/<1994>/ Entro maggio le caratteristiche tecniche di Babylon erano state stabilite. Sarebbe stato un ordigno incredibile. Un metro di diametro, una canna lunga 156 metri e un peso di 1665 tonnellate: più del doppio dell'altezza della colonna di Nelson a Londra, l'altezza del monumento a Washington. Quattro cilindri antirinculo del peso di sessanta tonnellate ciascuno e due ammortizzatori cilindrici da sette tonnellate. La culatta avrebbe pesato 182 tonnellate. L'acciaio doveva essere di tipo speciale, in grado di resistere a una pressione interna di 31.000 chilogrammi per pollice quadrato, e con una forza di tensione di 1250 megapascal. Bull aveva già spiegato a Baghdad che avrebbe dovuto costruire prima un prototipo meno grande, un Mini-Babylon con un calibro di 350 mm e un peso di sole 113 tonnellate; con esso, però, avrebbe potuto collaudare le ogive che sarebbero state utilizzate anche per il progetto dei razzi. Gli iracheni si dimostrarono soddisfatti: avevano bisogno anche della tecnologia delle ogive. A quel tempo, a quanto pare, Gerry Bull non si rendeva conto del pieno significato del loro insaziabile desiderio di ogive. Forse, preso dall'entusiasmo di vedere finalmente realizzato il grande sogno della sua vita, preferiva non pensarci. Le ogive di modello molto avanzato sono necessarie per impedire che un carico utile venga bruciato dal calore prodotto dall'attrito quando rientra nell'atmosfera terrestre. Ma i carichi messi in orbita intorno alla terra non ritornano: restano nello spazio. Verso la fine di maggio del 1988 Christopher Cowley inviò alla Walter Somers di Birmingham i primi ordini per le sezioni di tubo che dovevano formare la canna del Mini-Babylon. Le sezioni per i Babylon Uno, Due, Tre e Quattro a grandezza normale sarebbero venute più avanti. Diversi ordini altrettanto strani furono piazzati qua e là in tutta l'Europa. Bull lavorava a un ritmo impressionante. In due mesi aveva ottenuto risultati per raggiungere i quali un organismo governativo avrebbe impiegato due anni. Prima della fine del 1988 aveva progettato per l'Iraq due nuovi cannoni semoventi, non più trainati come quelli forniti dal Sudafrica. Erano pezzi così potenti che avrebbero annientato i cannoni delle nazioni confinanti, Iran, Turchia, Giordania e Arabia Saudita, forniti dalla Nato e dall'America. Bull era anche riuscito a risolvere il problema di collegare cinque Scud per formare il primo stadio del razzo Bird, destinato a essere chiamato Al-Abeid, il Credente. Aveva scoperto che a Saad 16 iracheni e brasiliani lavoravano basandosi su dati errati, ottenuti in una galleria del vento difettosa. Dopo essere intervenuto, Bull aveva consegnato i suoi calcoli e aveva lasciato ai brasiliani il compito di proseguire. Nel maggio 1989 numerosi esponenti dell'industria degli armamenti e della stampa, osservatori di vari governi e dirigenti dei servizi segreti visitarono una grande esposizione specializzata, organizzata a Baghdad. I modelli dei prototipi dei due grandi cannoni destarono un interesse considerevole. In dicembre, l'Al-Abeid fu collaudato sul campo fra lo stupore dei media e le serie preoccupazioni degli analisti occidentali. Le telecamere irachene inquadrarono il grande razzo a tre stadi che si innalzava rombando dalla Base Ricerche Spaziali di Al-Anbar, si allontanava dalla terra e scompariva. Tre giorni più tardi Washington ammise che effettivamente il razzo sembrava in grado di collocare in orbita un satellite. Ma gli analisti pervennero a ulteriori conclusioni. Se il razzo Al-Abeid poteva fare una cosa simile, poteva anche essere usato come missile balistico intercontinentale. I servizi segreti occidentali dovettero abbandonare la rassicurante convinzione che Saddam Hussein non costituisse un vero pericolo e che fosse ben lontano dal diventare una minaccia seria. I tre servizi segreti più importanti, la CIA in America, il Sis in Gran Bretagna e il Mossad in Israele pervennero alla conclusione che il cannone Babylon fosse un divertente giocattolo e che il razzo Bird fosse invece estremamente temibile. Ma sbagliavano tutti e tre. Quello che non funzionava era L'Al-Abeid. Bull sapeva il perché, e spiegò agli israeliani cosa era successo. L'Al-Abeid era salito a un'altitudine di 12.000 metri ed era sparito. Il secondo stadio aveva rifiutato di separarsi dal primo. In quanto al terzo stadio, non esisteva. Era finto. Bull lo sapeva perché era stato incaricato di cercare di convincere la Cina a fornire il terzo stadio, e in febbraio sarebbe appunto partito per Pechino. Fra gli addetti ai lavori il Capo viene chiamato semplicemente "C"; a prima vista l'iniziale parrebbe significare "Capo", ma non è così. Il primo Capo della storia fu l'ammiraglio sir Mansfield Cummings, e la "C" deriva dal cognome del defunto gentiluomo. Al di sotto del Capo ci sono due vicecapi, e al di sotto di costoro ci sono cinque assistenti capi. Questi ultimi dirigono i cinque dipartimenti principali: Operazioni (che raccoglie le informazioni clandestine); Intelligence (che le analizza e ne ricava un quadro significativo, ove possibile); Tecnico (responsabile dei documenti falsi, delle minicamere, degli scritti segreti, delle comunicazioni ultracompatte e di tutto il resto dell'attrezzatura necessaria per fare qualcosa di illegale e cavarsela impunemente in un mondo ostile); Amministrazione (che si occupa di stipendi, pensioni, elenchi del personale, bilancio, contabilità, ufficio legale, archivio centrale ecc.); e infine Controspionaggio (che per mezzo di continui controlli e accertamenti si sforza di evitare che elementi ostili si infiltrino nel servizio). Agli ordini del dipartimento Operazioni vi sono i controllori, che si occupano delle varie divisioni nel quadro mondiale (Emisfero Occidentale, Blocco Sovietico, Africa, Europa, Medio Oriente e Australasia) con un ufficio separato per il Collegamento, che ha il compito delicatissimo di collaborare con i servizi segreti "amici". A essere sinceri, l'organizzazione non è poi così semplice e ordinata quanto si potrebbe credere (nulla di ciò che è britannico lo è mai del tutto); eppure sembra che se la cavi. Nell'agosto del 1990 al centro dell'attenzione vi era il Medio Oriente, e in particolare l'Ufficio Iraq, su cui sembrava che fosse piombato, come un fan club chiassoso e sgradito, l'intero mondo politico e burocratico di Westminster e di Whitehall. Il vicecapo ascoltò ciò che avevano da dire il controllore e il direttore delle Operazioni per il Medio Oriente, e annuì più volte. Era o poteva essere una possibilità interessante. Non si poteva dire che dal Kuwait non arrivassero informazioni. Durante le quarantotto ore iniziali, prima che gli iracheni interrompessero i collegamenti telefonici internazionali, tutte le aziende britanniche con una filiale nel Kuwait si erano tenute in comunicazione per telefono, telex o fax con il loro rappresentante locale. L'ambasciata del Kuwait aveva assediato il Foreign Office segnalando i primi episodi di atrocità e chiedendo la liberazione immediata del proprio paese. Il problema stava nel fatto che nessuna delle operazioni apparteneva alla categoria che il Capo avrebbe potuto presentare al governo come assolutamente attendibile. Dopo l'invasione, il Kuwait era diventato un "gigantesco casino", per usare l'espressione cui sei ore prima era ricorso il ministro degli Esteri. Perfino il personale dell'ambasciata britannica era rinchiuso nella sua sede sulla riva del Golfo, quasi all'ombra delle famose Torri del Kuwait, e cercava di mettersi in contatto telefonico con i cittadini britannici inclusi in un elenco molto approssimativo, per scoprire se stavano tutti bene. Gli spaventatissimi tecnici e uomini d'affari riferivano che ogni tanto sentivano sparare... "Provi a dirci qualcosa che non sappiamo" era la reazione abituale della Century House di fronte a tali rivelazioni. Ma un agente sul posto, un esperto di infiltrazioni e di operazioni clandestine in grado di passare per arabo... certo, poteva essere molto interessante. A parte le informazioni concrete su ciò che stava davvero succedendo, esisteva la possibilità di dimostrare ai politici che si stava facendo qualcosa e di fare andare di traverso a William Webster della CIA le immancabili mentine digestive. Il vicecapo non si faceva illusioni sulla stima, del resto ricambiata, che Margaret Thatcher nutriva per il Sas fin da quel pomeriggio del maggio 1980 in cui gli uomini del servizio speciale avevano spazzato via i terroristi dall'ambasciata iraniana a Londra e lei aveva trascorso la serata con la squadra nella caserma di Albany Street a bere whisky e ad ascoltare le loro audaci imprese. «Credo» disse finalmente «che sia meglio fare due chiacchiere con il Dsf». Quella mattina all'Hilton, mentre esaminava il fascio di rapporti, Rahmani pensò con sollievo che era una fortuna che quell'incarico non spettasse a lui. Era un incubo; e come aveva previsto, Saddam Hussein aveva giocato tutte le sue carte nel modo sbagliato. Il sequestro degli ostaggi occidentali, da usare come scudi umani contro gli eventuali attacchi, si stava rivelando un disastro controproducente. Il Rais si era lasciato sfuggire l'occasione di avanzare verso sud e di impadronirsi dei campi petroliferi sauditi per obbligare re Fahd a partecipare alla conferenza, e ora gli americani avevano cominciato ad affluire in massa nella zona. Tutti i tentativi di assimilare il Kuwait stavano fallendo ed entro un mese, probabilmente anche meno, l'Arabia Saudita sarebbe diventata inespugnabile grazie allo scudo americano installato lungo il confine settentrionale. Ormai, pensava Rahmani, Saddam Hussein non avrebbe più potuto ritirarsi dal Kuwait senza subire un'umiliazione, e meno che mai restarvi se fosse stato attaccato. Nonostante questo, negli ambienti intorno al Rais regnava ancora un'atmosfera di fiducia, come se egli fosse convinto che sarebbe successo qualcosa. Che cosa si aspettava? Che Allah si protendesse dal cielo e prendesse a ceffoni i suoi nemici? Rahmani si alzò e andò alla finestra. Gli piaceva muoversi mentre rifletteva: lo aiutava a mettere ordine nei suoi pensieri. Guardò fuori. La spiaggia, un tempo così splendida, era ridotta a una discarica di rifiuti. Nei rapporti ammucchiati sulla scrivania c'era qualcosa che lo inquietava. Tornò a esaminarli. Sì, c'era qualcosa di strano. Alcuni degli attacchi contro gli iracheni venivano compiuti con pistole e fucili, altri con bombe ricavate dal tritolo per uso industriale. Ma ce n'erano altri, una successione continua che indicava senza possibilità di dubbio l'uso di esplosivi plastici. Il Kuwait non aveva mai avuto esplosivi plastici, men che meno il Semtex-h. Chi lo stava usando, allora, e dove se l'era procurato? Poi c'erano le segnalazioni di una trasmittente anti-intercettazione che operava nel deserto e si spostava di continuo, entrava in funzione a orari diversi, diceva cose incomprensibili per dieci o quindici minuti e poi taceva, sempre in una posizione diversa dalla precedente. E c'erano i rapporti su uno strano beduino che, a quanto pareva, andava e veniva a piacimento; appariva, scompariva e ricompariva, lasciandosi sempre alle spalle una scia di distruzioni. Prima di morire per le ferite, due soldati avevano raccontato di avere visto quell'uomo, alto, sicuro di sé, con un lembo della keffiyeh a quadri bianchi e rossi che gli copriva il volto. Sotto tortura, due kuwaitiani avevano parlato della leggenda del beduino invisibile, ma avevano affermato di non averlo mai incontrato. Gli uomini di Sabaawi stavano cercando di convincere i prigionieri ad ammettere di averlo visto. Idioti. Certo che l'avrebbero ammesso... avrebbero inventato qualunque cosa pur di far cessare le loro sofferenze. Più Hassan Rahmani rifletteva, più si convinceva di avere a che fare con un infiltrato straniero. E ciò rientrava nella sua sfera di competenza. Era difficile credere che un beduino conoscesse gli esplosivi plastici e le ricetrasmittenti anti-intercettazione... se pure si trattava dello stesso uomo. Poteva darsi che avesse addestrato qualche terrorista a piazzare le bombe, ma sembrava che effettuasse personalmente gran parte degli attacchi. Non sarebbe stato possibile catturare tutti i beduini che si aggiravano nella città e nel deserto. Sarebbe stato il sistema adottato da quelli dell'Amam, ma avrebbero potuto continuare per anni a strappare le unghie alle loro vittime senza approdare a nulla. Per Rahmani il problema si riduceva a tre possibili scelte. Si poteva catturare l'uomo durante uno dei suoi attacchi, ma significava affidarsi al caso, e forse l'occasione non si sarebbe mai presentata. Si poteva catturare uno dei suoi complici kuwaitiani e rintracciare il suo covo. Oppure lo si poteva cogliere di sorpresa mentre trasmetteva dal deserto. Rahmani optò per la terza possibilità. Avrebbe fatto arrivare dall'Iraq un paio delle sue migliori squadre di specialisti, le avrebbe piazzate in posizioni diverse e avrebbe cercato, per mezzo della triangolazione, di localizzare la fonte della trasmissione. Avrebbe dovuto avere a disposizione un elicottero con una squadra delle Forze Speciali pronta a intervenire. Non appena rientrato a Baghdad, si sarebbe dato da fare. «Come fa a essere sicuro» chiese sir Paul, «che Saddam Hussein non abbia ancora la bomba?» «Semplice» rispose il fisico. «E' una questione di tempo. Non ne ha avuto a sufficienza. Per realizzare una bomba atomica elementare ma efficiente avrà bisogno dai trenta ai trentacinque chili di uranio 235 puro. Se è partito a freddo un anno fa, anche presumendo che la cascata in attività possa funzionare per ventiquattr'ore al giorno, e non può, un programma di separazione ha bisogno di almeno dodici ore per centrifuga. «Sono necessarie mille centrifugazioni per passare dalla purezza dello zero per cento a quella richiesta del novantatré per cento. In totale sono cinquecento giorni di attività. Poi bisogna calcolare la pulizia, la manutenzione, le riparazioni, le avarie. Anche con mille centrifughe funzionanti in cascata al momento e durante l'anno scorso, ci vorrebbero ancora cinque anni. Se l'anno prossimo faranno entrare in funzione un'altra cascata, il periodo si ridurrà a tre anni.» «Quindi Saddam non disporrà dei trentacinque chili come minimo fino al 1993?» chiese Sinclair. «No, non potrà averli.» «Un'ultima domanda. Dopo che avrà l'uranio, quanto tempo impiegherà per arrivare a una bomba atomica?» «Non molto. Poche settimane. Vede, un paese che decide di fabbricare una bomba atomica farà sicuramente funzionare in parallelo anche la parte che riguarda l'ingegneria nucleare. E l'ingegneria per la costruzione di una bomba non è complicata. Se uno scienziato sa il fatto suo, e Jaafar lo sa, non gli sarà difficile fabbricarne una e usarla. Diavolo, siamo stati noi a insegnarglielo a Harwell. «Ma l'importante è questo: calcolando i tempi, Saddam Hussein non può ancora avere uranio puro a sufficienza. Dieci chili al massimo. Come minimo gli mancano tre anni per arrivare alla meta.» Il dottor Hipwell ricevette i ringraziamenti per la sua analisi e la riunione si concluse. Sinclair sarebbe tornato alla sua ambasciata e avrebbe preparato gli appunti minuziosi che sarebbero giunti in codice in America, dove sarebbero stati comparati con le analisi dei fisici al lavoro nei laboratori di Sandia, Los Alamos e soprattutto Lawrence Livermore in California, dove da anni una sezione segreta, indicata semplicemente come Dipartimento z, seguiva per conto del dipartimento di Stato e del Pentagono la costante diffusione della tecnologia nucleare nel mondo. Sebbene Sinclair non potesse saperlo, gli accertamenti dei gruppi di ricerca britannici e americani si confermavano a vicenda in misura considerevole. Terry Martin e Simon Paxman lasciarono insieme la riunione e si avviarono attraverso Whitehall sotto il mite sole di ottobre. « E' un vero sollievo» disse Paxman. «Il vecchio Hipwell era molto convinto. E a quanto pare gli americani sono d'accordo. Quel bastardo di Saddam non è ancora arrivato all'atomica. Un incubo di meno.» Si separarono all'angolo. Paxman attraversò il Tamigi e si diresse verso la Century House; Martin tagliò per Trafalgar square e si avviò lungo St. Martinis lane verso Gower street. Una cosa era stabilire ciò di cui l'Iraq disponeva o poteva disporre; un'altra era localizzarlo con esattezza. Le fotografie continuavano ad affluire. I kh-11 e i kh-12 navigavano senza sosta nei cieli e fotografavano tutto ciò che vedevano sulla superficie dell'Iraq. In ottobre era entrato in attività un altro mezzo, un nuovo aereo da ricognizione americano così segreto che perfino in Campidoglio ne ignoravano l'esistenza. Indicato con il nome in codice "Aurora", volava ai margini dello spazio interno, raggiungeva la velocità Mach 8, quasi ottomila chilometri orari, procedendo nella sua stessa sfera di fuoco, l'effetto ramjet, molto al di là della portata dei radar e dei missili iracheni. Neppure la tecnologia dell'agonizzante Unione Sovietica poteva individuare l'Aurora, che aveva sostituito il leggendario sr-71 Blackbird. «Non ne abbiamo il tempo, Steve. E' una cosa urgente. Non possiamo seguire la stessa strada degli israeliani. Tre settimane... è una pazzia. Allora poteva anche funzionare, ma adesso Baghdad è sul piede di guerra. La situazione è molto cambiata. Partendo da zero avrei bisogno di almeno tre mesi per insegnare i trucchi del mestiere a un diplomatico.» Stewart annuì. «Altrimenti dobbiamo trovare qualcuno che abbia regolare accesso a Baghdad. Ci sono uomini d'affari che ancora vanno e vengono, soprattutto tedeschi. Potremmo fabbricare un tedesco o un giapponese del tutto credibile.» «Il guaio è che si fermano sempre troppo poco. E a noi servirebbe qualcuno che possa fare da chioccia a Gerico per i prossimi... quanti?... quattro mesi. E se fosse un giornalista?» propose Laing. Paxman scosse la testa. «Parlo con tutti, quando lasciano l'Iraq. Proprio perché giornalisti, vengono sorvegliati a tempo pieno. Un corrispondente straniero non può andare a curiosare nei vicoli... hanno sempre dietro un gorilla dell'Amam. E poi non dimentichiamo che, se si esclude un diplomatico accreditato, parliamo di un'operazione clandestina. C'è qualcuno che sia disposto a riflettere su quello che succede a un agente caduto nelle mani di Omar Khatib?» Tutti e quattro avevano sentito parlare della reputazione di brutalità di Khatib, il capo Dell'Amam, soprannominato Al Muiazib, il Torturatore. «Può darsi che saremo costretti a correre dei rischi» commentò Barber. «Io alludevo alla difficoltà di trovare qualcuno che accetti» fece notare Paxman. «Un uomo d'affari o un giornalista non lo farebbe mai, se sapesse cosa gli capiterebbe in caso di cattura. Personalmente, all'Amam preferirei il KGB.» Bill Stewart posò la forchetta in gesto di resa e chiese un altro bicchiere di latte. «Dunque non c'è niente da fare. A meno di trovare un agente ben addestrato che possa spacciarsi per iracheno.» Paxman lanciò un'occhiata a Steve Laing, che rifletté per un istante e annuì. «Noi abbiamo un uomo che può riuscirci» disse Paxman. «Un arabo addomesticato? Ne ha il Mossad e ne abbiamo anche noi» obiettò Stewart. «Ma non a questo livello. Portamessaggi, trovarobe. Questa è una missione ad alto rischio e di alto valore.» «No, un inglese. Un maggiore del Sas.» Stewart, che si stava portando alle labbra il bicchiere di latte, si bloccò. Barber posò il coltello e la forchetta e smise di masticare la bistecca. «Una cosa è parlare l'arabo, un'altra è passare per iracheno in Iraq» commentò Stewart. «Ha carnagione scura, capelli neri, occhi castani, ma è britannico al cento per cento. E' nato e cresciuto in Iraq e può passare per iracheno.» «Ed è addestrato per le operazioni clandestine?» chiese Barber. «Merda, dove diavolo è?» «In questo momento è in Kuwait» rispose Laing. «Accidenti! E' bloccato là? Rintanato da qualche parte?» «No. A quanto sembra, si muove con una certa libertà.» «Allora, se può lasciare il paese, cosa diavolo ci resta a fare?» «Ad ammazzare gli iracheni.» Stewart rifletté, quindi annuì lentamente. «Ha un bel paio di palle» mormorò. «Potete farlo uscire? Ci piacerebbe prenderlo a prestito.» «Credo che potremo dirglielo, la prossima volta che si farà sentire via radio. Ma dovremmo essere noi a gestirlo. E divideremmo il prodotto con voi.» Stewart annuì di nuovo. «Penso che si possa fare. Voi ci avete portato Gerico. D'accordo. Sistemerò tutto con il giudice.» Paxman si alzò e si asciugò la bocca. «Sarà meglio avvertire Riyadh» disse. Mike Martin era un uomo abituato a decidere della propria sorte, ma in quel mese di ottobre riuscì a salvarsi per puro caso. Avrebbe dovuto effettuare una chiamata via radio alla casa designata del Sis alla periferia di Riyadh la sera del 19, la stessa sera in cui i quattro alti esponenti della CIA e della Century House stavano cenando a South Kensington. Se lo avesse fatto, a causa delle due ore di differenza avrebbe finito di trasmettere prima che Simon Paxman potesse tornare alla Century House e avvertire Riyadh che avevano bisogno di lui. L'effrazione da parte degli esperti della squadra neviot non si era rivelata un problema; le microspie erano state rapidamente sistemate in salotto, in camera da letto e nel telefono. La perquisizione era stata rapida, abile e condotta senza lasciare tracce, ma si era dimostrata inutile. Aveva rivelato i soliti documenti: gli atti di proprietà della casa, i passaporti, i certificati di nascita e quello di matrimonio e persino una serie di rendiconti bancari. Tutto era stato fotografato, ma una semplice occhiata ai rendiconti aveva provato l'assenza di indizi di malversazione ai danni della Winkler Bank. Esisteva addirittura l'orribile possibilità che l'uomo fosse del tutto onesto. Il guardaroba e i cassetti della camera da letto non contenevano nulla che facesse pensare a quelle bizzarre abitudini personali che costituiscono sempre un ottimo materiale di ricatto per il rispettabile ceto medio. E il capo della squadra neviot, dopo aver visto Frau Gemütlich uscire di casa, non ne era per nulla sorpreso. Se la segretaria del banchiere era scialba, la moglie sembrava un pezzo di carta straccia. L'israeliano non aveva mai visto una persona tanto depressa. Quando la ragazza della squadra yarid aveva comunicato via radio che la moglie del banchiere stava per tornare a casa, gli esperti della squadra neviot avevano già finito e se n'erano andati. La porta d'ingresso era stata richiusa dall'uomo con l'uniforme della società telefonica dopo che gli altri erano usciti passando dal retro e attraverso il giardino. Da quel momento, la squadra neviot avrebbe sorvegliato i registratori a bordo del furgone in fondo alla strada, all'ascolto di ciò che succedeva in casa. Dopo due settimane il capo della squadra neviot, disperato, riferì a Barzilai che non erano riusciti a riempire neppure un nastro. La prima sera avevano registrato una ventina di parole. «La moglie ha detto: "Ecco la tua cena, Wolfgang". Nessuna risposta. Ha chiesto delle tende nuove, e lui ha rifiutato. Poi il marito ha detto: "Vado a dormire, domani devo alzarmi presto".» «Dice la stessa cosa tutte le maledette sere, come se lo ripetesse da trent'anni» si lamentò il capo della squadra neviot. «Niente sesso?» chiese Barzilai. «Vorrai scherzare, Gidi. Non si parlano neppure, figurarsi se scopano.» Tutti gli altri tentativi di scoprire una possibile debolezza nel personaggio di Wolfgang Gemütlich diedero risultati simili. Non giocava d'azzardo, non correva dietro ai ragazzini, non frequentava nessuno, non andava per locali notturni, non aveva un'amante, non metteva mai piede nel quartiere a luci rosse. Una sera, alla vista di Gemütlich che usciva di casa, l'umore dei pedinatori migliorò di colpo. Gemütlich comparve sulla soglia poco prima di cena e si avviò a piedi nel sobborgo buio. Giunse davanti a una casa privata, cinque isolati più avanti. Bussò e attese. La porta si aprì e subito si chiuse alle sue spalle. Poco dopo si accese una luce al piano terreno, dietro le pesanti tende. Prima che la porta si richiudesse, uno dei pedinatori israeliani intravide una donna dall'aria severa e dal grembiule bianco. Bagni estetici, forse? Docce "assistite", saune miste con due robuste fanciulle che maneggiavano rami di betulla? Il mattino dopo, un controllo condusse alla scoperta che la donna era un'anziana pedicure e riceveva i clienti in casa. Wolfgang Gemütlich era andato a farsi togliere i calli. Il primo dicembre Gidi Barzilai ricevette una strigliata da Kobi Dror. Non era un'operazione senza limiti di tempo. L'Onu aveva dato tempo all'Iraq fino al 16 gennaio per ritirarsi dal Kuwait. Poi sarebbe cominciata la guerra. Poteva succedere qualunque cosa. Quindi doveva sbrigarsi. «Gidi, possiamo pedinare quel bastardo all'infinito» dissero i due capisquadra. «Non c'è niente di irregolare nella sua vita. Non fa niente che possiamo sfruttare contro di lui.» Barzilai era alle prese con un dilemma. Avrebbe potuto sequestrare la moglie e far sapere a Gemütlich che avrebbe fatto bene a collaborare, altrimenti... Il guaio era che quel depravato sarebbe stato disposto a perderla piuttosto che rubare un buono-mensa. Peggio ancora, avrebbe chiamato la polizia. La grossa Mercedes grigia era bloccata nel traffico. L'autista premeva furiosamente sul clacson per aprirsi un varco nel fiume di automobili, furgoni, banchi del mercato e carretti che formano un groviglio pullulante fra le strade Khulafa e Rashid. Era la vecchia Baghdad, dove bottegai e mercanti, venditori di stoffe, oro e spezie e di quasi tutte le merci conosciute al mondo facevano affari da dieci secoli. L'auto svoltò nella via della Banca, ostruita su entrambi i lati da veicoli parcheggiati, e finalmente arrivò in via Shurja. Più avanti, il mercatino dei venditori di spezie creava una barriera impenetrabile. L'autista girò la testa. « E' impossibile proseguire.» Leila Al-Hilla annuì e attese che le aprissero la portiera. Accanto all'autista era seduto Kemal, la guardia del corpo personale del generale Kadiri, un massiccio sergente del Corpo Corazzato, assegnato da anni al servizio di Kadiri. Leila lo detestava. Dopo qualche istante il sergente scese, si raddrizzò in tutta la sua statura e aprì la portiera posteriore. Sapeva che Leila lo aveva umiliato ancora una volta. Glielo si leggeva negli occhi. Lei scese dalla macchina senza degnarlo di un'occhiata o di una parola di ringraziamento. Uno dei motivi per cui odiava la guardia del corpo era che la seguiva dappertutto. Certo, era il compito che gli aveva assegnato Kadiri, ma non per questo lei lo detestava di meno. Quando era sobrio, Kadiri era un vero militare professionista, ma era anche follemente geloso. Non voleva che lei girasse sola per la città. L'altro motivo per cui Leila detestava il sergente era il fatto che lui la desiderava. La sua lunga vicenda di degradazione le aveva ormai insegnato che qualunque uomo poteva desiderare il suo corpo; se il prezzo fosse stato equo, lei lo avrebbe soddisfatto, per quanto potessero essere bizzarre le sue richieste. Ma Kemal la insultava nel modo peggiore. Era povero. Come osava nutrire certi pensieri? Eppure era così: provava per lei un miscuglio di disprezzo e di brutale desiderio e lo lasciava trasparire appena si rendeva conto che il generale Kadiri non stava guardando. Da parte sua, Kemal intuiva la ripugnanza di Leila e si divertiva a insultarla con le occhiate mentre a parole manteneva un atteggiamento formale. Leila si era lamentata con Kadiri per l'insolenza del suo sergente, ma lui si era limitato a riderne; poteva sospettare che ogni uomo la desiderasse, ma al tempo stesso concedeva a Kemal molte libertà perché Kemal gli aveva salvato la vita nelle paludi di Fao, durante la guerra contro gli iraniani. E Kemal sarebbe stato disposto a morire per lui. Il sergente sbatté la portiera e restò a fianco di Leila mentre lei proseguiva a piedi per via Shurja. La zona in sui si trovavano è chiamata Agid al Nasara, la Zona dei Cristiani. Oltre alla chiesa di San Giorgio al di là del fiume, costruita dagli inglesi protestanti, in Iraq esistono tre sette cristiane, che insieme rappresentano circa il 7 per cento della popolazione. La più numerosa è la setta assira o siriaca, la cui cattedrale sorge nella Zona dei Cristiani, in via Shurja. A un chilometro e mezzo di distanza vi è la chiesa armena, vicina a un altro intrico di viuzze e di vicoli dalla storia secolare, chiamato Camp el Arman, il vecchio quartiere armeno. Accanto alla cattedrale siriaca sorge San Giuseppe, la chiesa dei cristiani caldei, la setta meno numerosa. Se il rito siriaco è simile a quello greco ortodosso, i caldei sono un ramo della chiesa cattolica. Il più famoso iracheno della setta cristiano-caldea era allora il ministro degli Esteri Tariq Aziz, sebbene la sua dedizione assoluta nei confronti di Saddam Hussein e della sua politica di genocidio facesse pensare che si era allontanato dagli insegnamenti del Principe della Pace. Anche Leila Al-Hilla era caldea di nascita, e ora il suo retaggio le si stava rivelando utile. La villa era da tempo stata attrezzata di una saletta per le comunicazioni, presidiata ora dal personale del ministero. Tutti i contatti con i comandi del corpo carristi intorno a Baghdad avvenivano per mezzo dei cavi a fibre ottiche sotterranei e irraggiungibili per i bombardieri. Solo le unità più lontane dovevano essere contattate per radio, correndo il rischio di un'intercettazione; e lo stesso, naturalmente, avveniva per quelle trasferite nel Kuwait. Ma il problema del generale Kadiri, mentre l'oscurità calava su Baghdad, non era il modo di contattare i comandanti della sua brigata corazzata, e neppure gli ordini da impartire. Le sue truppe non avrebbero comunque potuto prendere parte alla guerra aerea, e avevano avuto disposizioni di disperdere i carri armati per quanto era possibile fra le file dei simulacri, o di nasconderli nei bunker sotterranei e restare in attesa. Il vero problema era la sua sicurezza personale, e non erano gli americani a fargli paura. Due notti prima si era alzato dal letto con la vescica che scoppiava, intontito come al solito dall'arak, e si era avviato barcollando verso il bagno. Aveva avuto l'impressione che la porta si fosse incastrata e aveva spinto con forza. I suoi novanta chili avevano strappato il catenaccio interno, e l'uscio si era spalancato. Poteva anche essere intontito dall'alcol, ma Abdullah Kadiri non sarebbe arrivato dai vicoli di Tikrit a comandare tutti i carri armati iracheni al di fuori di quelli della Guardia Repubblicana, non si sarebbe arrampicato sulla scala infida dei dissidi interni del partito Baiath, non avrebbe conservato un posto di fiducia nel Consiglio del Comando della Rivoluzione se non avesse posseduto ampie riserve di pura astuzia animale. Si era fermato a fissare in silenzio la sua amante che, in vestaglia, stava seduta sul gabinetto con un foglio appoggiato a una scatola di kleenex, la bocca atteggiata in una smorfia di orrore e di sorpresa, la penna ancora a mezz'aria. L'aveva sollevata di peso e l'aveva colpita con un pugno al mento. Prima di farla rinvenire gettandole in faccia una caraffa d'acqua, Kadiri aveva avuto il tempo di leggere il rapporto che lei stava preparando e di chiamare il fedele Kemal. Era stato Kemal a portare la puttana in cantina. Kadiri aveva letto e riletto il rapporto che la donna aveva quasi completato. Se avesse parlato delle sue abitudini e preferenze personali in preparazione di un futuro ricatto, egli non avrebbe dato importanza alla cosa, e avrebbe soltanto ordinato di ucciderla. Nessun ricatto, in ogni caso avrebbe mai funzionato. Sapeva che molti degli intimi del Rais erano peggio di lui. E sapeva anche che al Rais non importava affatto. Ma questo era peggio. A quanto pareva, lui aveva parlato di cose che accadevano ai massimi livelli del governo e dell'Esercito. Era ovvio che la donna l'aveva spiato. Kadiri doveva sapere per quanto tempo l'aveva fatto, cosa aveva riferito e soprattutto a chi. Con il permesso del suo padrone, Kemal aveva iniziato col concedersi ciò che bramava da molto tempo. Nessun uomo avrebbe potuto desiderare ciò che era rimasto di Leila dopo che la guardia del corpo aveva terminato l'interrogatorio. C'erano volute diverse ore. A quel punto, Kadiri aveva avuto la certezza che Kemal fosse riuscito a scoprire tutto, o se non altro tutto ciò che sapeva la puttana. Kemal aveva quindi continuato a spassarsela, fino a quando Leila era morta. Kadiri era convinto che la donna non avesse mai conosciuto la vera identità di colui che l'aveva reclutata e gestita per spiarlo, ma il quadro generale corrispondeva ad Hassan Rahmani. La descrizione dello scambio fra le informazioni e il denaro nel confessionale della chiesa di San Giuseppe dimostrava che l'uomo era un professionista; e Rahmani lo era di sicuro. Kadiri non era allarmato dall'idea di essere sorvegliato; tutti coloro che circondavano il Rais venivano controllati e si spiavano a vicenda. Le regole fissate dal Rais erano semplici e chiare. Ogni personaggio di alto rango era tenuto sotto sorveglianza da tre dei propri pari. Una denuncia per tradimento poteva portare alla rovina, e così ben poche cospirazioni potevano arrivare lontano. Uno degli individui che ne era a conoscenza lo avrebbe riferito, e la cosa sarebbe arrivata all'orecchio del Rais. Il primo sarebbe un tentativo di imporre dall'esterno un governo consociativo che abbracci tutte le fazioni principali in un'ampia coalizione. A nostro giudizio, una struttura del genere sopravviverebbe al potere per un periodo molto limitato. Le vecchie rivalità tradizionali la farebbero letteralmente a pezzi in pochissimo tempo. I curdi approfitterebbero senza dubbio dell'occasione, a loro negata per tanto tempo, di optare per la secessione e la costituzione di una loro repubblica nel nord. Un governo centrale debole basato sulle convergenze si troverebbe nell'impossibilità di prevenire una simile mossa. La reazione dei turchi sarebbe prevedibile e furiosa, dato che la loro minoranza curda lungo le zone di confine si affretterebbe a unirsi ai compatrioti oltre confine in una resistenza molto più vigorosa contro il dominio della Turchia. A sud-est, la maggioranza sciita intorno a Bassora e allo Shatt-al-Arab troverebbe senza dubbio ragioni valide per aprire a Teheran. L'Iran sarebbe tentato di vendicare il massacro dei suoi giovani nel corso della guerra con l'Iraq, e accoglierebbe tali aperture nella speranza di annettere l'Iraq sudorientale avvantaggiandosi della debolezza di Baghdad. Gli Stati filo-occidentali del Golfo e l'Arabia Saudita piomberebbero in una condizione molto simile al panico al solo pensiero che l'Iran si possa estendere fino ai confini del Kuwait. Più a nord, gli arabi dell'Arabistan iraniano farebbero causa comune con i loro compatrioti insediati oltre il confine dell'Iraq, mossa che verrebbe spietatamente repressa dagli ayatollah di Teheran. All'interno dell'Iraq assisteremmo quasi sicuramente allo scoppio di combattimenti interminabili che mirerebbero a saldare vecchi conti e a instaurare la supremazia sui territori rimasti. Stiamo tutti seguendo con angoscia la guerra civile che oggi infuria fra serbi e croati nella ex Jugoslavia. Finora questi combattimenti non si sono estesi alla Bosnia, dove si trova in attesa una terza componente, quella dei musulmani bosniaci. Quando gli scontri si estenderanno alla Bosnia, come è inevitabile, i massacri saranno ancora più agghiaccianti. Riteniamo tuttavia che le sofferenze della Jugoslavia appariranno insignificanti in confronto alla prospettiva di un Iraq in piena disgregazione. In questo caso ci si può attendere una feroce guerra civile all'interno del paese, quattro guerre di confine e la completa destabilizzazione del Golfo. Il solo problema dei profughi coinvolgerebbe milioni di persone. L'unico piano d'azione alternativo possibile è che a Saddam Hussein succeda un altro generale o un gerarca del Baiath. Ma poiché tutti i gerarchi attuali hanno le mani sporche di sangue quanto il loro capo, è difficile capire quali benefici si potrebbero ottenere se il nostro venisse sostituito da una despota forse ancora più abile e astuto. La soluzione ideale, sebbene tutt'altro che perfetta, deve quindi consistere nel mantenimento dello status quo in Iraq, previa l'eliminazione di tutte le armi di distruzione di massa e la riduzione della potenza di quelle convenzionali fino al punto in cui non costituiscano una minaccia nei confronti degli Stati confinanti per almeno un altro decennio. Si potrebbe ribattere che le violazioni dei diritti umani da parte dell'attuale regime iracheno, se gli si permetterà di sopravvivere, subirebbero un drammatico giro di vite. Questo è indiscutibile. L'Occidente ha dovuto tuttavia assistere a eventi terribili in Cina, Russia, Vietnam, Tibet, Timor Orientale, Cambogia e in molte altre parti del mondo. Non è possibile che gli Stati Uniti impongano il rispetto dei diritti umani su scala mondiale, a meno che siano disposti ad affrontare una guerra globale permanente. L'esito meno catastrofico dell'attuale guerra del Golfo e della possibile invasione dell'Iraq sarebbe quindi la sopravvivenza al potere di Saddam Hussein quale unico padrone di un Iraq unito, benché militarmente indebolito e messo nell'impossibilità di aggredire altri paesi. Per tutte le ragioni finora esposte, sollecitiamo la rinuncia a ogni tentativo di uccidere Saddam Hussein o di marciare su Baghdad e occupare l'Iraq. Rispettosamente piag. Il 7 febbraio Mike Martin trovò il segno di gesso e la sera stessa ritirò la busta dal nascondiglio. Poco dopo mezzanotte montò l'antenna parabolica, la puntò verso l'esterno della sua baracca e dettò al registratore lo scritto in arabo dell'unico foglio di carta velina. Poi aggiunse la sua traduzione in inglese e trasmise il messaggio alle 0,16, un minuto dopo l'apertura della sua "finestra". «Ci siamo!» gridò l'operatore di turno quando l'esplosione sonora fu ritrasmessa a Riyadh dal satellite. «E' Orso Nero!» I quattro uomini insonnoliti che attendevano nell'ufficio adiacente si affrettarono a raggiungerlo. Il grande registratore appoggiato alla parete rallentò e decifrò il messaggio. Quando il tecnico premette il tasto della riproduzione, la stanza si riempì della voce di Martin che parlava in arabo. Paxman, che capiva la lingua meglio degli altri, giunto a metà del messaggio sibilò: «L'ha trovato. Gerico sostiene di averlo trovato». Nella sala da pranzo della casa dei genitori, il figlio minore fissava il lungo sacco di tela che conteneva il corpo del padre. Lasciava che le lacrime gli scorressero sul viso e bagnassero la giacca dell'uniforme e pensava ai bei tempi passati. Allora suo padre era un medico benestante; aveva molti pazienti e curava anche le famiglie di alcuni membri della comunità britannica, ai quali l'aveva presentato l'amico Nigel Martin. Pensava alle innumerevoli volte in cui lui e il fratello avevano giocato nel giardino dei Martin con Mike e Terry, e si chiedeva dove fossero finiti. Dopo un'ora vide che alcune macchie sulla tela sembravano più grandi di prima. Si alzò e andò alla porta. «Talat.» «Padrone?» «Porta le forbici e un coltello da cucina.» Rimasto di nuovo solo, il colonnello Osman Badri tagliò il sacco lungo un lato e la base. Poi scostò la tela. Il corpo di suo padre era ancora nudo. Secondo la tradizione era un compito che spettava alle donne, ma Osman Badri non poteva lasciare che fosse sua madre a occuparsene. Si fece portare acqua e bende, lavò e pulì il corpo straziato, fasciò i piedi torturati, raddrizzò e avvolse le gambe spezzate e coprì i genitali ustionati. Mentre lavorava, piangeva; e mentre piangeva, si trasformava. All'imbrunire chiamò l'Imam del cimitero Alwazia di Risafa e si accordò perché il funerale si svolgesse l'indomani mattina. La mattina di domenica 17 febbraio Mike Martin si era recato in città con la sua bicicletta, ma era tornato dopo avere comprato le provviste e avere controllato i tre muri per vedere se vi fosse qualche segno tracciato con il gesso. Era giunto alla villa poco dopo mezzogiorno. Durante il pomeriggio aveva lavorato in giardino. Il signor Kulikov, pur non essendo cristiano né musulmano e non celebrando né il venerdì sacro agli islamici né la domenica cristiana, era a casa con il raffreddore e si era lamentato per le condizioni delle sue rose. Mentre Martin curava le aiuole, le squadre di sorveglianza del Mukhabarat si piazzavano in silenzio al di là del muro. Non era possibile, pensava Martin, che Gerico avesse notizie da dargli dopo meno di due giorni; la sera seguente sarebbe tornato a vedere se aveva lasciato un segnale. Il funerale del dottor Badri si svolse ad Alwazia poco dopo le nove. In quei giorni i cimiteri di Baghdad avevano molto lavoro e l'Imam era indaffarato. Pochi giorni prima gli americani avevano bombardato un rifugio antiaereo pubblico causando più di 300 morti. C'era una grande agitazione. Molti dei dolenti che seguivano un altro funerale chiesero al colonnello se anche il suo parente era stato ucciso dalle bombe americane. Il colonnello rispose in tono secco che era morto per cause naturali. Secondo l'usanza musulmana i funerali si svolgono rapidamente, senza lunghe attese fra il decesso e la sepoltura, e non si usano bare di legno come fanno i cristiani. Il cadavere era avvolto in un telo. Il farmacista sorreggeva la signora Badri; al termine della breve cerimonia il gruppetto si allontanò. Il colonnello Badri si trovava vicino al cancello quando si sentì chiamare. A pochi metri da lui era ferma una limousine con i vetri oscurati. Quello posteriore era abbassato a metà. La voce lo chiamò di nuovo. Il colonnello Badri pregò il farmacista di accompagnare a casa la madre e disse che li avrebbe raggiunti più tardi. Appena si furono allontanati, raggiunse l'auto in attesa. «Salga, colonnello» disse la voce. «Dobbiamo parlare.» Badri aprì la portiera e guardò all'interno. L'unico passeggero si era spostato per fargli spazio. Badri aveva l'impressione di conoscerne il volto, ma solo vagamente. L'aveva visto da qualche parte. Salì e chiuse la portiera. L'uomo dall'abito grigio scuro premette un pulsante e il finestrino si chiuse, isolandoli dai rumori esterni. «Ha appena sepolto suo padre.» «Sì.» Chi era quell'uomo? Perché non riusciva a identificarne il volto? «Quello che gli hanno fatto è atroce. Se l'avessi saputo in tempo, forse avrei potuto evitarlo. Ma l'ho saputo troppo tardi.» Osman Badri ebbe l'impressione di aver ricevuto un pugno allo stomaco. Aveva capito con chi stava parlando: un uomo che gli avevano indicato a un ricevimento militare due anni prima. «Colonnello, sto per dirle una cosa. Se lo riferisse a qualcuno, farei una fine ancora più terribile di quella di suo padre.» Poteva esserci un'unica ragione, pensò Badri. Il tradimento. «Un tempo» riprese l'uomo a voce bassa, «amavo il Rais.» «Anch'io» disse Badri. «Ma le cose sono cambiate. E' impazzito. E spinto dalla follia commette crudeltà su crudeltà. E' necessario fermarlo. Lei sa della Qaiala, naturalmente.» Badri rimase di nuovo sorpreso, questa volta dall'improvviso cambio di argomento. «Certo. L'ho costruita io.» «Appunto. Sa cosa contiene ora?» «No.» L'alto ufficiale glielo spiegò. «Non è possibile che stia facendo sul serio» disse Badri. Quel pomeriggio si tenne a Riyadh un incontro in apparenza informale fra l'ambasciatore americano e quello britannico, con il pretesto di dedicarsi al rito tipicamente inglese del tè con i pasticcini. Nel giardino dell'ambasciata britannica si trovavano anche Chip Barber, ufficialmente membro dell'ambasciata americana, e Steve Laing, che passava per un componente della sezione culturale del suo paese. Vi era un terzo ospite, il quale aveva abbandonato in via eccezionale il suo lavoro nell'ufficio sotterraneo: il generale Norman Schwarzkopf. Non passò molto tempo che i cinque uomini si trovarono a sorseggiare il tè in un angolo del prato. La vita era più facile, quando tutti sapevano cosa davvero facessero gli altri. Intorno a loro non si parlava che della guerra imminente, ma i cinque disponevano di informazioni ignorate dal resto degli invitati. Fra le altre era giunta la notizia dei dettagli del piano di pace presentato quel giorno da Tariq Aziz a Saddam Hussein, il piano che il ministro iracheno aveva portato da Mosca dopo i colloqui con Michail Gorbaciov. Era motivo di preoccupazione per tutti, ma per ragioni diverse. Quello stesso giorno il generale Schwarzkopf aveva già respinto un suggerimento di Washington che gli proponeva di attaccare prima del previsto. Il piano di pace sovietico chiedeva una dichiarazione di "cessate il fuoco" e il ritiro degli iracheni dal Kuwait entro il giorno seguente. Washington aveva appreso i particolari da Mosca, non da Baghdad. La risposta immediata della Casa Bianca era stata che il piano aveva i suoi meriti, ma non affrontava le questioni fondamentali. Non parlava della rinuncia definitiva dell'Iraq alle sue pretese sul Kuwait; non teneva conto dei danni incalcolabili inflitti all'emirato, i cinquecento incendi dei pozzi petroliferi, i milioni di tonnellate di greggio che si riversavano nel Golfo e ne avvelenavano le acque, i duecento kuwaitiani massacrati, il saccheggio di Kuwait City. «Colin Powell mi ha detto» riferì il generale «che il dipartimento di Stato chiede di adottare una linea ancora più intransigente. Vogliono chiedere la resa incondizionata.» «Senza dubbio» mormorò l'ambasciatore americano. «Allora» continuò il generale, «gli ho detto che dovevano consultare un arabista.» «Davvero?» commentò l'ambasciatore britannico. «Ma perché?» I due ambasciatori erano diplomatici esperti, e per anni avevano lavorato in Medio Oriente. Entrambi erano arabisti. «Be'» disse il comandante in capo, «è un genere di ultimatum che gli arabi non accetteranno. Preferiranno morire.» Vi fu un breve silenzio. Gli ambasciatori scrutarono il viso franco del generale per cercarvi una sfumatura di ironia. I due uomini dei servizi segreti tacquero. Ma pensavano entrambi la stessa cosa: è proprio questo il punto, caro generale. «Sei uscito dalla casa del russo.» Era un'affermazione, non una domanda. L'uomo del controspionaggio era in borghese, ma non era difficile capire che si trattava di un ufficiale. «Sì, bey.» «Documenti.» Martin frugò nelle tasche del dish-dash e ne estrasse la carta d'identità e la lettera sgualcita firmata dal primo segretario Kulikov. L'ufficiale studiò il documento, alzò gli occhi per confrontare le facce e guardò la lettera. I falsari israeliani avevano fatto un ottimo lavoro. Dietro la plastica sudicia della custodia il volto ispido di Mahmoud Al-Khouri ostentava un'espressione poco intelligente. «Lo perquisisca» ordinò l'ufficiale. L'altro uomo in borghese passò le mani sotto il dish-dash e scosse il capo. Niente armi. «Le tasche.» La perquisizione produsse qualche banconota, degli spiccioli, un coltello a serramanico, alcuni gessetti colorati e una busta. L'ufficiale la prese in mano. «Questa cos'è?» «L'infedele l'ha buttata via. Ci tengo il tabacco.» «Non c'è tabacco, qui dentro.» «No, bey, l'ho finito. Speravo di trovarne un po' al mercato.» «Non chiamarmi bey. E' un'abitudine finita con i turchi. Di dove sei?» Martin descrisse il piccolo villaggio del lontano nord. « E' famoso per i meloni» soggiunse premuroso. «Non mi interessano i tuoi stramaledetti meloni» scattò l'ufficiale. Aveva l'impressione che i suoi soldati si sforzassero di non sorridere. Una grossa berlina svoltò nella strada e si fermò a duecento metri. L'ufficiale di grado inferiore toccò il braccio del superiore e fece un cenno con il capo. L'altro si voltò a guardare e ordinò a Martin: «Aspetta qui». Gli venne data una nuova missione con nuove coordinate: si trattava di visitare e fotografare una catena di colline del settore settentrionale del Jebal al Hamreen. Quando il comandante della squadriglia protestò per il cambiamento improvviso si sentì rispondere che la missione era classificata come "Geremia ordina". Il comandante smise di protestare. Il tr-1 decollò poco dopo le due, e alle quattro le immagini apparvero in una sala riunioni in fondo al corridoio del Buco Nero. Quel giorno sul Jebal era nuvoloso e pioveva, ma per mezzo degli infrarossi e del radar a immagini termiche, il congegno Asars-2 che sfida nubi, piogge, grandine, nevischio, neve e oscurità, l'aereo spia poté fornire le foto richieste. Mano a mano che arrivavano a destinazione, le immagini vennero studiate dal colonnello Beatty delle Forze Aeree americane e dal comandante di squadriglia Peck della RAF, i due migliori analisti della fotoricognizione presenti nel Buco Nero. La riunione per la pianificazione ebbe inizio alle sei. Vi parteciparono soltanto otto uomini. Presiedeva il vice del generale Horner, il generale Buster Glosson, altrettanto energico ma più gioviale. I due rappresentanti dei servizi segreti, Steve Laing e Chip Barber, erano coinvolti perché erano stati loro a segnalare l'obiettivo e sapevano come si era arrivati a scoprirlo. I due analisti, Beatty e Peck, avevano il compito di spiegare la loro interpretazione delle foto scattate sulla zona. Vi erano inoltre tre ufficiali di stato maggiore, due americani e uno britannico, con il compito di prendere nota di ciò che doveva essere fatto e di assicurarsi che le decisioni fossero messe in pratica. Il colonnello Beatty aprì la riunione con quello che sarebbe diventato il leitmotiv della riunione. «Abbiamo un problema» dichiarò. «Lo spieghi» ribatté il generale. «Signore, le informazioni che ci sono pervenute ci danno le coordinate. Dodici cifre, sei per la longitudine e sei per la latitudine. Ma non si tratta di riferimenti del tipo Satnav, che individuano l'area con un'approssimazione di pochi metri quadrati. Qui stiamo parlando di un chilometro per un chilometro. O meglio, per stare sul sicuro, abbiamo ampliato l'area fino a un quadrato di milleseicento metri di lato.» «Quindi?» «Ecco qui.» Il colonnello Beatty indicò la parete. Quasi tutto lo spazio era occupato da una fotografia ingrandita ad alta definizione, un metro e ottanta per un metro e ottanta. Tutti si misero a osservarla. «Io non vedo niente» disse il generale. «Soltanto montagne.» « E' proprio questo il problema, signore. Non c'è.» L'attenzione si concentrò sui due rappresentanti dei servizi segreti. Dopotutto, erano stati loro a fornire le informazioni. «E cosa ci dovrebbe essere?» chiese il generale. «Un cannone» rispose Laing. «Un cannone?» «Il cosiddetto cannone Babylon.» «Credevo che li aveste intercettati tutti nella fase di fabbricazione.» «Lo credevamo anche noi. Ma a quanto sembra, uno è riuscito ad arrivare in Iraq.» «Ne abbiamo già parlato. Dovrebbe essere un missile, o una base segreta di cacciabombardieri. Nessun cannone può sparare un carico utile così enorme.» «Questo è in grado di farlo, signore. Ho consultato Londra: una canna lunga oltre centottanta metri, con un calibro di un metro. Un carico utile superiore a mezza tonnellata. Una gittata fino a mille chilometri, secondo il propellente che viene usato.» «E la distanza da qui al Triangolo?» «Settecentocinquanta chilometri. Generale, i suoi caccia possono intercettare il proiettile?» «No.» «I missili Patriot?» «Può darsi, a patto che si trovino al posto giusto nel momento giusto e che riescano ad avvistarlo in tempo. Ma probabilmente no.» «La questione è un'altra» intervenne il colonnello Beatty. «Cannone o missile che sia, qui non c'è.»