/<1994>/ Metà della sua fotofobia doveva esser dovuta a bile nera, e metà a qualche forma di irritazione, magari acutizzata dai preparati del signor d'Igby. Pare certo che il viaggio sull'Amarilli l'avesse compiuto stando sempre sotto coperta, visto che quella del fotofobo era, se non la sua natura, almeno la parte che doveva svolgere per tener d'occhio i maneggi nella stiva. Alcuni mesi, tutti al buio o a lume di lucignolo - e poi il tempo sul relitto, accecato dal sole equatoriale o tropicale che fosse. Quando approda alla Daphne, quindi, malato o no, odia la luce, passa la prima notte nella cucina, si rianima e tenta una prima ispezione la seconda notte, e poi le cose vanno quasi da sé. Il giorno gli fa spavento, non solo gli occhi non lo sopportano, ma le scottature che doveva avere sul dorso, e si rintana. La bella luna che descrive in quelle notti lo rinfranca, di giorno il cielo è come dappertutto, di notte scopre nuove costellazioni (eroiche imprese ed emblemi misteriosi, appunto), è come trovarsi a teatro: si convince che quella sarà la sua vita per lungo tempo e forse sino a morte, ricrea la sua Signora sulla carta per non perderla, e sa di non aver perso molto più di quanto già non avesse. A questo punto si rifugia nelle sue veglie notturne come in un utero materno, e a maggior ragione decide di sfuggire il sole. Forse aveva letto di quei Risurgenti d'Ungheria, di Livonia o di Valacchia, che si aggirano inquieti tra il tramonto e l'alba, per poi nascondersi nei loro avelli al canto del gallo: la parte poteva sedurlo... Roberto dovrebbe aver iniziato il suo censimento nella seconda sera. Ormai aveva gridato abbastanza per essere sicuro che non ci fosse nessuno a bordo. Ma, e ne temeva, avrebbe potuto trovar dei cadaveri, qualche segno che giustificasse quell'assenza. Si era mosso con circospezione, e dalle lettere è difficile dire in che direzione: nomina in modo impreciso la nave, le sue parti e gli oggetti di bordo. Alcuni gli sono familiari e li ha sentiti menzionare dai marinai, altri ignoti, e li descrive per quel che gli appaiono. Ma anche gli oggetti noti, e segno che sull'Amarilli la ciurma doveva essere fatta di avanzi dei sette mari, li doveva aver sentiti indicare da uno in francese, dall'altro in olandese, dall'altro in inglese. Così dice talora staffe - come doveva avergli insegnato il dottor Byrd - per balestriglia; si fa fatica a capire come fosse una volta sul castello di poppa o sul cassero, e un'altra sul gagliardo da dietro, che è francesismo per dir la stessa cosa; usa sabordi, e glielo concedo volentieri perché mi ricorda i libri di marineria che si leggevano da ragazzi; parla di parrocchetto, che per noi è una vela di trinchetto, ma siccome per i francesi perruche è la vela di belvedere che sta sull'albero di mezzana, non si sa a cosa alluda quando dice che stava sotto alla parrucchetta. Per non dire che talora chiama l'albero di mezzana anche artimone, alla francese, ma allora che cosa intenderà mai quando scrive Tizzana, che per i francesi è il trinchetto (ma, ahimé, non per gli inglesi, per cui il mizzenmast è la mezzana, come Dio comanda).E quando parla di gronda probabilmente sta riferendosi a quello che noi diremmo un ombrinale. Tanto che prendo una decisione: cercherò di decifrare le sue intenzioni, e poi userò i termini che ci sono più familiari. Se mi sbaglio, pazienza: la storia non cambia. Detto questo, stabiliamo che quella seconda notte, dopo aver trovato una riserva di cibo in cucina, Roberto procedette in qualche modo sotto la luna alla traversata del ponte. Ricordando la prua e i fianchi bombati, vagamente intravisti la notte prima, giudicando dal ponte snello, dalla forma del gagliardo e dalla poppa stretta e rotonda, e paragonando con l'Amarilli, Roberto ne concluse che anche la Daphne era un fluyt olandese, o flauto, o flute, o fluste, o flyboat, o fliebote, come variamente si chiamavano quelle navi da commercio e di media stazza, solitamente armate con una decina di cannoni, a scarico di coscienza in caso di un attacco di pirati. Dopo aver dedicato la sua lettera ai primi ricordi dell'assedio, Roberto aveva trovato alcune bottiglie di vin di Spagna nella camera del capitano. Non possiamo rimproverarlo se, acceso il fuoco e fattasi una padella di uova con spizzichi di pesce affumicato, aveva stappato una bottiglia e si era concesso una cena da re su una tavola quasi imbandita a regola d'arte. Se naufrago doveva rimanere a lungo, per non imbestialirsi avrebbe dovuto attenersi ai buoni costumi. Si ricordava che a Casale, quando le ferite e le malattie stavano ormai inducendo gli stessi ufficiali a comportarsi come naufraghi, il signor di Toiras aveva richiesto che, almeno a tavola, ciascuno si ricordasse di quel che aveva appreso a Parigi: "Presentarsi con gli abiti puliti, non bere dopo ogni boccone, tergersi prima i mustacchi e la barba, non leccarsi le dita, non sputare nel piatto, non soffiarsi il naso nella tovaglia. Non siamo imperiali, Signori!" Si era risvegliato la mattina dopo al canto del gallo, ma aveva ancora poltrito a lungo. Quando, dalla galleria, aveva di nuovo socchiuso la finestra, aveva capito che egli si era alzato in ritardo rispetto al giorno prima, e l'alba già stava cedendo all'aurora: dietro le colline ora si accentuava il rosato del cielo tra uno sfarinarsi di nuvole. Siccome presto i primi raggi avrebbero illuminato la spiaggia rendendola insopportabile alla vista, Roberto aveva pensato di guardare là dove il sole non dominava ancora, e lungo la galleria si era portato all'altro bordo della Daphne, verso la terra occidentale. Gli apparve subito come un frastagliato profilo turchese che, nel trascorrere di pochi minuti, già si stava dividendo in due strisce orizzontali: una spazzola di verzura e palme chiare già sfolgorava sotto la zona cupa delle montagne, su cui dominavano ancora ostinate le nubi della notte. Ma lentamente queste, nerissime ancora al centro, stavano sfaldandosi ai bordi in una mistura bianca e rosa. Era come se il sole, anziché colpirle di fronte, stesse ingegnandosi di nascervi da dentro ed esse, pur sfinendosi di luce ai margini, s'inturgidissero gravide di caligine, ribelli a liquefarsi nel cielo per farlo divenire specchio fedele del mare, ora prodigiosamente chiaro, abbagliato da chiazze scintillanti, come se vi transitassero banchi di pesci dotati di una lampada interna. In breve però le nuvole avevano ceduto all'invito della luce, e si erano sgravate di sé abbandonandosi sopra le vette, e da un lato aderivano alle falde condensandosi e depositandosi come panna, soffice là dove colava verso il basso, più compatta al sommo, formando un nevaio, e dall'altro, facendosi il nevaio al vertice una sola lava di ghiaccio, esplodevano nell'aria in forma di fungo, prelibate eruzioni in un paese di Cuccagna. Quanto vedeva poteva forse bastare a giustificare il suo naufragio: non tanto per il piacere che quel mobile atteggiarsi della natura gli provocava, ma per la luce che quella luce gettava su parole che aveva udito dal Canonico di Digne. Sino ad allora, infatti, si era chiesto sovente se non stesse sognando. Quello che gli stava accadendo non accadeva di solito agli umani, o poteva al massimo ricordargli i romanzi dell'infanzia: come creatura di sogno erano e la nave e le creature che vi aveva incontrato. Della stessa sostanza di cui son fatti i sogni apparivano le ombre che da tre giorni lo avvolgevano e, a mente fredda, si rendeva pur conto che persino i colori che aveva ammirato nel verziere e nella voliera erano apparsi smaglianti solo ai suoi occhi maravigliati, ma in realtà si rivelavano solo attraverso quella patina di vecchio liuto che copriva ogni oggetto della nave, in una luce che aveva già lambito travi e doghe di legni. Lo aveva reciso di un sol colpo, con mossa di fiera gentile, sorridendo lieta della sua mansueta crudeltà. Roberto avrebbe potuto attendere per tutta la notte, mentre respirava appena, per il timore d'esser scoperto e per l'ardore che lo raggelava. Ma dopo poco la fanciulla spense la lampada, e la visione si dissolse. Era passato per quella strada i giorni seguenti, senza più vederla, tranne una sola volta, ma non ne era sicuro perché essa, se era lei, stava seduta a capo chino, il collo nudo e roseo, una cascata di capelli che le coprivano il volto. Una matrona le stava alle spalle, navigando per quelle onde leonine con un pettine da pecoraia, e a tratti lo lasciava per afferrare con le dita un animaletto fuggiasco, che le sue unghie facevano esclappitare in un colpo secco. Roberto, non nuovo ai riti dello spidocchiamento, ne scopriva però per la prima volta la bellezza, e immaginava di poter porre le mani tra quei flutti di seta, di premere i polpastrelli su quella nuca, di baciare quei solchi, di distrugger egli stesso quelle greggi di mirmidoni che li inquinavano. Dovette allontanarsi da quell'incanto per il sopravvenire di gentaglia che rumoreggiava per quella via, e fu l'ultima volta che quella finestra gli riservò amorose visioni. Altri pomeriggi e altre sere vi scorse ancora la matrona, e un'altra ragazza, ma non lei. Ne concluse che quella non era la sua casa, ma quella di una parente, presso la quale era solo andata a far qualche lavoro. Dov'ella fosse, per lunghi giorni più non seppe. Siccome il languore amoroso è liquore che prende maggior forza quando sia travasato nelle orecchie di un amico, mentre percorreva Casale senza frutto, e smagriva nella ricerca, Roberto non era riuscito a nascondere il suo stato a Saint-Savin. Glielo aveva rivelato per vanità, perché ogni amante si adorna della bellezza dell'amata - e di questa bellezza è certamente certo. "Ebbene, amate," aveva reagito Saint-Savin con trascurataggine. "Non è cosa nuova. Pare che gli umani se ne dilettino, a differenza degli animali." "Gli animali non amano?" "No, le macchine semplici non amano. Che fanno le ruote di un carro lungo un pendio? Rotolano verso il basso. La macchina è un peso, e il peso pende, e dipende dal cieco bisogno che lo spinge alla discesa. Così l'animale: pende verso il concubito e non si acqueta sino a che non l'ottiene." "Ma non mi avete detto ieri che anche gli uomini sono macchine?" "Sì, ma la macchina umana è più complessa di quella minerale, e di quella animale, e si compiace di un moto oscillatorio." "E allora?" "Allora voi amate, e quindi desiderate e non desiderate. L'amore rende nemici di se stessi. Temete che il raggiungere il fine vi deluda. Vi dilettate in limine, come dicono i teologi, godete del ritardo. "Non è vero, io... io la voglio subito!" "Se fosse così, sareste ancora e soltanto un paesano. Ma avete spirito. Se la voleste l'avreste già presa - e sareste un bruto. No, voi volete che il vostro desiderio s'accenda, e che nel contempo si accenda anche quello di lei. Se il suo si accendesse a tal punto da indurla a cedervi subito, probabilmente non la vorreste più. L'amore prospera nell'attesa. L'Attesa va camminando per gli spaziosi campi del Tempo verso l'Occasione." "Ma che faccio in questo frattempo?" " Corteggiatela. " "Ma... lei non sa ancora nulla, e debbo confessarvi che ho difficoltà ad avvicinarla..." "Scrivetele una lettera e ditele del vostro amore." "Ma non ho mai scritto lettere d'amore! Anzi, mi vergogno di dire che non ho mai scritto lettere." "Quando la natura vien meno, rivolgiamoci all'arte. Ve la detterò io. Un gentiluomo si compiace sovente di stilar lettere per una dama che non ha mai veduto." "Ma non avreste potuto porre direttamente il vetriolo sulla piaga?" "Avrei potuto, avendo il ferito di fronte. Ma se il ferito fosse lontano? Si aggiunga che se avessi posto direttamente il vetriolo sulla piaga la sua forza corrosiva l'avrebbe irritata vieppiù, mentre trasportato dall'aria esso dona solo la sua parte dolce e balsamica, capace di stagnare il sangue, e viene usata anche nei colliri per gli occhi," e Roberto aveva teso l'orecchio, facendo poi in futuro tesoro di quei consigli, il che certamente spiega l'aggravarsi del suo malanno. "D'altra parte," aveva aggiunto d'Igby, "non si deve certo usare il vetriolo normale, come si usava un tempo, facendo più male che bene. Io mi procuro del vetriolo di Cipro, e prima lo calcino al sole: la calcinazione gli toglie l'umidità superflua, ed è come se di esso facessi un brodo ristretto; e poi la calcinazione rende gli spiriti di questa sostanza atti a esser trasportati dall'aria. Infine vi aggiungo della gomma adragante, che rimargina più rapidamente la ferita." Mi sono soffermato su quanto Roberto aveva appreso da d'Igby perché questa scoperta doveva segnare il suo destino. Occorre pur dire, a disdoro del nostro amico, ed egli lo confessa nelle sue lettere, che non fu preso da tanta rivelazione per ragione di scienza naturale, ma sempre e ancora per amore. In altre parole, quella descrizione di un universo affollato di spiriti che si congiungevano a seconda della loro affinità, gli parve una allegoria dell'innamoramento, e prese a frequentare gabinetti di lettura cercando tutto quel che poteva trovare sull'unguento armario, che a quell'epoca era già molto, e moltissimo sarebbe stato negli anni seguenti. Consigliato da monsignor Gaffarel (sottovoce, che non sentissero gli altri frequentatori dei Dupuy, che a queste cose credevano poco) leggeva l'Ars Magnesia di Kircher, il Tractatus de magnetica vulnerum curatione del Goclenius, il Fracastoro, il Discursus de unguento armario di Fludd, e l'Hopolochrisma spongus di Foster. Si faceva sapiente per tradurre la sua sapienza in poesia e potere un giorno brillare eloquente, messaggero della simpatia universale, là dove era continuamente umiliato dalla eloquenza altrui. Per molti mesi - tanto dovrebbe esser durata la sua ostinata ricerca, mentre non procedeva di un sol passo sulla strada della conquista - Roberto aveva praticato una sorta di principio della doppia, anzi della molteplice verità, idea che a Parigi molti tenevano per temeraria e prudente al tempo stesso. Discuteva di giorno sulla possibile eternità della materia, e nottetempo si consumava gli occhi su trattatelli che gli promettevano - sia pure in termini di filosofi a naturale - occulti miracoli. Nelle grandi imprese si deve cercare non tanto di creare le occasioni, quanto di approfittare di quelle che si presentano. Una sera da Arthénice, dopo una animata dissertazione sull'Astree, l'Ospite aveva incitato gli astanti a considerare che cosa l'amore e l'amicizia avessero in comune. Roberto aveva allora preso la parola, osservando che il principio dell'amore, fosse tra amici o fosse tra amanti, non era difforme da quello per cui agiva la Polvere di Simpatia. Al primo cenno d'interesse, aveva ripetuto i racconti di d'Igby, escludendo solo la storia della santa urinante, poi aveva preso a discettare sul tema, dimenticando l'amicizia e parlando solo d'amore. "L'amore obbedisce alle stesse leggi del vento, e i venti risentono sempre dei luoghi da cui provengono, e se provengono da orti e giardini, possono profumare di gelsomino, o di menta, o di rosmarino, e così rendono i naviganti desiderosi di toccare la terra che invia loro tante promesse. Non diversamente gli spiriti amorosi inebriano le nari del cuore innamorato" (e perdoniamo a Roberto l'infelicissimo tropo). "E' il cuore amato un liuto, che fa consonare le corde di un altro liuto, come il suono delle campane agisce sulla superficie dei corsi d'acqua, soprattutto di notte, quando in assenza d'altro rumore si genera nell'acqua lo stesso moto che si era generato nell'aria." "Tempo, Withrington?" "L'ora è trascorsa, mancano pochi granelli di sabbia." "L'orologio dà già la mezzanotte," disse una terza voce. "Mi pare ci basti. Ora signori," disse il dottor Byrd, "spero che cessino subito l'irritazione, il povero Hakluyt non regge. Acqua e sale, Hawlse, e la pezzuola. Buono, buono, Hakluyt, ora stai meglio... Dormi, dormi, senti il padrone che è qui, è finito... Hawlse, il sonnifero nell'acqua..." "Aye aye dottore." "Ecco, bevi Hakluyt... Buono, su, bevi la buona acqua...» Un timido ustolare ancora, poi silenzio di nuovo. "Ottimo signori," stava dicendo il dottor Byrd, "se questa maledetta nave non si scuotesse in questo modo indecente, potremmo dire di avere avuto una buona serata. Domani mattina, Hawlse, il solito sale sulla ferita. Tiriamo le somme, signori. Al momento cruciale, qui eravamo prossimi alla mezzanotte, e da Londra ci segnalavano che era mezzogiorno. Siamo sull'antimeridiano di Londra, e quindi sul centonovantottesimo dalle Canarie. Se le Isole di Salomone sono, come vuole la tradizione, sull'antimeridiano dell'Isola del Ferro, e se siamo alla latitudine giusta, navigando verso ovest con un buon vento in poppa dovremmo approdare a San Christoval, o come ribattezzeremo quella maledetta isola. Avremo trovato quello che gli spagnoli cercano da decenni e avremo in mano al tempo stesso il segreto del Ponto Fijo. La birra, Cavendish, dobbiamo brindare a Sua Maestà, che Dio sempre lo salvi." "Dio salvi il re," dissero a una voce gli altri tre - ed erano evidentemente tutti e quattro uomini di gran cuore, ancora fedeli a un monarca che in quei giorni, se non aveva ancor perso la testa, era perlomeno sul punto di perdere il regno. Roberto faceva lavorare la sua mente. Quando aveva visto il cane al mattino, si era accorto che accarezzandolo si acquetava e che, avendolo egli toccato a un certo punto in modo brusco, aveva gagnolato di dolore. Poco bastava, su di una nave sommossa dal mare e dal vento, per suscitare a un corpo malato sensazioni diverse. Forse quei malvagi credevano di ricevere un messaggio da lontano, e invece il cane soffriva e provava sollievo a seconda che le ondate lo disturbassero o lo cullassero. O ancora, se esistevano, come diceva Saint-Savin, i concetti sordi, col movimento delle mani Byrd faceva reagire il cane secondo i propri desideri inconfessati. Non aveva detto lui stesso di Colombo che si era sbagliato, volendo dimostrare di essere arrivato più lontano? Dunque il destino del mondo era legato al modo in cui quei folli stavano interpretando il linguaggio di un cane? Un brontolare del ventre di quel poveretto poteva far decidere quei miserabili che stavano avvicinandosi o allontanandosi dal luogo agognato da spagnoli, francesi, olandesi e portoghesi altrettanto miserabili? E lui era coinvolto in quell'avventura per fornire un giorno a Mazarino o al giovincello Colbert il modo di popolare le navi di Francia con cani straziati? Gli altri si erano ormai allontanati. Roberto era uscito dal suo nascondiglio e si era soffermato, alla luce della sua corda catramata, davanti al cane dormiente. Gli aveva sfiorato il capo. Vedeva in quel povero animale tutta la sofferenza del mondo, furioso racconto di un idiota. La sua lenta educazione, dai giorni di Casale sino a quel momento, a tanta verità lo aveva portato. Oh se fosse rimasto naufrago sull'isola deserta, come voleva il cavaliere, se come il cavaliere voleva avesse dato fuoco all'Amarilli, se avesse arrestato il suo cammino sulla terza isola, tra le native color terra di Siena, o sulla quarta fosse divenuto il bardo di quella gente. Se avesse trovato l'Escondida dove nascondersi da tutti i sicari di un mondo spietato! Non sapeva allora che la sorte gli avrebbe riservato tra poco una quinta isola, forse l'Ultima. L'Amarilli pareva fuori di sé, e afferrandosi a ogni dove era rientrato nel suo alloggio, scordando i mali del mondo per soffrire del male del mare. Poi il naufragio, di cui si è detto. Aveva compiuto con successo la sua missione: unico sopravvissuto. Un lampone, una marasca, un ravanello; come le bacche dell'agrifoglio, il ventre della tordela o del tordo sassello, la coda del codirosso, il petto del pettirosso... Ma no; no, insisteva padre Caspar, in lotta con la sua e le altrui lingue per trovare le parole adatte: e - a giudicare dalla sintesi che poi ne trae Roberto, né si capisce più se l'enfasi sta dell'informatore o dell'informato doveva essere del colore festoso di un melangolo, di una melarancia, era un sole alato, insomma, quando lo si vedeva nel cielo bianco era come se l'alba scagliasse un melograno sulla neve. E quando si frombolava nel sole era più sfolgorante di un cherubino! Questo uccello color arancio, diceva padre Caspar, certamente non poteva che vivere sull'Isola di Salomone, perché era nel Cantico di quel gran Re che si parlava di una colomba che si leva come l'aurora, fulgida come il sole, terribilis ut castrorum acies ordinata. Era, come dice un altro salmo, con le ali che si coprono d'argento e le penne coi riflessi dell'oro. Insieme a questo animale Caspar ne aveva visto un altro quasi uguale, tranne che le penne non erano aranciate ma verdazzurre, e dal modo come i due andavano di regola appaiati sullo stesso ramo, dovevano essere maschio e femmina. Che potessero essere colombi lo diceva la loro forma, e il loro gemito così frequente. Quale dei due fosse il maschio era difficile a dire, e d'altra parte aveva imposto ai marinai di non ucciderli. Roberto domandò quante colombe potessero esserci sull'Isola. Per quel che ne sapeva padre Caspar, che ogni volta aveva visto una sola palla arancina schizzare verso le nubi, o sempre una sola coppia tra le alte fronde, sull'Isola potevano esserci anche due sole colombe, e una sola color arancio. Supposizione che faceva smaniare Roberto per quella bellezza peregrina - che, se attendeva lui, lo attendeva sempre dal giorno prima. D'altra parte se Roberto voleva, diceva Caspar, stando ore e ore al cannocchiale, avrebbe potuto vederla anche dalla nave. Purché si fosse tolto quegli occhiali di nerofumo. Alla risposta di Roberto, che gli occhi non glielo permettevano, Caspar aveva fatto alcune osservazioni sprezzanti su quel male da donnicciuola, e aveva consigliato i liquidi con cui si era curato il suo bubbone (Spiritus, Olea, Flores). Non appare chiaro se Roberto li abbia usati, se si sia allenato a poco a poco a guardarsi d'intorno senza occhiali prima all'alba e al tramonto e poi in pieno giorno, e se ancora li portasse quando, come vedremo, cerca di apprendere il nuoto - ma il fatto è che da questo momento in avanti gli occhi non vengono più menzionati per giustificare qualsivoglia fuga o latitanza. Così che è lecito desumere che a poco a poco, forse per l'azione curativa di quelle arie balsamiche o dell'acqua marina, Roberto sia guarito da un'affezione che, vera o presunta, lo rendeva licantropo da più di dieci anni (se proprio il lettore non voglia insinuare che da questo momento io lo desidero a pieno tempo sul ponte e, non trovando smentite tra le sue carte, con autoriale arroganza lo libero da ogni male). Ma forse Roberto voleva guarire per vedere a ogni prezzo la colomba. E si sarebbe anche subito gettato alla murata per passare il giorno a scrutare gli alberi, se non fosse stato distratto da un'altra questione irrisoluta. Terminata la descrizione dell'Isola e delle sue ricchezze, padre Caspar aveva osservato che tante giocondissime cose non potevano trovarsi che lì sul meridiano antipode. Roberto aveva allora chiesto: "Ma, reverendo padre, voi mi avete detto che la Specola Melitense vi ha confermato che siete sul meridiano antipodo, e io ci credo. Ma non siete andato a innalzar la Specola su ogni isola che avete incontrato nel vostro viaggio, bensì su questa soltanto. E allora in qualche modo, prima che la Specola ve lo dicesse, voi dovevate già essere sicuro di aver trovato la longitudine che cercavate!" Quello era per Roberto buon segno: indicava il luogo dove il barbacane sporgeva fuori dell'acqua e marcava il limite oltre il quale padre Caspar non avrebbe più corso pericolo. Dov'era ora il vecchio? Se si era messo in marcia subito dopo aver toccato, avrebbe dovuto già percorrere... Ma quanto tempo era passato? Roberto aveva perso il senso del trascorrer degli istanti, ciascuno dei quali stesse computando per un'eternità, e quindi tendeva a ridurre il risultato presunto, e si convinceva che il vecchio era appena sceso, era forse ancora sotto la carena, a cercar di orientarsi. Ma a quel punto nasceva il sospetto che la fune, torcendosi su se stessa mentre calava, avesse fatto compiere un mezzo giro alla campana, così che padre Caspar si era ritrovato senza saperlo con la finestrella rivolta a occidente, e stava andando verso il mare aperto. Poi Roberto si diceva che andando verso l'alto mare chiunque si sarebbe accorto di discendere anziché salire, e avrebbe mutato rotta. Ma se in quel punto ci fosse stata una piccola salita verso occidente, e chi saliva credesse di andare a oriente? Tuttavia i riflessi del sole avrebbero mostrato la parte da cui l'astro stava muovendo... E però, si vede il sole nell'abisso? Passano i suoi raggi come da una vetrata di chiesa, a fasci compatti, o si disperdono in un rifrangersi di gocce, in modo che chi abita laggiù veda la luce come una balugine priva di direzioni? No, si diceva poi: il vecchio capisce benissimo dove deve andare, forse è già a mezza strada tra la nave e il barbacane, anzi, ci è già arrivato, ecco, forse sta per montarvi con le sue grandi suole di ferro, e tra poco lo vedo... Altro pensiero: in realtà nessuno prima d'oggi è mai stato in fondo al mare. Chi mi dice che laggiù oltre poche braccia non si entri nel nero assoluto, abitato solo da creature i cui occhi emanano vaghi lucori... E chi dice che in fondo al mare si abbia ancora il senso della retta via? Forse sta girando in tondo, sta percorrendo sempre la stessa strada, sino a che l'aria del suo petto si trasformi in umidezza, che invita l'acqua amica nella campana... Si accusava di non aver portato almeno una clessidra sul ponte: quanto tempo era passato? Forse già più di mezz'ora, troppo ahimé, ed era lui che si sentiva soffocare. Allora respirava a pieni polmoni, rinasceva, e credeva che quella fosse la prova che di istanti ne erano passati pochissimi, e padre Caspar stava ancora godendo d'aria purissima. Ma forse il vecchio è andato di traverso, è inutile guardare davanti a sé, come se avesse dovuto riemergere lungo il tragetto della palla d'archibugio. Poteva aver fatto molte deviazioni, cercando il migliore accesso al barbacane. Non aveva detto, mentre montavano la campana, che era un colpo di fortuna che l'argano lo deponesse proprio in quel punto? Dieci passi più a nord la falsabraca s'inabissava di colpo formando un fianco ripido, contro cui una volta aveva urtato la barca, mentre dritto davanti all'argano c'era un passaggio, per cui anche la barca era passata, andando poi ad arenarsi là dove gli scogli salivano a poco a poco. Ora, poteva aver sbagliato nel mantener la direzione, si era trovato di fronte a un muro, e stava costeggiandolo verso sud cercando il passaggio. O forse lo costeggiava verso nord. Occorreva far scorrere l'occhio lungo tutta la riva, da una punta all'altra, forse sarebbe emerso laggiù, incoronato di edere marine... Roberto volgeva il capo da un termine all'altro della baia, temendo che, mentre guardava a sinistra, potesse perdere padre Caspar già emerso a destra. Eppure si poteva individuare subito un uomo anche a quella distanza, immaginiamoci una campana di cuoio stillante al sole, come un paiolo di rame appena lavato... Il pesce! Forse nelle acque c'era davvero un pesce cannibale, per nulla spaventato dalla campana, che aveva divorato per intero il gesuita. No, di tal pesce si sarebbe scorta l'ombra scura: se c'era doveva essere tra la nave e l'inizio delle rocce coralline, non oltre. Ma forse il vecchio era già arrivato alle rocce, e spine animali o minerali avevano perforato la campana, facendone uscire tutta la poca aria rimasta... Ma, come vi giungono, s'affliggono ancor più, e vorrebbero tendere ad altro fine ancora. Roberto tentava di ricordarsi quanto aveva udito da uomini di scienza che avevano studiato la Melanconia Erotica. Pareva che essa fosse causata dall'ozio, dal dormire sul dorso e da una eccessiva ritenzione del seme. E lui da troppi giorni era forzatamente in ozio, e quanto alla ritenzione del seme, evitava di cercarne le cause o progettarne i rimedi. Aveva sentito parlare delle partite di caccia come incoraggiamento alla dimenticanza, e stabilì che doveva intensificare le sue imprese natatorie, e senza riposarsi sul dorso; ma tra le sostanze che eccitano i sensi c'era il sale, e di sale, nuotando, se ne beve abbastanza... Inoltre ricordava di aver udito che gli Africani, esposti al sole, erano più viziosi degli Iperborei. Forse era col cibo che aveva dato esca alle sue propensioni saturnine? I medici proibivano la cacciagione, il fegato d'oca, i pistacchi, i tartufi e lo zenzero, ma non dicevano quali pesci fossero da sconsigliare. Mettevano in guardia contro le vesti troppo confortevoli come lo zibellino e il velluto, così come contro il muschio, l'ambra, la galla moscata e la Polvere di Cipro, ma che poteva egli sapere del potere ignoto dei cento profumi che si liberavano dalla serra, e di quelli che gli recavano i venti dall'Isola? Avrebbe potuto contrastare molte di queste influenze nefaste con la canfora, la borragine, l'acetosella; con clisteri, con vomitori di sale di vetriolo sciolto nel brodo; e infine coi salassi alla vena mediana del braccio o a quella della fronte; e poi mangiando solo cicoria, indivia, lattuga, e meloni, uva, ciliegie, prugne e pere, e soprattutto menta fresca... Ma nulla di tutto questo era alla sua portata sulla Daphne. Riprese a muoversi tra le onde, cercando di non ingoiare troppo sale, e riposandosi il meno possibile. Non cessava certo di pensare alla storia che aveva evocato, ma l'irritazione per Ferrante si traduceva ora in scatti di prepotenza, e si misurava col mare come se, sottomettendolo ai suoi voleri, assoggettasse il proprio nemico. Dopo alcuni giorni, un pomeriggio aveva scoperto per la prima volta il colore ambrato dei suoi peli pettorali e come annota per varie contorsioni retoriche - dello stesso suo pube; e si era reso conto che essi risaltavano in tal modo perché il suo corpo si era abbronzato; ma anche ingagliardito, se sulle braccia vedeva guizzare muscoli che non aveva mai notato. Si ritenne ormai un Ercole e perdette il senso della prudenza. Il giorno dopo scese in acqua senza canapo. Avrebbe abbandonato la scaletta, muovendo lungo lo scafo a dritta, sino al timone, quindi avrebbe doppiato la poppa, e sarebbe risalito dall'altro lato, passando sotto il bompresso. E aveva dato di braccia e di gambe. Il mare non era calmissimo e delle piccole onde lo gettavano di continuo contro i fianchi, per cui doveva fare un doppio sforzo, sia procedere lungo la nave che cercare di starne discosto. Aveva il respiro pesante, ma procedeva intrepido. Sino a che giunse a mezza strada, e cioè a poppa. Qui si accorse che ormai aveva speso tutte le sue forze Non ne aveva più per percorrere tutto l'altro lato, ma neppure per tornare indietro. Tentò di tenersi al timone, che gli offriva però una minima presa, coperto com'era di mucillagine, mentre lentamente si lamentava sotto lo schiaffo alterno dell'onda. Vedeva sul proprio capo la galleria, indovinando dietro le sue vetrate la meta sicura del suo alloggio. Si stava dicendo che, se per caso la scaletta di prua si fosse staccata, avrebbe potuto trascorrere ore e ore, prima di morire, bramando quel ponte che tante volte aveva voluto lasciare. Il sole era stato coperto da una folata di nubi, ed egli già intirizziva. Tese la testa indietro, come per dormire, dopo un poco riaprì gli occhi, si rigirò su se stesso, e si rese conto che stava avvenendo quel che aveva temuto: le onde lo stavano allontanando dalla nave. Più tardi fu visto bagnarsi al sole su uno scoglio, ma sempre nascondendo la parte inferiore del corpo. Guardando la nave muoveva le braccia come se applaudisse. Entrati nell'oceano Pacifico erano pervenuti a un'isola dove i leoni erano neri, le galline vestite di lana, gli alberi non fiorivano se non di notte, i pesci erano alati, gli uccelli squamati, le pietre stavano a galla e i legni andavano a fondo, le farfalle risplendevano di notte, le acque inebriavano come vino. In una seconda isola videro un palazzo fabbricato di legno fradicio, tinto di colori sgradevoli all'occhio. Vi entrarono, e si trovarono in una sala tappezzata con piume di corvo. Su ogni parete si aprivano delle edicole in cui, invece di busti di pietra, si vedevano omiciattoli, con il viso sparuto, che per accidente di natura erano nati senza gambe. Su di un trono farcissimo stava il Re, che con un gesto della mano aveva suscitato un concerto di martelli, trivelle che cricchiavano su lastre di pietra, e coltelli che stridevano su piatti di porcellana, al cui suono erano apparsi sei uomini tutti pelle e ossa, abominevoli per lo sguardo sbilenco. A fronte di costoro erano apparse delle donne, così grasse che di più non si poteva: fatto un inchino ai loro compagni, avevano dato inizio a un ballo che faceva spiccare storpiamenti e deformità. Poi irruppero sei bravazzi che parevano nati da un medesimo ventre, con nasi e bocche così grandi, e spalle così gibbose, che più che creature sembravano bugie della natura. Dopo la danza, non avendo ancora udito parole e ritenendo che su quell'isola si parlasse una lingua diversa dalla loro, i nostri viaggiatori tentarono di fare domande coi gesti, che sono una lingua universale con cui si può comunicare anche coi Selvaggi. Ma l'uomo rispose in una lingua che assomigliava piuttosto alla perduta Lingua degli Uccelli, fatta di trilli e zirli, ed essi l'intesero come se avesse parlato nella loro lingua. Compresero così che, mentre in ogni altro luogo era stimata la bellezza, in quel palazzo si apprezzava soltanto la stravaganza. E che tanto dovevano attendersi se proseguivano quel loro viaggio in terre dove sta in basso ciò che altrove sta in alto. Ripreso il viaggio, avevano toccato una terza isola che pareva deserta, e Ferrante si era inoltrato, solo con Lilia, verso l'interno. Mentre andavano, udirono una voce che li avvertiva di fuggire: quella era l'Isola degli Uomini Invisibili. In quello stesso istante ce n'erano molti d'attorno, che si additavano quei due visitatori che senza alcuna vergogna si offrivano ai loro sguardi. Per quel popolo, infatti, a essere guardati si diventava preda dello sguardo di un altro, e si perdeva la propria natura, trasformandosi nell'inverso di se stessi. In una quarta isola trovarono un uomo dagli occhi incavati, la voce sottile, la faccia che era una sola ruga, ma dai colori freschi. La barba e i capelli erano fini come bambagia, il corpo così rattrappito che se aveva bisogno di voltarsi doveva girare su se stesso per intero. E disse che aveva trecentoquarant'anni, e in quel tempo aveva per tre volte rinnovata la sua gioventù, avendo bevuto l'acqua della Fonte Borica, che si trova appunto in quella terra e prolunga la vita, ma non oltre i trecentoquarant'anni - per cui tra poco sarebbe morto. E il vecchio invitò i viaggiatori a non cercare la fonte: vivere tre volte, diventando prima il doppio e poi il triplo di se stesso, era causa di grandi afflizioni, e alla fine uno non sapeva più chi fosse. Non solo: vivere gli stessi dolori per tre volte era una pena, ma era una gran pena rivivere anche le stesse gioie. La gioia della vita nasce dal sentimento che sia gaudio che cordoglio sono di breve durata, e guai a sapere che godremo di una eterna beatitudine. Ma il Mondo Antipode era bello per la sua varietà e, navigando ancora per mille miglia, trovarono una quinta isola, che era un solo pullulare di stagni; e ciascun abitante passava la vita ginocchioni a contemplarsi, ritenendo che chi non è visto è come se non fosse. Infatti non dovrei neppure rivelarle di essere diverso da quello che amava, perché era a me e non all'altro che essa si era donata; prenderei semplicemente il posto che mi era dovuto sin dall'inizio. Non solo, ma senza avvedersene Lilia sentirebbe un amore diverso nel mio sguardo, puro di ogni lussuria, tremante di devozione. Possibile, chiunque si chiederebbe, che Roberto non avesse riflettuto al fatto che questa riscossa gli era concessa solo se davvero egli avesse toccato l'Isola entro quel giorno, al massimo entro le prime ore del mattino seguente, cosa che le sue esperienze recentissime non rendevano probabile? E possibile non si rendesse conto che stava progettando di approdare davvero sull'Isola per trovare colei che vi perveniva solo in virtù del suo racconto? Ma Roberto, lo abbiamo già visto, dopo aver iniziato a pensare a un Paese dei Romanzi del tutto estraneo al proprio mondo, finalmente era arrivato a far confluire i due universi l'uno nell'altro senza fatica, e ne aveva confuso le leggi. Pensava di poter arrivare sull'Isola perché se lo stava Immaginando, e d'immaginare l'arrivo di lei nel momento in cui egli vi fosse già giunto, perché così stava volendo. D'altro canto, quella libertà di volere eventi e di vederli realizzati, che rende così imprevedibili i romanzi, Roberto la stava trasferendo al proprio mondo: finalmente sarebbe arrivato sull'Isola per la semplice ragione che - a non arrivarvi - non avrebbe più saputo che cosa raccontarsi. Intorno a questa idea, che chiunque non ci avesse seguito sino qui giudicherebbe folleggiamento o follezza che dir si voglia (o si volesse allora), egli ora rifletteva in modo matematico, senza nascondersi nessuna delle eventualità che senno e prudenza gli suggerivano. Come un generale che dispone, la notte prima della battaglia, i movimenti che le sue truppe compiranno nel giorno a venire, e non solo si rappresenta le difficoltà che potrebbero insorgere e gli accidenti che potrebbero disturbare il suo piano, ma si immedesima anche nella mente del generale avversario, per prevederne mosse e contromosse, e disporre del futuro agendo in conseguenza di quel che l'altro potrebbe disporre in conseguenza di quelle conseguenze - così Roberto pesava i mezzi e i risultati, le cause e gli effetti, i pro e i contro. Doveva abbandonar l'idea di nuotare verso il barbacane e superarlo. Non poteva più scorgerne i passaggi sommersi, e non avrebbe potuto raggiungerne la parte emergente se non affrontando invisibili insidie, certamente mortali. E infine, anche ammesso che avesse potuto raggiungerlo - sopra o sott'acqua che fosse - non era detto che avrebbe potuto camminarvi con le sue deboli uose, e che esso non celasse scoscendimenti in cui sarebbe caduto senza più uscirne. Non si poteva dunque raggiungere l'Isola che rifacendo il percorso della barca, e cioè nuotando verso sud, costeggiando a distanza la baia più o meno all'altezza della Daphne, per poi piegare a oriente una volta doppiato il promontorio meridionale, sino a raggiungere la caletta di cui gli aveva parlato padre Caspar. Questo progetto non era ragionevole, e per due ragioni. La prima, che a mala pena egli era sino ad allora riuscito a nuotare sino al limite del barbacane, e a quel punto le forze già lo abbandonavano; e pertanto non era sensato pensare che avrebbe potuto percorrere una distanza almeno quattro o cinque volte superiore - e senza canapo, non tanto perché non ne aveva uno talmente lungo, ma perché questa volta, se andava, era per andare, e se non arrivava non aveva senso tornare indietro. La seconda, era che nuotare a sud voleva dire muoversi contro corrente: e, sapendo ormai che le sue forze servivano a contrastarla soltanto per poche bracciate, egli sarebbe stato trascinato inesorabilmente a nord, oltre il capo settentrionale, allontanandosi sempre più dall'Isola.