/<1981>/ Per soddisfare questi bisogni nacquero circa 4000 anni prima di Cristo le prime scritture, su pietra, tavolette di argilla, legno. Furono inizialmente scritture "ideografiche". Gli "ideogrammi", come per esempio i "geroglifici" degli antichi Egizi o quelli in uso in Cina ai nostri giorni, non indicano il suono di ciascuna parola, ma piuttosto l'idea, il suo significato. Ogni parola aveva un suo ideogramma. Leggere e scrivere era un'arte riservata a pochi. Preti e sacerdoti, scrivani e copisti erano i professionisti dello scrivere e del leggere. Passarono secoli. Poi, in una regione che pare debba collocarsi a metà strada fra Egitto e Israele, nella penisola del Sinai, dalle scritture geroglifiche furono ricavati i segni del primo alfabeto, le "lettere", ciascuna capace di individuare un suono e di distinguerlo dagli altri suoni della lingua. Le parole di una lingua sono migliaia e migliaia, come poi torneremo a vedere meglio. Di conseguenza, migliaia e migliaia debbono essere i segni ideografici. In teoria, ogni parola ha il suo ideogramma, il suo disegnetto necessario a fissarla per iscritto. Imparare, ricordare, sapere usare e riconoscere migliaia di ideogrammi era ed è un'arte difficile. Perciò era cosa riservata a pochissimi eletti e professionisti. L'invenzione della scrittura alfabetica fu una vera, grande e pacifica rivoluzione. Un comune vocabolario scolastico italiano o francese o inglese, ecc. contiene dalle cinquantamila alle centomila parole diverse. Tutte queste decine di migliaia di parole sono scritte combinando poche decine di lettere: l'alfabeto italiano, per esempio, ha appena ventuno lettere. Il fatto è che le lingue hanno sì migliaia, anzi decine di migliaia di parole diverse; ma il corpo delle parole, il seguito di suoni con cui distinguiamo ciascuna parola dalle altre e al quale diamo il nome tecnico di "significante", è costruito con un numero molto limitato di tipi diversi di suoni. Combinando poche vocali e qualche decina di consonanti costruiamo raggruppamenti nei quali la diversità è garantita da due fatti: la diversa natura dei suoni e il loro diverso ordine. Per esempio gatto e rive sono due parole fatte di suoni diversi: si distinguono perché i suoni sono diversi. Ma rive e veri sono due parole fatte degli stessi suoni. Tuttavia non le confondiamo tra loro perché è diverso l'ordine in cui i suoni sono collocati. Questa diversità di ordine basta a garantire la diversità dei significanti delle due parole. La scoperta della scrittura alfabetica ha permesso di riprodurre per iscritto questo stesso meccanismo. Non più un segno per ogni parola, ma un segno per ogni tipo di suono: dunque pochi segni, variamente raggruppati, per riprodurre gli innumerevoli diversi significanti di ciascuna parola. L'invenzione dell'alfabeto è avvenuta verso la fine del secondo millennio avanti Cristo. Da allora, scrivere e leggere è stato molto più facile. Non solo sacerdoti e scribi, ma anche commercianti, artigiani, agricoltori hanno potuto cominciare a imparare l'arte dello scrivere. Una parte di gente, in ciascun popolo, di generazione in generazione ha fatto largo uso dell'alfabeto. La scrittura ha permesso di fissare in testi scritti i racconti, le storie, le leggi, le notizie tecniche, le osservazioni scientifiche, i consigli. Dal Sinai l'arte della scrittura passò ai Fenici. Questi la diffusero nel Mediterraneo e, in particolare, la passarono ai Greci. Dai Greci presero il loro alfabeto i Romani e gli Etruschi. Mille anni dopo l'invenzione, l'alfabeto era diffuso, sia pure presso gruppi ristretti di popolazione, in larga parte dell'Europa e dell'Asia. Ma la marcia verso la conquista dell'alfabeto è poi continuata solo con enorme lentezza. Appena quattro, cinque generazioni fa, la conoscenza e la pratica della scrittura erano molto diffuse tra i popoli di religione cristiana che dal Cinquecento si erano ribellati alla Chiesa di Roma, cioè tra i Protestanti: dunque, nei paesi dell'Europa centrosettentrionale e nei paesi di lingua inglese. Ma altrove, anche in Europa, buona parte della gente era tenuta dai gruppi dirigenti in condizioni tali che non imparava a usare l'alfabeto. La maggior parte della gente era "analfabeta". Questa condizione era ancor più diffusa in Africa, in Asia, nell'America spagnola e portoghese. Insomma, gli analfabeti erano, cent'anni fa, la grandissima maggioranza del genere umano. Poi le cose sono cambiate. Nel 1848 Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) scrissero e lanciarono il Manifesto del partito comunista. Il Manifesto si chiudeva con l'indicazione di dieci «misure», dieci tipi di provvedimenti. Mamme, babbi, nonne, zii, parenti tutti si entusiasmano quando il bambino o la bambina comincia a sorridere. Lo abbiamo già visto e abbiamo già spiegato che hanno ragione (capitolo 2). Poi tornano a entusiasmarsi quando il bambino o la bambina balbetta la prima parola, verso i dieci mesi. Da quel momento in poi i piccoli della specie umana imparano sempre più e meglio a imitare e ripetere decine di parole: mamma, papà, pappa, acqua... Per loro ripetere è diventato un gioco. Un gioco piacevole: con poco sforzo, imitano gli esseri adulti da cui dipendono in tutto. E li seducono: ogni ripetizione è, all'inizio, un accorrere di genitori, nonne, parenti, vicini. Il gioco continua. Le diverse parole che il bambino sa ripetere sono sempre più numerose: cento intorno ai venti mesi. Un po' alla volta l'entusiasmo dei vicini e dei parenti si raffredda. Poi cedono anche le nonne, i padri, certe volte perfino le madri. E fanno male. Fino a questo punto il parlare del bambino è stato solo un "codice della certezza". Ogni parola è un segno a sé che serve per nominare in blocco una situazione, per richiamare l'attenzione degli adulti, per avere la pappa o l'acqua o per segnalare, spesso, fastidi o meno nobili necessità. Quando il piccolo essere sa un centinaio di parole, gli adulti finiscono col distrarsi da lui. Lo lasciano per conto suo. Lui o lei qualche volta si incanta nel gioco della ripetizione: ripete e ripete e ripete, sillabandola, sempre la stessa parola. L'entusiasmo degli adulti rischia di cambiarsi in noia. Ma, intanto, mentre in apparenza ripete, mentre come emittente pare solo un ripetitore, il suo cervello lavora freneticamente. Le mamme più pazienti, se ci fanno caso, possono accorgersi che, come ricevente, il piccolo sta facendo passi da gigante. Grazie alle parole che egli ripete, si è messo in grado di capire un numero sempre maggiore di frasi diverse degli adulti. Il piccolo sta rivivendo nel giro di poche settimane esperienze che la specie cui appartiene ha vissuto per decine di migliaia di anni, tra una grande glaciazione e l'altra. Egli sta scoprendo e sperimentando i miracoli dell'arte combinatoria. Mentre come emittente usa la lingua come un codice di primo tipo, come ricevente è già oltre. Già sta scoprendo che le frasi degli adulti sono diverse tra loro perché raggruppano in modi diversi poche decine di parole. Alla soglia dei due anni, un po' prima le bambine, un po' dopo i bambini, i piccoli ripetitori apparenti tentano una nuova avventura. Non più il gioco della ripetizione e del nominare, ma il gioco della combinazione di parti. «Mamma acqua», «mamma pappa»; risuonano le prime frasi a due posti, spesso tra la disattenzione generale. Bambine e bambini hanno fatto in quel momento un grande, immenso salto. Hanno capito che con due parole si possono ottenere sei diverse frasi fino a due posti, con tre parole dodici frasi fino a due posti, ecc. Hanno scoperto le virtù dell'articolazione e della combinazione. Da quel momento, le parole funzionano per il bambino come carte da gioco, come unità di base di una combinatoria. Con esse il bambino gioca, comunica, mette ordine nei suoi rapporti con i grandi, con le cose. Gioca e rigioca con il codice semiologico del terzo tipo che ha imparato. E ancora non sa bene che, con questo strumento tra le mani, in testa, egli si è conquistato ben più del molto che pure abbiamo già detto. Imparando a giocare con le parti di una frase, sostituendole, raggruppandole in vari modi, bambine e bambini si aprono una porta sull'infinito. 22. FRASI PER FARSI CAPIRE La grande libertà di scelta che abbiamo con le parole abbiamo anche con le frasi. I tipi di frase possibili in una lingua sono, come abbiamo detto, infiniti. Ma, anche a badare soltanto ai tipi più comuni, ci troviamo dinanzi a una massa sterminata. Dalle frasi "monoreme", fatte di una sola parola («Grazie», «No», «Via!»), si passa alle frasi fatte di più parole, ma senza verbo («Per di qui», «Via libera», «Scarpe grosse cervello fino»). E da queste si passa a frasi più complesse, fatte di più parole raccolte intorno a un verbo, cioè fatte di una "proposizione". Diversi procedimenti consentono di mettere insieme più proposizioni in una stessa frase. Il procedimento più semplice è la "giustapposizione", cioè l'allineamento di proposizioni l'una accanto all'altra, senza congiunzioni («Prendo, parto, vado via, voglio vivere come dico io»). Le "congiunzioni coordinanti" o "avversative" (e, ma) marcano il rapporto di proposizioni nella stessa frase. Frasi con proposizioni collegate solo da congiunzioni coordinanti si dicono "paratattiche" (dal greco para, "accanto" e taktikùs, "ordinato"). Il procedimento più complesso è la "subordinazione": una proposizione viene scelta come "principale" e le altre vengono collegate a essa attraverso "congiunzioni subordinanti", tipo quando, perché, o attraverso i pronomi relativi (che, in cui, da cui, ecc.). Le frasi con subordinate si dicono "ipotattiche" (dal greco hypù "sotto, dipendente da" e taktikùs). Una lunga tradizione scolastica raccomanda le frasi ipotattiche come più logiche o gradevoli. In realtà, dall'antichità classica ai nostri giorni grandissimi scrittori hanno preferito frasi solo debolmente ipotattiche. Dal punto di vista del gusto non è facile decidere. Scrittori che usano frasi brevi e debolmente ipotattiche raggiungono risultati artistici non meno famosi di scrittori che preferiscono frasi ampie e ipotattiche. E se è vero che frasi troppo lunghe possono stancare i lettori, è vero pure che il susseguirsi di frasi brevi può alla lunga riuscire noioso, monotono e, alla fine, altrettanto stancante. Lasciamo perciò da parte la questione del gusto. Limitiamoci ad alcune considerazioni pratiche. L'uso di frasi brevi, dunque debolmente ipotattiche, favorisce la comprensione di un testo. Frasi più lunghe di venti parole riescono di difficile comprensione a chi ha livelli scolastici pari o inferiori alla quinta elementare. Possiamo usarne una, due, se ci servono. Troppe, stancano. In Italia, dunque, esse allontanano il 60-70% della popolazione adulta. Se scriviamo un trattato sull'algebra indiana nel Medioevo, questo può non preoccuparci. Se scriviamo l'articolo di fondo di un quotidiano, questo dovrebbe preoccuparci. In generale, non vi è frase che non guadagni in chiarezza semplificandone i rapporti di dipendenza tra le proposizioni che la compongono. Semplificate i rapporti di dipendenza tra le proposizioni e la frase guadagnerà in chiarezza. Si può constatare che la semplificazione dei rapporti ipotattici e la loro trasformazione in paratattici o, al limite, giustappositivi, non soltanto favoriscono l'accessibilità alla frase, ma consentono di abbreviarne notevolmente l'estensione. Non usate proposizioni dipendenti. Usate proposizioni coordinate. Oppure spezzate in due la frase. Guadagnerete in chiarezza e anche in rapidità. Naturalmente è onesto sottolineare, oltre i vantaggi, gli svantaggi delle frasi brevi, di sintassi semplice. Frasi brevi e limpide si capiscono bene. La mente del lettore o dell'ascoltatore non è tutta impegnata nello sforzo, a volte disperato, di uscire dall'intrico delle subordinate. La mente del lettore può correre alla sostanza concettuale. E un maggior numero di menti può dedicarsi a questo compito. Di conseguenza se nel ragionamento c'è un punto debole, le frasi brevi e lineari rendono più facile scoprirlo. Chi vuole che il suo punto di vista non sia sottoposto a controlli e verifiche, farà bene a usare frasi molto lunghe.