/<1977>/ Monte Rosa Racconta una leggenda che le acque che sgorgano dal fontanone sopra Pecetto di Macugnaga provengono da una misteriosa valle, la «Valle Perduta», dove abitarono i primi uomini della Valle d'Aosta. E' solo una delle leggende del monte Rosa. Altre parlano di fate e folletti, di tesori, di mostri a guardia di laghi pieni d'argento liquido. Il paesaggio della «montagna più bella del mondo », come canta una canzone locale, alimenta le favole: rosato, prezioso, eterno. Lo spettacolo del Rosa (il nome, al contrario di quanto si crede, non viene dal colore della montagna, ma da «roese» o «roisa» che in valdostano indica una superficie coperta di ghiaccio) è senza dubbio fra i più suggestivi della regione. Scrive il naturalista Silvio Saglio: «Alcune comunità di camosci vivono sotto i fillar e le cime di Jazzi e altrove. Padroni delle cime, a primavera i camosci si rifugiano nella fascia più alta, dove l'uomo ben difficilmente compare, per poi tornare, con il sopravvenire dell'inverno, sui pascoli della fascia bassa. «Tutto intorno al Rosa si scorgono abeti e larici solitari, battuti dai venti. Dove le conifere si arrestano ci si trova in mezzo a vaste distese di arbusti nani e contorti, e non appena ci si libera dalla fascia di arbusti ecco che cominciano i pascoli. Poi, oltre i pascoli, si levano le cime, dove trovano di che vivere umili pianticelle. Nella zona delle nevi sono state contate 57 specie diverse. Queste pianticelle aggrediscono vallette e morene costituite da materiale detritico roccioso, più o meno grossolano, trasportato e depositato dalle colate glaciali, vivendo in folti cespi dai fiorellini stupendi.» La fauna alpina è presente, a parte l'orso, il cervo e lo stambecco, al completo, anche se si è ridotta a vivere nelle zone meno battute. Ci sarebbe insomma ancora molto da salvare. E non solo nelle montagne. Anche nelle valli che le raggiungono: Val Anzasca, Val Sesia, Val di Gressoney, Val d'Ayas, tutte naturalisticamente interessanti e tutte purtroppo minacciate dall'urbanizzazione, dal turismo e dalle strade. Monte Bianco Vale la pena di citare, come già per il monte Rosa, quel che ha scritto il naturalista che forse sa di più su queste montagne: Silvio Saglio. «L'enorme manto di ghiaccio copre un grande nucleo (o elissoide centrale) di dure rocce cristalline di sollevamento, attorno al quale si stende una fascia di sedimenti in cui si aprono innumeri, profonde incisioni: di qui l'enorme numero di vette minori, di creste dentellatissime, di guglie, di pinnacoli. In tanta magnificenza di cime e di ghiacciai, il regno vegetativo appare limitato al basamento del massiccio. Il verde si arresta agli sfasciumi. Nelle desolate solitudini qualche magro albero si dibatte contro il freddo e la neve. La terra pure è più povera che altrove. La lunga glaciazione ha lasciato dietro di sé un terreno sterile. E la scarsità dei venti ha avuto la sua parte, dal momento che i venti, trasportando polline e semi, permettono la nascita di fiori. Pure non si può dire che il monte Bianco non ne sia ornato. Sopra il verde manto dei pascoli splende la genziana, vivacissima di colore; splendono, qua e là, i ranuncoli, di un bel giallo chiaro, gli anemoni bianchi, gli astri alpini viola, i cardi bianco argentati, le orchidee, svariatissime per forme, colore e profumo. Tra gli altri fiori che ravvivano di meravigliosi toni di colore i paesaggi del massiccio, troviamo i miosotis nani, stretti a gruppi per proteggersi dal freddo, mentre sul fondo delle rocce le silene e le sassifraghe diffondono lo splendore della loro effimera bellezza. Rara è la stella alpina. La fauna è invece ormai ridotta a poca cosa: oltre ai corvi il monte Bianco ospita marmotte e camosci, rintanati nelle alte forre. Numerosi fino al principio del secolo scorso erano i lupi. Di orsi non si ha più traccia. Bisogna aggiungere che questo splendido patrimonio naturale è costantemente perseguitato. Lo solcano sciovie e funivie. Lo invadono alberghi e insediamenti turistici. E non sono ancora note le possibili conseguenze sull'equilibrio ecologico prodotte dal traforo, che da qualche anno congiunge sotto la montagna l'Italia e la Francia. Il dissesto idrogeologico Ogni anno d'autunno la "fiumara" calabrese asciutta e sassosa si riempie istantaneamente d'acque turbinose e incontrollabili, trasformandosi d'improvviso in un torrente straripante che ruba terra alle montagne e porta rovina nelle piane. Ma la "fiumara" non è che il simbolo di un dissesto idrogeologico generale gravissimo, che interessa tutta l'Italia. Quando le piogge autunnali sconvolgono da un punto all'altro quello che fu il Bel Paese, non si può certo dire che la nazione resti fredda e insensibile perché anzi risuonano dovunque pianti, discorsi, interviste, sopralluoghi, verbali di commissioni. Dopo il diluvio meteorologico si è sommersi da quello logorroico. Ma come per l'uomo cavernicolo il tuono e il fulmine rappresentavano terrificanti e incomprensibili manifestazioni della collera divina, così all'uomo metropolitano l'alluvione sembra un evento imprevedibile e incontrollabile, voluto dal destino. E' molto più comodo per labili coscienze parlare di fatalità imprevedibili e incontrollabili, anziché riconoscere colpe, responsabilità e ignoranza. L'elenco dei disastri potrebbe essere interminabile: 1951 Polesine, 1953 Reggio Calabria, 1954 Sicilia e Penisola Sorrentino, 1959 Calabria, 1960 Marche e Lazio; e via via in un crescendo terrificante - fino al 1965 di Lazio e Umbria, al 1966 di Firenze Maremma e Veneto, al 1968 del Biellese, al 1970 di Genova e Castellammare, al 1971 di Sardegna e Sicilia, al 1973 di Emilia Calabria e Sicilia e al 1976 di Sicilia (Trapani). Quasi l'80% dell'Italia è costituito da terreni accidentati: colline, valli e montagne. E la metà almeno di queste zone ha pendenze elevate, su cui l'uomo ha commesso l'imperdonabile crimine di distruggere scioccamente la copertura vegetale. L'erosione, il dilavamento delle rocce, gli smottamenti dominano incontrastati. Ogni anno le acque erodono le coste montane fino alla viva roccia e trasportano al mare quasi 4000 metri cubi di materiale solido per ogni chilometro quadrato di bacino imbrifero e in certi punti dell'Appennino ne spazzano via addirittura 15.000 metri cubi! I fiumi e le fiumare calabre - come tutti gli altri corsi d'acqua - in Italia sono ormai quasi tutti "pensili", cioè il loro letto è riempito a tal punto di detriti che basta un nulla a farli traboccare. Dopo le forti piogge non vi scorre acqua ma mota pastosa, contenente frammenti di suolo, alberi ed erbe strappati alla montagna. Le sponde non sono più ricoperte da intricatissime selve di essenze riparie, ma nude e malferme. Verso la foce, acquitrini e paludi un tempo preziosa valvola di sicurezza contro piene e mareggiate sono annientati e prosciugati implacabilmente, in nome di un'ottusa quanto fallimentare politica di espansione agricola. Dopo i disastri sono venuti di moda imponenti e costosissimi lavori di sistemazione e di ingegneria idraulica. Argini, dighe e collettori non sono infatti che tamponamenti d'emergenza e rischiano di far perdere di vista l'essenza del problema, che è problema di foreste e humus di equilibrio ecologico e copertura vivente, in una parola di rispetto e conservazione della natura e dell'ambiente. Il manto arboreo di una foresta di latifoglie montana, ricca di erbe e di sottobosco, può assorbire ben più della metà delle precipitazioni totali, restituendo poi gradualmente il liquido raccolto sotto forma di vapore acqueo e umidità regolata. Il pino laricio Simbolo vivente inconfondibile della foresta calabrese, e in special modo della Sila e dell'Aspromonte, il pino laricio è un albero che testimonia epoche molto lontane in cui, diffuso su tutta la catena appenninica e oltre, insieme con piante simili come il pino nero e l'austriaco, doveva dominare il paesaggio italico. Oggi non resta che un ricordo di questo periodo aureo in numerose regioni montuose dell'area mediterranea isolate tra loro, dove il pino laricio sopravvive ancora, tra queste la Corsica, la Calabria e la penisola balcanica oltre a una ristrettissima area siciliana, sulle pendici dell'Etna. Caratteristico per la chioma piramidale ed il portamento che ai profani può ricordare vagamente l'abete, la statura diritta ed altissima, gli strobili non grandi e la corteccia a grosse placche, il pino laricio è uno degli alberi più frugali e resistenti; è ricordato già dall'antichità da Livio, Plinio e Virgilio, come elemento dominante della fumosa ed immensa "selva bruzia" ed in effetti si adatta molto bene ai terreni granitici dell'altipiano filano, dove nei tratti rimasti ancora incontaminati magnifiche fustaie lentissime e serrate e maestosi esemplari isolati costituiscono, in un ambiente ricco di acque, d'ombra e di verde, la nota caratteristica più saliente. Anche se purtroppo la superficie forestale è oggi assai più ridotta che un tempo e pascoli degradati o incolti sommersi dalla felce aquilina denunciano con spietata evidenza un insensato disboscamento più o meno recente. Il lupo Nessun animale, forse, è odiato dall'uomo con altrettanto accanimento quanto il lupo, temuto ovunque e fin dalle eopche più remote, perché visto non solo come un competitore nella difficile lotta per la ricerca del cibo, ma anche come forte e astuto predatore capace di assalire in caso di necessità l'uomo stesso. La fantasia terrorizzata ha senza dubbio esagerato molto nell'attribuire al lupo malvagità e misfatti leggendari ed è stata all'origine di quella lotta continua e spietata che ai nostri giorni appare anacronistica e assurda, se si pensa che questo animale minacciato anche dalla progressiva riduzione dell'habitat è ormai in rapido, inesorabile declino. Se da almeno un secolo è estinto nelle Alpi, dove tutt'al più può incontrarsi qualche esemplare penetrato dalla Iugoslavia negli inverni più freddi, il lupo vive ancora poco numeroso e localizzato in ristrette zone dell'appennino soprattutto centromeridionale dall'Umbria alla Calabria. Ma qui sembra formare una razza speciale, caratteristica per la mole ridotta, la coda breve e il vello meno folto e lanoso. In Sardegna è sempre mancato, mentre in Sicilia, dov'era un tempo abbondante e temuto dai pastori che inventarono per difendersene la famosa "lupara", è forse ora praticamente scomparso. Da secoli legato alla pastorizia transumante, sua fonte principale di alimentazione in sostituzione di cervi e caprioli ovunque terminati, il lupo è oggi costretto sempre più spesso ad abbandonare gli impervi rifugi di montagna per scendere alla pianura ove il bestiame pascola ancora numeroso e ciò gli è spesso fatale. In basso vasti boschi di cerro, associato a carpino nero e ad altre essenze: questi sono i temi dominanti, più o meno frequenti, comunque, anche nel resto dell'Appennino centrale. Ma il vero paradiso dei botanici ha inizio solo più in alto, oltre il limite superiore della vegetazione arborea. Sono praterie d'alta quota, con festuca violacea, luzula spigata, trifoglio pratense, poa, crepide e avena; con gialli ranuncoli montani e papaveri alpini, con azzurre genzianelle, viole e campanule; con bianchi cerasti arvensi. Sono ammassi di detriti calcarei ricoperti di festuca dimorfa, che assume una funzione tipicamente pioniera e stabilizzatrice del franoso pietrisco. Sono, soprattutto alle altitudini estreme del Cefalone, del Portella e del Corno Grande, tappeti abbastanza estesi di salici nani, e prostrati, colonie di mirtilli, chiazze di arbusti dalle caratteristiche roselline bianche, le driadi. E chi osservi la vegetazione ai margini della valletta nivale, a quota 2400, che si attraversa poco prima della sella di monte Aquila salendo verso il Corno Grande, scoprirà il più piccolo albero, quello che Linneo definì «arbor minima», il salice erbaceo, alto dal suolo sì e no un paio di centimetri, ma dotato di poderose e forti radici: la stessa pianta capace di crescere nelle zone subartiche, ove a somiglianza delle alte quote il suolo resta scoperto dalle nevi solo due o tre mesi l'anno. Mentre sul monte Brancastello un'altra rarità botanica attira l'occhio dell'escursionista; sono le stelle alpine appenniniche, più piccole e lanose delle classiche edelweiss delle Alpi. La fauna del Gran Sasso, se ha perduto nel corso dell'ultimo secolo alcuni dei suoi rappresentanti più vistosi come orsi, caprioli e camosci, abbonda ancora di specie rare e interessanti come il lupo appenninico, il gatto selvatico, la volpe, il tasso, la puzzola, la martora, la donnola, la faina, la lontra, il riccio, lo scoiattolo, il ghiro e il moscardino. E numerosi sono gli uccelli, tra cui il corvo imperiale, il gracchio corallino, il picchio verde, il picchio rosso, l'upupa, il cuculo, il succiacapre, il colombaccio, la beccaccia, il merlo, il tordo, la cesena, ma soprattutto i rapaci come l'aquila reale, il nibbio, la poiana, il gheppio, lo sparviero e l'astore. Poco frequenti sono l'istrice e il capovaccaio. La fauna minore non è d'altra parte meno interessante: sul Gran Sasso, tra i cespugli a pulvino di ginepro, vive tra l'altro la vipera dell'Orsini, un rettile assai mite e poco velenoso che è tipico di alcune tra le più alte cime appenniniche; mentre nelle pozze d'acqua degli estesi piani carsici è frequente il tritone italico. Su alcune vette secondarie del Gran Sasso esisteva ancora, fino a qualche decennio fa, un piccolo coleottero nero lucente, vero e proprio relitto vivente, assai vicino a forme balcaniche e testimoniante quindi, come del resto molte altre specie, gli antichissimi collegamenti tra le due penisole: il carabo cavernoso variolato. Massiccio del Velino. «Magnifica, solenne montagna, di aspetto rudemente monumentale per la selvaggia imponenza delle sue rupi precipiti e dei suoi sconfinati brecciai. Pochi rilievi presentano come il Velino l'aspetto di "montagna morta", cioè di un grande ammasso di rupi e di antica roccia (mesozoica) disfatta, privo di vegetazione vistosa e con predominio di aree semidesertiche, che da lontano dà l'impressione di un'assoluta nudità.» Nessuna descrizione potrebbe, meglio di queste parole del botanico Giuliano Montelucci, darci un'idea di ciò che è il Velino, con i suoi 2487 m terza vetta appenninica, suggestiva massa torreggiante sul Fucino da cui lo separano poco meno di due chilometri di dislivello. Montagna d'aspetto terribile, specialmente nelle sue collere improvvise, dura in ogni stagione soprattutto ove la si affronti direttamente attraverso il profondo canalino o l'ampio e breccioso canalone. L'immensa montagna calcarea presenta tutte le più diverse manifestazioni del carsismo: marmitte, caverne, forre, doline e inghiottitoi. Ma ancor più inconfondibili sono forse i fenomeni giaciali, che determinano un tipico paesaggio con rocce montonate, circhi sovrapposti a gradini, detriti, argini morenici e soglie rocciose sospese. Ciò che maggiormente impressiona, però, sono i massi erratici, una particolarità geologica molto rara nell'Appennino centromeridionale calcareo. Uno dei massi erratici più belli si trova ai piedi del Morrone della Duchessa, rivestito di folta faggeta, in una radura a quota 1800 nel mezzo della quale spicca, vistoso e solitario. Si chiama «la pétra rossa» ed è agevole comprendere come si tratti di un blocco precipitato dall'alto sul sottostante ghiacciaio, che lo inglobò e trasportò a lungo depositandolo poi lì dove oggi lo vediamo, nella quarta fase del quaternario tra cento e venticinquemila anni fa. Poco a poco, tuttavia, pioggia, neve, vento, gelo e disgelo corroderanno e frantumeranno questo e gli altri massi erratici in piccoli pezzi. Così questi eccezionali relitti sono destinati a sparire un giorno: ma perché ciò avvenga occorreranno, in ogni caso, almeno alcune decine di migliaia di anni. Se l'aspetto classico del Velino è brullo e aspro, nei suoi versanti più riparati e nelle valli nascoste non mancano, anche se sono oggi purtroppo molto degradate e sfruttate, profonde foreste di faggio cui solo a quote inferiori si alternano querceti diradati o boschi misti. Né è difficile incontrare estese pianure carsiche, completamente nude, spesso punteggiate nel mezzo da microscopici laghetti, come il vasto piano di Campo Felice tra i monti Puzzillo, Cefalone e Rotondo o come l'allungato piano di Pezza, ampio bacino chiuso sede un tempo di un grandioso ghiacciaio. Interessante è il piccolo lago della Duchessa, a 1772 m di quota.