famiglie ricostituite», che ha un'evidente connotazione negativa. Perfino negli Stati Uniti, dove le famiglie aperte erano già diffuse, si aveva infatti un'opinione negativa di esse e si riteneva che qualsiasi famiglia diversa da quella tradizionale nucleare fosse deviante in negativo o, comunque, deficitaria e inferiore. Al tempo stesso gli studiosi si aspettavano di poter giudicare le famiglie ricostituite con gli stessi criteri con cui valutavano quelle nucleari. Soltanto negli ultimi anni ci si è resi conto che le famiglie aperte sono radicalmente diverse sia da quelle tradizionali sia da quelle dei vedovi che si risposano. Per questo motivo si è iniziato a studiarle e a cercare di dar loro una definizione. Ricombined, blended, binuclear, polinuclear, postnuclear, extended (ricombinate, fuse, binucleari, polinucleari, postnucleari, estese) sono alcuni dei termini usati per mettere in evidenza che le nuove famiglie hanno due importanti caratteristiche. Anzitutto, sono sparse in più di una casa, hanno almeno due luoghi fisici che i figli possono sentire come casa. In secondo luogo, in ognuna di queste case vivono persone diverse che hanno stili di vita, modi di intendere la vita familiare, forgiati non soltanto nella famiglia in cui sono cresciute, ma talvolta anche nei nuclei in cui hanno avuto precedenti esperienze matrimoniali o di convivenza. Questi uomini e queste donne, che provengono da diversi mondi, interagiscono in una rete di rapporti, che integra, utilizza, ricombina caratteristiche di rapporti familiari tradizionali, creandone allo stesso tempo di nuovi. Proprio per queste due prerogative fondamentali, che esprimono la complessità e la potenziale varietà di queste nuove famiglie, io preferisco chiamarle nuove famiglie aperte perché, a mio avviso, associano in modo originale alcuni caratteri delle famiglie estese tradizionali e delle comuni familiari. Famiglie aperte e comuni familiari: dai legami di sangue alle relazioni pure. Noi siamo abituati a pensare ai rapporti familiari in termini di legami di parentela e affinità. I primi sussistono tra consanguinei, mentre i secondi si creano tra un coniuge e i parenti dell'altro. Per esempio, la legge italiana prevede già da lungo tempo che, quando due vedovi si sposano, i figli di ciascuno dei due divengano affini dell'altro, ma non suoi parenti. I legami di parentela e affinità comportano una nutrita serie di diritti e doveri ben noti a tutti in una società. I genitori devono mantenere i figli, educarli e sostenerli finanziariamente, mentre i figli devono ai genitori obbedienza, rispetto e amore. Uno zio e un nipote o due cugini hanno rapporti definiti dalla legge e dalle consuetudini sociali, oltre che dal reciproco affetto o dalla vicendevole antipatia. Tra parenti e affini gli affetti sono dunque anche regolati da norme prestabilite, hanno limiti entro cui devono essere mantenuti. Per esempio, un patrigno o una matrigna non possono sposare i propri figliastri a causa del reciproco legame di affinità. La legge difende i rapporti di parentela ed è molto precisa nello specificare poteri, diritti e doveri tra consanguinei. Sui legami di affinità derivanti da seconde nozze di separati e di vedovi ha, invece, delle lacune. Per esempio, non attribuisce ai patrigni e alle matrigne, sposi in seconde nozze di vedovi, nessun obbligo né potere coi e sui figliastri. Lo stesso può dirsi per i nuovi coniugi di separati con prole, che si risposano. Benché nella realtà contemporanea si formino rapporti che possono diventare più forti dei vincoli di sangue, la legge non li regola e si limita a difendere i legami di parentela. Nel 20% circa delle famiglie intervistate nella mia ricerca pilota, il patrigno ha completamente sostituito il padre naturale, che è scomparso per volere dell'ex partner o per sua scelta, nella cura, nelle funzioni affettive e nel mantenimento dei figli. Quando il «patrigno» ha anche figli propri. Sovente i padri che hanno figli affidati alla ex moglie e, andando a convivere con una nuova partner, madre anch'essa, si ritrovano a condividere l'intimità quotidiana con i figli di lei, si sentono in colpa verso i propri, a cui dedicano meno tempo e cure. Questa situazione suscita sensazioni di disagio e rimpianto soprattutto se i figli sono piccoli. Quando sono adolescenti o giovani adulti, il rischio per il padre è di vederli poco o di perdere la confidenza che aveva con loro e che, talvolta, riesce invece a instaurare con i figli della nuova partner. In questo senso, il patrigno di Grazia, Franco, professore universitario a Siena, afferma di vedere Grazia più spesso dei figli che vengono a cena nella sua nuova casa soltanto una volta la settimana. Della sua esperienza racconta: «Per me la scelta di separarmi è stata molto faticosa perché implicava che abbandonassi la famiglia. Una volta deciso, ho cercato di far capire ai miei figli che loro contavano per me, ma contava anche la mia felicità». I figli di 20 e 18 anni hanno accettato abbastanza bene la separazione, avvenuta tre anni fa, e infatti Franco continua: «All'inizio sono stati molto protettivi verso loro madre e ora hanno un buon rapporto anche con Grazia e sua madre. Certo, ho l'impressione di aver perduto un poi di intimità con loro. Vedendoli poco mi è venuta a mancare la quotidianità: non sono più il padre che risolve materialmente i problemi. Per il resto, dal punto di vista psicologico e intellettuale, io rimango il padre e i ragazzi hanno con me un rapporto di fiducia. Io avverto più di loro la perdita della quotidianità. Invece, con Grazia non mi pongo per scelta come padre e non voglio intervenire nelle discussioni tra lei e sua madre. Mi limito a scherzare, a giocare, a fare comunella con lei contro la madre. Ma non le faccio da padre. Credo che Grazia mi consideri una presenza amica in casa, ma non un punto di riferimento». Vivere con la compagna del padre: né matrigna né amica. Alessandra, dipendente quarantaquattrenne di una multinazionale, e Giacomo, commercialista, si sono separati dopo sedici anni di matrimonio, quando le figlie Rachele e Letizia avevano rispettivamente 15 e 10 anni. La causa scatenante del divorzio è stata l'innamoramento di Alessandra per un altro uomo. Giacomo, tuttavia, afferma che il loro rapporto d'amore si era esaurito già tre o quattro anni prima perché: «Non ci prendevamo proprio più come carattere». Le figlie hanno scelto di restare con il padre, ma: «La madre le vede quando vuole. Abbiamo rapporti civili. Lei passa sotto casa, suona e le chiama o sale». Per parte sua, la madre afferma di aver lasciato le figlie al marito perché all'epoca della separazione non aveva lavoro e aveva una relazione, in seguito terminata, con un uomo. Commenta così la sua situazione: «Ho mantenuto un buon rapporto con le figlie, anche perché credo che loro si rendano conto che io e loro padre facciamo a gara per farle star bene». Rosa, la nuova moglie di Giacomo, ha portato con sé suo figlio Pasquale che, lei sostiene, si è molto affezionato alle ragazze. Lei si dice contenta di avere due figliastre in casa perché: «Desideravo una femmina. Quando mi sono separata, mio figlio era piccolo. Poi, per cinque anni nella mia vita c'è stata un'altra persona a cui Pasquale si è molto affezionato. Quando ci siamo lasciati, il bambino si è arrabbiato con me e mi ha accusato di avergli tolto anche Marco, dopo averlo allontanato dal padre. Tuttavia lui adesso è molto contento della situazione. La crisi, il sostegno sociale, il «racconto» e l'empowerment. Spesso una situazione di crisi viene considerata un evento negativo, insolito e, se possibile, da evitare. In termini psicologici è invece uno stato temporaneo di turbamento e disorganizzazione psichica, che subentra come conseguenza di stress particolarmente acuti oppure dopo una serie di eventi stressanti meno intensi, ma frequenti e ripetuti. Gli psicologi di comunità, tra cui mi annovero, vedono nella crisi una straordinaria opportunità per mutare la propria condizione esistenziale, anche in positivo. Una persona in crisi, infatti, tende a essere vulnerabile e suggestionabile e ha le sue normali difese destrutturate. Essendo quindi temporaneamente meno rigida, è anche più disponibile e aperta al cambiamento. La crisi acuta dura di solito un periodo di tempo limitato, perché non si possono tollerare a lungo alti livelli di disorganizzazione emozionale e cognitiva. Se si interviene però proprio durante la fase acuta, si può incidere maggiormente sull'evoluzione di tutta la crisi. Per uscire da una crisi occorre mobilitare risorse interne ed esterne e, poiché nella fase acuta le capacità individuali sono ridotte, è importante poter contare anche sul sostegno sociale. Gli psicologi di comunità definiscono sostegno sociale l'aiuto emotivo, relazionale e materiale che si può dare e ricevere nelle reti sociali. Esistono due tipi di sostegno sociale, quello informale e quello formale. Il primo viene offerto da parenti, amici e da altre persone con cui si hanno rapporti di conoscenza e fiducia, mentre il secondo dai servizi pubblici, dai professionisti che operano nei centri di cura e dalle associazioni di volontariato. Nell'interazione con i due sistemi di supporto, formale e informale, ciascuno di noi elabora il «racconto» della propria vita. Questa nostra interpretazione, che dà significato ai vissuti individuali, viene in parte influenzata dai «racconti» che gli altri fanno di noi e, in generale, dagli eventi significativi della nostra esistenza. In tutte le forme di psicoterapia si dà, da sempre, grande importanza al modo in cui ci si racconta. Infatti, fare una psicoterapia riuscita significa spesso anche rileggere la propria storia familiare e personale in un'ottica diversa, che rende più liberi nell'affrontare novità e cambiamenti. Grazie a queste sue potenzialità, oltre che in psicoterapia, lo strumento del racconto comincia a venire usato oggi anche in altri ambienti - dalle aziende ai sindacati, dalle organizzazioni di quartiere agli ordini professionali, dai partiti politici alle associazioni ambientaliste - per interpretare e confrontare diverse culture organizzate. Di recente si è cercato di capire come le storie individuali vengano influenzate da quelle delle collettività. Ognuno di noi, infatti, vive in numerosi contesti e ha, nel modo in cui la sua storia individuale viene costruita e trasformata da ciascuno di essi, uno strumento di cambiamento psicologico, relazionale e comportamentale. Secondo lo psicologo statunitense Rappaport, l'identità personale muta nel corso di un processo di interazione tra singoli e comunità, che è influenzato dai racconti individuali e collettivi. Altri autori teorizzano che l'identità personale e quella sociale siano basate sui racconti delle comunità, che si sono immagazzinati come storie rilevanti a livello personale. Nuovi racconti vengono facilmente assimilati, se rievocano ricordi e aspettative già presenti nel proprio bagaglio di esperienze. Il modo in cui raccontiamo gli avvenimenti della nostra vita ci fa sentire più o meno padroni di noi stessi, più o meno potenti. Vedere la nostra esistenza come una serie di eventi che ci sono capitati per fortuna o per sfortuna è, infatti, molto diverso da descrivere i fatti della nostra vita come determinati, almeno in parte, dalle nostre azioni. In questo senso, ascoltando nel mio lavoro innumerevoli storie, sono rimasta colpita da come fatti molto simili (una separazione, la perdita del lavoro o un successo professionale) possano essere presentati e interpretati diversamente. Ci sono persone che riescono a trovare elementi positivi in esperienze che sembrano negative, e altre che si vedono sempre allo stesso modo in qualsiasi situazione, per esempio come vittime della propria ingenuità e della malafede altrui oppure come individui che, soltanto per merito proprio, hanno superato ogni genere di ostacoli. A mio avviso, è auspicabile allevare individui che abbiano senso della storia, dell'etica, che si sentano parte di una comunità, eredi di un passato e protagonisti di un futuro che hanno desiderato, fautori di una «morale attiva»; una morale attiva ... non è una semplice fuga dal mondo o un lamento, ma un'azione intenzionale volta a modificare la realtà. Per modificare la realtà bisogna che l'azione degli uomini si inserisca nel contesto vivente in un modo razionale, conoscendolo. Il conoscere è strumento di moralità. La morale non può essere pura interiorità, puro slancio, pura aspirazione, nostalgia o benevolenza, deve diventare costruzione attiva, miglioramento del mondo ... Se la vita si è evoluta come costante soluzione dei problemi, come lotta, ci deve essere anche un significato positivo nella capacità di affrontare con successo la sua sfida. Non sapendo con certezza come favorire la crescita di più persone con questi valori, bisognerà dedicare all'educazione dei nostri figli le risorse finanziarie, intellettuali e affettive che finora abbiamo riservato alla competizione bellica ed economica, alla creazione di oggetti sempre migliori. E' un compito immane, una nuova frontiera che l'umanità dovrà tentare di varcare. Come fare? Abbiamo degli indizi, dei segnali deboli che ci suggeriscono come migliorare la qualità della vita e come interessare sempre più persone al benessere comune, oltre che al proprio. I mass media possono avere un grande impatto sul mondo dei desideri e delle rappresentazioni mentali e proporre miti e identificazioni positive. Oggi la tecnologia permette di moltiplicare le occasioni di confronto, apprendimento, dibattito su ogni questione di interesse sociale. Grazie ai mezzi di comunicazione di massa si possono innescare processi di larga portata di riflessività istituzionale. Il pianeta si avvia a diventare un grande sistema nervoso formato dall'insieme dei cervelli umani e delle intelligenze artificiali. Gli stimoli lanciati dai mass media possono essere discussi e rielaborati da persone riunite in piccoli gruppi, faccia a faccia, in cui ciascuno può sviluppare una maggiore identificazione e un più forte senso di appartenenza. Nella scuola insegnanti incentivate e aggiornate possono creare un ambiente affettivo che favorisca la crescita di studenti meno violenti, più collaborativi e con una più spiccata autostima. Si possono investire maggiori risorse nella scuola, nella ricerca pedagogica, e sperimentare programmi innovativi. Attualmente, per esempio, il ministero della Pubblica istruzione olandese sta rivoluzionando i programmi delle scuole medie superiori, dove verranno tenute lezioni soltanto su due o tre materie e si insegnerà, con speciali metodologie, a risolvere problemi, a pensare e a sviluppare altre competenze creative. Per portare a termine questa riforma, il governo dei Paesi Bassi sta formando in modo innovativo migliaia di insegnanti che in futuro diventeranno i consulenti dei loro allievi. Molte energie potrebbero essere dedicate all'educazione permanente degli adulti, alla formazione professionale, al collegamento tra mondo della scuola e mondo del lavoro, non solo per favorire, come si fa già oggi, l'inserimento dei giovani nel secondo, ma anche per utilizzare nella scuola le competenze di coloro che vanno in pensione. Gli edifici scolastici, ora inutilizzati il pomeriggio e la sera, potrebbero diventare luoghi di incontro per gli abitanti del quartiere, spazi per iniziative di vari tipi di aggregazione. In molti luoghi di lavoro si è già cominciata una riorganizzazione delle attività per andare incontro alle esigenze di padri e madri e, in generale, di tutti. Esperimenti di nuovi orari, di telelavoro, di mobilità orizzontale, di alternanza di anni di studio e di lavoro sono in corso in vari paesi. Parallelamente sono state sperimentate, ormai da anni, nuove forme di partecipazione economica, giuridica e funzionale dei lavoratori. Numerose indagini dimostrano che, nei luoghi di lavoro in cui le persone riescono a decidere con intelligenza e affettività, si riescono ad avere risultati migliori, maggior soddisfazione e solidarietà e dipendenti e collaboratori più sani e meno stressati. Le nuove tecnologie dei sistemi informativi rendono possibili varie forme di sperimentazione di lavori di gruppo a distanza e di attività da svolgere a casa. Nuove tecnologie formative interattive possono stimolare lo spirito d'iniziativa, aiutando gli individui a diventare imprenditori di se stessi e diminuendo il bisogno di sicurezza che fa desiderare un posto fisso, un lavoro stabile, anche se non gratificante.