/<1993>/ L'avevo conosciuto otto anni prima. Il direttore del mio giornale mi aveva affidato un servizio sullo stress e qualcuno, non ricordo chi, mi aveva suggerito il suo nome: «Si occupa del rapporto tra psiche e malattie del corpo». Dell'ipotesi psicosomatica avevo sentito parlare, per la prima volta, quando una cara amica, Silvia, mi aveva convinta a partecipare a quelle che furono le mie prime lezioni di Yoga. E all'Associazione Italo Indiana mi venne spiegato che cosa fosse Ayurveda, la scienza della Vita, la medicina più antica del mondo, la cura del corpo attraverso quella dell'anima. James, il maestro indiano, mi ripeteva: «Esiste un'energia cosmica che ci pervade. E quando il suo contatto con la carne si spezza, il flusso di questa forza s'interrompe. La gente, ormai, è abituata ad affidarsi soltanto ai farmaci e ingoia pillole su pillole. Però, anche volendo negare l'esistenza dello spirito, almeno si dovrebbe riconoscere la realtà di una psiche capace di determinare reazioni nel fisico». Che cosa fosse, poi, l'energia in questione non mi era troppo chiaro e non era tempo per me, allora, di approfondire la questione. In quel periodo, tutto il mio impegno era indirizzato alla definizione di un'identità, del posto che avrei dovuto, o potuto, occupare nella vita. Così avevo accantonato quello che mi sembrava un guazzabuglio di dottrine religiose, di ciarlatanate e di ricordi mitologici che, tuttalpiù, avevano il potere di ricondurmi ai tempi dei banchi di scuola. Un insieme che, tutto sommato, mi metteva un poi a disagio. Eppure, ripensandoci dopo tanti anni, ricordo che fin da bambina avevo creduto a un mio speciale assioma: «Chi è felice non si ammala». Chissà, forse era la frase che avevo sentito tante volte ripetere da mia nonna, «Il riso fa buon sangue», oppure la sensazione di benessere, anche fisico, che provavo ogniqualvolta mi sentivo in pace con me stessa, a far crescere dentro di me quella credenza. Ma avevo conservato quell'idea, come uno scrigno prezioso, sepolta sotto i miei pensieri. E non avevo mai avuto l'impulso di comunicare ad altri le mie impressioni, confusamente consapevole di nutrire una diversità di vedute da chi cercava sempre di ragionare su basi concrete, rifiutando anche soltanto il discorso su possibili «strane filosofie». Chi è felice non si ammala. Ma con il trascorrere degli anni, mi accorsi che il concetto di felicità non era qualcosa di misurabile o demarcabile entro precisi confini, che non si risolveva nella realizzazione di sogni nel cassetto, di carriera o di conquista delle mete da sempre desiderate, ma riguardava un nucleo che se ne stava rimpiattato nelle pieghe più profonde dell'esistenza. Era uno strano miscuglio di sensazioni forti, in delicato equilibrio con la sobria luce della ragione. Un equilibrio sofisticato, difficilissimo da raggiungere. E una scoperta che mi turbava, non poco. All'epoca del primo contatto con Raffaele, questi miei pensieri lontani erano ormai sprofondati in un pozzo che pareva senza fine e sul bordo del quale avevo sistemato una pesante e rassicurante lastra di pietra. Per l'articolo sullo stress, dunque, gli telefonai. E s'iniziò il mio rapporto telefonico di lavoro e di amicizia con lui. Un rapporto che col tempo divenne, e ancora è, scambio, confronto, a volte scontro, con lunghissimi periodi di silenzio, tra due cocciuti che non hanno mai timore di dirsi quel che pensano. E che non si risparmiano critiche, neppure le più impietose. Tra noi e l'uscita del numero che avrebbe contenuto quel servizio c'erano centocinquanta chilometri di troppo e pochissimo tempo a disposizione. Così l'intervista gliela feci per telefono. E anche negli anni successivi i nostri contatti furono solo telefonici. Del resto, non c'era necessità di vederci. Fin da quella prima volta, infatti, tra lui e me s'era instaurato una sorta di codice preciso, un modo di comunicare rapido, sintetico. Lui intuiva il senso delle mie domande e mi rispondeva, spesso ironizzando su certe mie sicurezze e su lapidari ragionamenti dei quali andavo fiera. E io apprezzavo le sue risposte, prive di fronzoli, sempre dirette al centro della questione. Un sollievo per chi è alle prese con un lavoro come il mio. Molte volte, in tutti questi anni, gli articoli scritti con la sua consulenza altro non sono stati per me che tentativi di percorrere piccoli passi prudenti su un terreno densamente minato, con il rischio, a ogni riga, di far vacillare la mia credibilità. E si può immaginare con quali conseguenze. Lui mi parlava di cose che non risultavano, e non risultano, troppo gradite alla maggior parte degli uomini di medicina e più d'uno non mancò di farmi obiezioni sulla «superficialità di alcune tesi non provate scientificamente». Per tacere delle occhiate sardoniche di quelli, tra i miei colleghi di altre testate, che vengono considerati (e si autodefiniscono) giornalisti scientifici, che mangiano e bevono alla salute delle multinazionali del farmaco, rincorrono omaggi alle conferenze stampa, viaggiano per il mondo al seguito di congressi sponsorizzati e scrivono su qualsiasi argomento venga loro proposto da chi ha in mano certi commerci. Poi mi annuncia la partecipazione di personaggi interessanti che da tempo desideravo conoscere. Le menti vive hanno su di me un salutare effetto stimolante e progetto di trascorrere un poi di tempo in loro compagnia, di poter parlare senza riserve: ho tante domande da fare. Legato al congresso sul simbolo, c'è un episodio che non potrò mai più dimenticare. Quella notte non riesco a riposarmi. Sono ormai diversi giorni che provo un dolore sordo al braccio destro, una sofferenza che si estende a tutta la spalla e mi costringe a vivere ore opache, segnate da un cupo malessere di fondo e da un'indicibile sensazione di stanchezza. Neppure il ricorso ad antidolorifici e antinfiammatori è servito. Ho provato a seguire il consiglio di un amico: ginnastica e massaggi. Ne ho ricavato brevi momenti di sollievo, poi l'impressione di una morsa che stringe muscoli e ossa è tornata, un supplizio più rabbioso e più esteso di prima che non mi dà tregua. Certo, capisco che cosa si possa pensare a questo punto: mal di testa, dolore al braccio... No, non sono una lagna. Però è vero che si tratta di una ben strana coincidenza: vedo questo medico per la seconda volta e per la seconda volta sono «malaticcia». La cosa mi secca terribilmente e mi chiedo: che ci figura ci faccio? Una brutta figura, senza dubbio. E non mi garba. Mi piace mostrarmi con grinta, decisa e sicura di me. Malgrado tutte le parole scolpite nella pietra da anni di femminismo feroce sulla parità tra i sessi, nel mondo del lavoro le cose non sono poi cambiate granché: per un motivo o per l'altro una donna è sempre sotto i riflettori, esposta al giudizio. Forse noi donne abbiamo perso una buona occasione per dare una svolta al mondo e, piene di rabbia e di ansia di rivincita, abbiamo soltanto cercato di raggiungere le mete da sempre appannaggio dei nostri compagni: il successo di fronte al mondo, la conquista, il potere, l'immagine vincente. Mi vien da pensare a quei popoli oppressi che, una volta liberati, non sanno fare altro con i loro nuovi governi che ripetere gli errori dei loro oppressori, distruggendo per giunta le poche cose buone che la storia può aver insegnato loro. Abbiamo dimenticato la forza creatrice della femminilità e, se in un tempo lontano tutta questa energia veniva spesa soltanto nel prendersi cura della famiglia, oggi questa stessa forza non è stata capace di inventare modi rivoluzionari di spazzar via dalla vita la meschinità. Siamo finite anche noi sulla giostra. E giriamo, giriamo, senza fantasia, sempre al suono della stessa musica. Sono pensieri che mi premono in testa mentre mi dico che non sarà facile, domani, quando vedrò Raffaele, far finta di nulla proprio mentre ciò che mi sta accadendo mi spingerebbe a mostrarmi come un animale ferito che se ne sta nella tana, buono buono, aspettando di guarire. Ma la decisione è presa: stringere i denti e non fare la vittima. Non mi considero, e non sono, una donna in carriera, però mi dà un terribile fastidio che di me si dica: è una lamentosa. Sì, lo riconosco, questa è una debolezza. Forse mi deriva dal fatto che mia madre, affamata di un affetto che non aveva, ha sempre cercato di interessare gli altri a sé, presentandosi come creatura di fragile costituzione, cagionevole, bisognosa di cure. Lei, forgiata nel più resistente acciaio. Lo stesso acciaio del suo carattere che in più d'una occasione ha tenuto in piedi ogni muro della nostra famiglia. Un atteggiamento che mi ha irritato per anni, ha irritato mio padre e i miei fratelli e che soltanto adesso incomincio a considerare con tenerezza. E a capire. Vado a letto, quella sera, sperando in un risanamento miracoloso portato dal sonno. Ma, nella notte, al tormento fisico si aggiunge la preoccupazione per un improvviso gelo diffuso a tutta la parte destra del corpo, accompagnato da una diminuzione della sensibilità. Il mio braccio mi sembra quello di un cadavere. Lo so, un morto non prova dolore, almeno per quanto ne sappiamo, ma il freddo e l'impressione di avere il sangue ghiacciato nelle vene mi costringono a pensare alla morte. E' inutile ricorrere al vecchio sistema della borsa d'acqua calda sulla parte dolente: quel ghiaccio nel mio sangue non si scioglie. Spendo le ore del buio a trasformare il mio giaciglio nel peggior letto di Procuste, a irrigidirmi sempre più tra le lenzuola aggrovigliate, presa in mezzo tra la sofferenza fisica e lo scoramento per non riuscire a lenirla in alcun modo. Vorrei poterne parlare con qualcuno e, chissà perché, mi scopro a pensare a tutti quei malati immobili nei letti di corsia, al frettoloso giro di visita del primario e della sua corte, al veloce andirivieni degli infermieri, sempre troppo pochi o troppo menefreghisti. «Che effetto ti fa?» «Mah... ha l'aria allegra... sembra viva, sembra che voglia giocare. Mi fa quasi tenerezza. Però non capisco che cosa...» «Aspetta e calmati. Non hai niente da capire. Ora sai che fa la palla? Guardala, ti guida verso una stanza. Saltella e rotola... tu valle dietro, seguila... Adesso sei passata attraverso una porta e nella stanza, grande e luminosa, ci sono tanti giocattoli meravigliosi, tutti lì a tua disposizione.» «Humm... Sì, stanno dentro un cesto di vimini e io li sto tirando fuori, sono i miei, li riconosco, ma...» A questo punto la visione serena cambia all'improvviso e sento che sto corrugando la fronte. Avverto, nella stanza dei giocattoli, la cupa presenza di altre persone. E sento un suono strano, roco, inquietante. La sua voce riprende: «Che c'è? Che stai vedendo ora?» Non posso rispondere subito, i battiti del cuore si stanno accelerando e ondate di angoscia e di nausea mi si concentrano all'altezza dello stomaco. Sento la testa come se fosse vuota, come se lunghe dita gelate mi tenessero la nuca. «Daniela, per favore, dimmi che altro vedi nella stanza.» «C'è il sole di primavera e l'aria è tiepida. Una tendina bianca ha una piccola macchia circolare. Una bruciatura di sigaretta. E sul letto...» «Chi c'è sul letto?» «Un uomo... un uomo che rantola. Sta rantolando! E sua moglie... e mio fratello sono... C'è la mamma che lo chiama... Mia mamma... E ci sono io, siamo tutti lì. Gli sto massaggiando i piedi, ha tanto male... Anche i polsi... No, no, ti prego, Dio, no, no, no... Papà, papà... O Dio ti supplico, no!» « E' tuo padre l'uomo sul letto?» «Sì, sì... E l'ambulanza non arriva... Non arrivava mai, ho telefonato tante volte. Ha male, tanto male al petto. Corro al telefono ancora! Maledetti, non arrivano! Mio padre ha un infarto, un dolore insopportabile, "un elefante che ti si siede sul petto" mi ha detto un medico una volta... Ho paura che muoia, avevo il terrore che morisse, sono terrorizzata!» Sento in lontananza la voce di Raffaele, quasi m'infastidisce, perché voglio concentrarmi su quella scena, tentare di mutarne l'epilogo. Ma lui continua: «Rimani lì, non aprire gli occhi, non andar via. Segui l'immagine, guarda e continua a dirmi quello che vedi.» «Ecco... sono arrivati gli infermieri e lo mettono sulla lettiga. Escono di casa... La mamma piange. No, vedi? Sull'ascensore non può starci... Giù, giù per le scale, presto! Scendono, portano a fatica il peso di mio padre. E' alto lui, è grande, è forte. Una quercia colpita dal fulmine... Gli uomini dell'ambulanza barcollano e a mio padre scivola un braccio dalla lettiga. Mettetelo su, così si farà male! Non rispondono, non possono fare nulla, hanno le mani impegnate. Mi affaccio al vano delle scale di marmo e vedo quel braccio, il suo braccio destro, che sbatte e sbatte contro il grigio della ringhiera ogni volta che gli infermieri curvano. Cerco di seguirli, ma qualcuno mi costringe a entrare in ascensore.» Ora sto piangendo, singhiozzando. Non m'importa più se entra qualcuno, non m'importa di quello che pensa il mondo intero: non ho potuto sostenere quel braccio mentre mio padre stava morendo, non ho potuto evitare quei colpi cattivi mentre lui se ne stava andando da noi e dalla vita. Lascio che il senso d'impotenza e di disperazione esca dal mio cuore ed è come un'esplosione che, a poco a poco, mi lascia addolorata, ma con un leggero senso di libertà. E' ancora la voce amica che ascolto, ora più vicina, mentre mi sento totalmente affranta. «Quanto tempo è passato da allora?» «Tredici anni oggi. Era proprio il 31 marzo...» «Ascolta Daniela, adesso, pian piano, cerca di rilassarti ancora, come prima, quando abbiamo incominciato. Guarda, vicino a te: c'è ancora quella palla allegra. La vedi?» «Sì» mormoro. Sento le lacrime calde rigarmi le guance e scendere lungo il collo. Mi danno l'impressione di un rigagnolo di montagna che purifica dove passa. «Sai, è piena di energia, di luce, di calore. Pensa che secoli e secoli fa un uomo saggio, forse un antico mago, l'ha riempita di questa energia. Riesci a pensarlo?» «Sì, ci riesco. Lo sai? Mi piacciono le fiabe.» E all'improvviso, con andamento disordinato, perline sfuggite al filo, i ricordi mi riempiono gli spazi di casa. Causa-effetto. Chi mi spiegherà mai il sogno di quella notte? Ragazzini vestiti da chierichetti salivano le scale in casa dei miei genitori. Portavano ceri accesi. Per un funerale. Mi ero svegliata urlando. La ragione aveva detto: «No, non è possibile». Ma quale parte di me sapeva che mio padre sarebbe morto di lì a due giorni? E il pensiero corre più lontano nel tempo. Sto salendo le scale dell'Università. Alle mie spalle, in strada, passa una moto. Il suo rombo mi procura un nodo d'angoscia allo stomaco. «Perché?» mi chiedo. Molti amici, molti compagni di corso hanno la moto, non mi hanno mai spaventata. E con il cuore ancora in tumulto entro nell'aula di archeologia etrusca. Accanto a me è seduta una compagna, una delle gemelle Righetti. Mi saluta e noto che si è tinta i capelli. «Sì, sì,» mi dice, dandomi un buffetto sulla spalla «così la smetterete di scambiarmi per mia sorella!» E ride. Ma il suo sorriso ha qualcosa di evanescente per me, di perduto. Finita la lezione, lei mi saluta ed esce dall'aula. La guardo mentre si allontana e la sua figura mi sembra una delle larve sulle tele di El Greco. Ma perché vorrei fermarla? Il mattino dopo vengo a sapere dal giornale che la mia compagna, uscita dalla lezione, è salita sulla moto del suo ragazzo. Appena pochi metri di corsa verso quello che doveva essere un pomeriggio allegro, poi lo schianto contro un tram. La mia amica è morta sul colpo. Un caso. Ma un caso che mi fa un male terribile, una realtà - quella della «sensazione» della sua morte forse ancora più forte di quella della morte stessa - che non riesco a «digerire». Infatti, in quella lontana mattina, alzo gli occhi dal giornale, corro in bagno e vomito. Causa ed effetto. E' capitato anche al mio oculista. Quando stava per morire suo padre, un fagiano si era posato sul suo terrazzo. «E mio padre» mi ha raccontato Augusto «è morto il giorno dopo, per un ictus.» Il fagiano - come mi ha spiegato - per lui era foriero di morte. Gli era già successo altre volte. Superstizioni? Ignoranza? Impossibile attribuire tali capi d'accusa a uno come Augusto Diversi. Dopo queste riflessioni desidero riprendere il discorso con Jung, con questo Jung ritrovato che forse già molto tempo fa mi aveva intimorito perché aveva messo in dubbio quel predominio della ragione nel quale credevo, ciecamente. Anche Jung, a quanto egli stesso riferisce, ha avuto esperienza di precognizioni. E cita il caso della moglie di un suo paziente che, proprio come accadde al mio oculista, aveva messo in relazione l'imminente fine del marito con il fatto che uno stormo di uccelli si fosse posato sul tetto della sua casa. Il marito era appena uscito per andare dal medico, una semplice visita di controllo, quando la donna aveva visto quella scena. Sulla via del ritorno l'uomo era stramazzato a terra, morto. Ma quale parte hanno gli uccelli in queste vicende? Quale significato? Sono espressione della natura, una delle più belle, quella che ci avvicina al volo, alla libertà verso il cielo. Mi vien da pensare, però, che molti hanno una sorta di ancestrale repulsione nei confronti dei volatili e provano malessere nello stare loro accanto. In casa mia per esempio, s'era rinunciato a tenere canarini o cocorite, perché io tendevo ad aprir loro la gabbia. Ero bambina e vivevo nel terrore di svegliarmi, al mattino, e di ritrovarli morti. Come dice un antico proverbio, «Penne portan pena». Dunque, uccelli come messaggeri di morte? perché? La risposta di Jung sta in quelli che chiama «archetipi», ovvero «antichi modelli». Se si riflette che già nell'Ade dei Babilonesi le anime portano un abito di piume, e che nell'antico Egitto il ba, l'anima, è immaginato a forma di uccello, non siamo troppo lontani dall'ipotesi di un simbolismo archetipo. Come le «colombe dal disìo chiamate» di Dante, o come l'anima che «vola a Dio», nella tradizione di molte religioni. Sento improvviso il bisogno di parlarne con il mio «consigliere» e lo chiamo al telefono. «Ciao, rompiscatole in linea...» «Oh, Daniela, che c'è? Stai male di nuovo?» «Bravo, me lo merito... No, sto benissimo, vorrei chiederti una cosa, perché, sai, sto leggendo La sincronicità...» «Ah! Bene, molto bene.» «...E vorrei capire perché morte, anima e uccelli sono spesso associati.» «Già... L'episodio della paziente di Jung, vero?» «Quello e altri.» E allora - scrive ancora nella sua lettera per me - i disturbi collaterali lasciati dal cobalto si ingigantiscono e la paura cresce. E a questa paura si aggiunge il dolore di sentirsi proprio abbandonati. Mentre pullulano associazioni varie, non c'è quella per i cancerosi, dove potersi incontrare una, due volte al mese assieme a un dottore che, forte della sua specialità in oncologia, ci avvicini e ci parli come suoi fratelli in Cristo, e almeno non ci si senta esclusi dalla società, esclusione che segue alla parola «Cancro», per cui bisogna tenere nascosto il proprio male. Nessuno, è evidente, si era mai preso il disturbo di far sapere a Giovanna che esistono gruppi di quel genere, associazioni di laringectomizzati, di mastectomizzate. Vorrei parlarle, se potessi, di «Attive come prima», un'organizzazione di donne piene di coraggio, che non si sono volute arrendere alla mutilazione. Penso che da allora molta acqua è passata sotto i ponti e che il Cancro, che un tempo si evitava di nominare e che veniva esorcizzato con giri di parole («la malattia incurabile»; «il brutto male») è stato sostituito con un altro formidabile spauracchio: l'AIDS. E penso anche: come ho potuto dimenticare quella donna? Forse, ricevendo la sua lettera, ho pensato: «Poverina, è alla fine. Ma io che posso farci? Non sono un medico...». O forse anch'io, alla parola cancro, anzi: Cancro, ho preferito voltare pagina, mentre stavo vivendo l'inizio di un grande amore e non volevo attorno a me nulla che non fosse vivo, luminoso e felice. Così quel disperato SOS è rimasto nel cassetto. E mi angoscia il pensiero di Giovanna che, un giorno, aveva trovato in me dieci minuti di solidarietà e si era sentita persona, non rifiuto, reso repellente dalla malattia. Cerco un indirizzo sulla busta, ma non c'è: davvero Giovanna non ha (o non aveva) molta fiducia nel suo prossimo... Il telefono, lo scrive lei stessa, in casa non ce l'ha e infatti sull'elenco non trovo il suo nome. Ogni filo tra Giovanna e me è ormai, irrimediabilmente, spezzato. Non ho mai più avuto sue notizie. Mentre ho ancora gli occhi fissi sulla lettera, il telefono si mette a squillare. «Ciao, sono Raffaele.» Questa volta mi ha preceduta, ma prima che io abbia il tempo di parlargli di quanto è venuto fuori, a sorpresa, dai miei cassetti, mi dice: «Sai, c'è una mostra d'arte moderna da vedere. Penso che ti potrebbe interessare per la ricerca che stai facendo. E' proprio nella tua città. E siccome io ci devo andare, se hai voglia puoi venirci con me: potresti imparare a guardare l'arte da un altro punto di vista. Quello simbolico, tanto per cambiare». Passano tre giorni e ci troviamo all'ingresso della mostra. Non voglio parlargli subito di Giovanna, preferisco aspettare un momento più adatto. Per adesso è lui che parla a raffica: degli autori che vedremo, delle tecniche, delle intuizioni, delle idee rivoluzionarie degli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta. E, a mano a mano che procedo nella visita delle sale, mi rendo conto che in passato ho commesso l'errore di fermarmi alla superficie di certe opere, lasciando spaziare, padroni del campo, soltanto gli occhi della ragione. Devo ammetterlo, ho chiuso la porta in faccia alle impressioni che suscitano le tele tagliate di Fontana o le misteriose forme a medusa di Sebastian Matta, gli universi spaziali di Canogar o i musicali intrecci colorati di Dorazio, i capelli di luce di Hartung o i viaggi spaziali di Wifredo Lam che dai totem africani sembra approdare a un futuro che abbiamo già dentro. Raffaele, intanto, mi indica i pezzi di valore, me li spiega, mi invita a entrare nell'essenza di un linguaggio che passa dal dominio dell'immaginario all'ossessione, al ripetere un concetto che si avvinghia alla mente dell'artista fino a farlo prigioniero, oppure esplode, in un moto di liberazione, dalla sua persona e si materializza nello sfregio, nella perforazione della tela incapace, ormai, di contenere tanta furia vitale e creativa. Ora siamo nella sala dedicata a Cesar. I mostri sono lì, davanti a me: materia compressa, forme spezzate. Vaghiamo tra cubi costruiti con lattine, motociclette, tubetti di dentifricio moltiplicati dentro un inviolabile scrigno di insensibile plexiglas. E accetto, poco alla volta, che arte non sia puramente l'espressione del bello e dell'armonico, ma capacità di manifestare la forza di un'emozione, di un'angoscia, di un evento. E infatti queste opere le ho sempre tenute lontane perché mi davano inquietudine. Non le capivo. Non parlavano alla mia mente, ma forse al mio cuore. Un linguaggio che fa paura, quello del cuore. «Guardale queste cose,» mi dice Raffaele all'improvviso «guardale fino in fondo. Non si possono capire le malattie contro le quali combattiamo oggi se non si comprende il significato di queste opere.» La donna, prima d'interrompere gli incontri con lo psicoterapeuta, fa sogni che giudica «importanti». E registra tutto, meticolosamente, assistendo alla propria attività onirica, da addormentata e da sveglia. Durante uno di questi sogni, ode una voce fuori campo che le sussurra: «Devi capire l'importanza dei dinosauri». L'idea dei giganteschi sauri dei primordi torna in un secondo sogno. Enigmatica, incomprensibile a un primo approccio della ragione. «Incomprensibile? Guarda», dice Raffaele mostrandomi un libro, «leggi qua.» Il capitolo di un libro che mi ha portato tratta di cosmogenesi e antropogenensi presso gli antichi. Ecco quanto ha sottolineato per me: «Secondo gli Egizi, la Terra, Geb, al centro dell'universo, è concepita come il dorso peloso di un gigante, da cui germogliano le piante». «Bene,» osservo «ma che c'entrano i dinosauri?» «Sono i "giganti pelosi" ai quali si riferisce il testo che hai appena letto. Sembra che ognuno di noi sia alimentato da un'energia che potremmo chiamare "di scambio", che muta come muta la pianta di rose con l'alternarsi delle stagioni, dal bocciolo alla caduta dei petali; ma pare esserci un'altra energia, perenne, immutabile, primordiale, che fa sì che l'archetipo della rosa sia sempre lo stesso, per cui nasce una rosa e non altro. L'inconscio di Isabella le ricorda l'importanza dei dinosauri, dell'energia primaria, perenne e infinita, cui occorre rimanere legati. Quasi a rammentarle che è l'archetipo a dover realizzarsi, non l'immagine riflessa in uno specchio. E' il mondo dell'Io che è malato. Si direbbe che la malattia colpisca quando all'Io, alla ragione, si concede uno strapotere che soffoca, nasconde, imbriglia quell'energia antica che trova sfogo e rappresentazione, ancor oggi, nelle fiabe, nei miti, nei riti. Il dominio assoluto del mondo della ragione sta distruggendo nella vita degli uomini la forza primaria che li mette in relazione con il mondo, con l'armonia fra le parti dell'universo, quella stessa armonia che regna fra le cellule di un organismo. Con l'infinito. L'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande.» «Ma, se così fosse, vorrebbe dire che il cancro è un'energia repressa che cerca sfogo, che tenta di ricomporsi in qualcosa che è stato soffocato. Imprigionare un'energia che prende le mosse dall'infinito: sarebbe come mettere il cielo in gabbia.» «Credo che più o meno le cose stiano in questo modo:» dice Raffaele, quasi parlando a se stesso «il cancro potrebbe davvero essere un disperato bisogno di mutazione.» «Bisogno di chi, di che cosa?» «Dell'anima, Daniela. Dell'anima.» Femmine. Non sono trascorsi molti giorni da quando ho appreso la storia di Isabella che mi ha lasciato un senso di profondo smarrimento. Rimugino le parole di Raffaele e mi chiedo se davvero l'anima sia così terribilmente capace di sviluppare variazioni nel corpo, pur di far sentire le proprie urgenti ragioni d'essere. La routine del mio lavoro, adesso, incrocia una sorta di percorso iniziatico che non so dove mi porterà. Mi accorgo di essere in viaggio quando ormai sono partita e non è più possibile invertire la marcia. Ora non posso più far finta di niente. Ora guardo ogni cosa da un'altra angolazione, e ne percepisco un'aura piena di dubbi. Anche il nuovo servizio che mi viene assegnato, sulla divisione di chirurgia plastica del Centro traumatologico di Torino, mi rivela la parte nascosta di una realtà ben più complessa di quel che immaginavo. Devo intervistare il primario, il professor Giampaolo Ambroggio, sulla ricostruzione delle mammelle in donne che ne hanno subito l'asportazione. Avevo conosciuto il chirurgo un paio di anni prima e sono contenta di tornare a parlare con questo professionista, simpatico e ricco di umanità. Lo incontro nel suo studio, in ospedale. Con lui una dottoressa tutta pepe ed efficienza. Elisa Oberto è il suo aiuto, qualcuno assicura il suo «alter ego». Comunicativa, diligente e pronta di riflessi. La sua mente è una specie di archivio storico. Ma per tutti è «Pallina». I suoi colleghi han preso a chiamarla così, con affetto, quando era incinta ed esibiva una pancia rotondetta, che la sua personcina agile e minuta metteva in evidenza. Qui sembrano avere tutti un aspetto rilassato (degenti a parte) e mi sto chiedendo come si lavori in un posto dove le persone sanno anche sorridere o, perlomeno, cercano di vivere serene. Penso a certi uffici dove l'impegno quotidiano diventa un calvario, e ci si deve adeguare all'austerità dell'immagine imposta. Ma che cosa c'è dietro quell'immagine? Spesso intrallazzi, sotterfugi e opportunismi. Non è facile creare un ambiente di lavoro sereno, meno che mai in un reparto che vive di una realtà tutt'altro che lieta, come quello in cui mi trovo in questo momento: qui le donne che si sono ammalate di cancro al seno vengono a tentare di ricostruire, insieme con una o entrambe le mammelle, anche il coraggio di continuare a vivere e di riprendere a sentirsi donne, donne intere. Donne ancora desiderabili. Non donne a metà. L'uomo e la natura sono legati da un'alleanza, un patto ancestrale. L'Aids non sarebbe altro che la rottura di questo legame. Ma com'è possibile che ciò accada? Alla base ci sarebbe un processo collettivo errato, che non considera più l'individuo nel suo concreto insieme di corpo e psiche, ma privilegia la psiche, con il rischio di smarrire il suo «centro» biologico. I «simbolisti» (chiamiamoli così, con buona pace di Mallarmé) sostengono che l'uomo non riesce più a riconoscersi nel «mostro» ch'egli stesso ha creato: una società che esalta la tecnologia (utilissima, fino a quando non diventa tirannica), che accelera ogni ritmo di vita, che punta alla continua espansione quantitativa, trascurando spesso la qualità. Un'organizzazione sociale che affida il monopolio della verità alle statistiche. Ecco la metafora nascosta dell'Aids. Con il virus ci troviamo a dover fare i conti con un «accidente» che attacca il nostro sistema immunitario e che si trasmette per via sessuale. Sistema immunitario e sessualità, però, sono espressioni simboliche strettamente legate: il primo è l'emblema della nostra individualità (governa, infatti, il processo di autoriconoscimento, con il compito di difesa e attacco nei confronti delle sostanze estranee all'organismo); il rapporto sessuale, invece, rimette in discussione la nostra individualità. Vado a leggere un articolo scritto da Raffaele. Alcuni passi sono significativi. «Nell'incontro sessuale, le "materie" maschile e femminile si mescolano: l'orgasmo testimonia sul piano psichico questa "uscita" dai confini individuali, questo ingresso nella totalità». E, più avanti: «Si pensi come le tradizioni abbiano sempre insistito sulla bevanda inebriante, capace di far perdere all'Io i suoi confini, sulla sostanza che, in qualche modo, vada a modificare lo stato del sangue e a trasformare l'individuo. Anche il tossicomane "tocca" il sangue, a ben vedere, lo penetra, lo modifica e così va a ridiscutere il sistema immunitario». L'altra categoria a rischio è quella degli omosessuali. «L'omosessualità mette in gioco continuamente energetiche di tipo femminile, che coinvolgono stati ormonali e che ridiscutono l'individualità sessuale.» La tossicodipendenza e l'omosessualità altro non sarebbero, insomma, che la rappresentazione di quella rottura dell'individualità che culmina con l'Aids e con il blocco totale del sistema di difesa, la struttura che più di ogni altra ci preserva (e ci consente di autoriconoscerci) al di fuori dell'Io. Come a dire che se tagliamo alla pianta le radici, il suo sistema di collegamento con la terra (il patto ancestrale individuo-natura), la pianta morirà. Abbiamo tagliato le nostre radici? Tragica culla della Sindrome da immunodeficienza acquisita sembra essere l'Africa (il continente dove furono scoperti i primi scheletri di ominidi), ed è difficile immaginare una cultura più violentata di quella africana. Deportazioni, colonizzazioni, antichi riti tribali ripetuti oggi soltanto a beneficio dei turisti. Ma la scienza ci spiega, giustamente, che l'Aids è causato da un virus. E allora come mettere insieme le due cose, la ricerca scientifica e l'intuizione? Questo dubbio mi gira in testa per un poi di tempo. Poi un giorno mi capita di risentire al telefono Raffaele. Così gli espongo le mie perplessità, alla luce di quanto lui stesso aveva scritto e di quanto i laboratori scientifici hanno dimostrato. Ho una domanda: se è vero che il virus esisteva già in passato, perché soltanto adesso ci colpisce? «Giuro che non riesco a capirlo... perché?» «Sai, credo che tutti i virus e i batteri dell'universo siano forme-funzioni. Questo vuol dire che in alcuni momenti della storia dell'universo si attivano.» «Ma insomma, è o non è un virus quello che causa l'Aids?» «Certo che lo è. Ma proviamo a guardare oltre: il mondo di oggi, così com'è strutturato, con la perdita dell'identità - pensa soltanto a quello che rappresenta la manipolazione genetica, e poi dimmi se te la senti di negare che stiamo perdendo la nostra identità - ha reso il virus capace di attaccare. Lo ha attivato.» «Ma com'è possibile? Non riesco a immaginare una cosa del genere.» «L'errore che commettiamo è quello di credere che i processi accadano fuori di noi. Invece accadono dentro di noi. Questo è un virus che tocca la vita sessuale, il centro della nostra identità sessuale. E il sesso è ormai diventato così libero da spaccare questa identità.» «Ma Perché diavolo l'assoluta libertà sessuale dovrebbe spaccare la nostra identità?» «Per risponderti devi chiederti, in assoluto, che funzione abbia il sesso nell'universo.» «Nell'universo?...» «Sì. Lo modifica. Con due sole funzioni l'uomo è in grado di modificare l'universo. L'altra è la nutrizione. Mangiando e procreando cambiamo di un poco l'ordine universale. L'orgasmo modifica l'universo. Oggi ci sono mille processi sessuali e l'identità è spaccata. Il virus è soltanto il veicolo di questa rottura.» «Ma non è soltanto il sesso in gioco nell'Aids. Tu scrivevi anche di guasti della società.» «Ho scritto la favola sui dinosauri.» «Eh? Davvero? Ma è bellissimo, con tutto quello che avevi da fare. Grazie.» «Te la spedisco.» E la ricevo per posta celere. La leggo e ho una piccola panoramica sul cuore di un uomo che, abituato a indagare nell'inconscio degli altri, per un momento ha aperto la gabbia al proprio immaginario, ipotizzando che nell'uomo ci siano «dinosauri della mente». Alex era lungo, massiccio, pesante. Aveva gli occhi grandi e una testa piccola, un po' affusolata. Sapeva farsi avanti, spingere, farsi spazio, aggredire. Camminava nella palude, il sole era sorto da poco, e sperava di trovar da mangiare prima che fosse troppo caldo. Alex era uno dei primi dinosauri con un barlume di coscienza, individuo destinato forse a fare un importante passo in avanti nel corso dell'evoluzione. Pensava spesso ai suoi simili senza coscienza, e questo gli provocava una tensione, come quando aveva fame e non c'era da mangiare per giorni e giorni. Questo significava aver anche un solo barlume di coscienza. ... Sono passati milioni di anni, e nella stessa pianura... ... Una figura cammina per strada, nelle vie periferiche d'una grande città, ormai è notte. Non fa freddo. Avanza lentamente, gli occhi rivolti a terra, passo dopo passo. E' un giovane ingegnere. Anche lui si chiama Alex. «Alex, che fai a quest'ora in giro?» Un amico vicino a casa lo chiama. «Non riuscivo a dormire, sono sceso.» «Hai una faccia strana, Alex. C'è qualcosa che non va?» «Fino a stamattina, no. Poi sai, ti ricordi quella tosse che avevo e che non passava? Stamattina sono stato in clinica, da Luigi, non lo vedevo dai tempi del liceo, mi ha fatto degli esami. E' una brutta tosse, m'ha detto, non una tosse qualsiasi. Mi devo operare, presto, molto presto. Luigi m'ha detto di non allarmarmi - devo fare anche altri esami -, ma prima mi opero e meglio è.» «Perché, cos'hai?» Alex alza gli occhi, non risponde subito, guarda verso le stelle, su, immobili. «Luigi è un amico, ma sai com'è, i medici ti dicono sempre le cose a metà. Si vedrà, ma ho paura.» ... Intanto, lontano molti anni luce... Le stelle, in realtà organismi pensanti, guardano spesso verso la Terra. Due stelle, Zega e Opsilon, parlano tra loro. Hanno seguito l'evolversi delle specie su quel pianeta. Hanno visto i dinosauri, esseri enormi con il potenziale di un'immensa forza fisica, poi una catastrofe che li fece sparire, poi tante piccole specie dopo lo sforzo dell'evoluzione, accanite a vivere e ad andare avanti, occupate a cercare il cibo e a riprodursi. Alla fine gli uomini, che hanno ingabbiata quella stessa forza, quelle stesse preoccupazioni e qualcosa di più nella loro piccola mente cosciente. «Come faranno?» chiede una stella all'altra. «Hanno molti problemi perché si sono evoluti, ma non riescono a trovare l'equilibrio tra la spinta del loro vecchio cervello e il nuovo cervello.» «E allora?» «Hanno questa carica aggressiva, di spinta, di movimento, ereditata. Molti si scaricano l'uno contro l'altro, si distruggono l'uno contro l'altro, in combattimenti inutili.» «L'abbiamo visto in tanti altri pianeti... le specie non reggono la loro evoluzione...» «E l'uomo, secondo te, quando sparirà?» «Non lo so. La loro vecchia mente preme sulla nuova che l'evoluzione gli ha dato... ma, ti dovessi dire, mi sembra che non ce la facciano...» «La materia si aggrega e si disgrega, cerca di trovare nuovi equilibri che le permettano di evolversi con stabilità e continuità nel tempo.» «E allora?» «Purtroppo molte di queste forme di vita non reggono l'integrazione tra coscienza e materia, e si disgregano.» «Soffrono, allora!» «Sì, e molto. Hanno costruito addirittura un sistema di credenze che chiamano religione, per farsene una ragione. Per noi è difficile capirlo. Ma in molti casi in loro si produce uno squilibrio, una mancanza di integrazione tra le spinte antiche, primitive, e la spinta nuova a evolversi.» «E che fanno?» «Finisce che molti, come dicono gli esseri di quel pianeta, "si ammalano". Sono fragili, sai, sono retti da una miriade di molecole in equilibrio tra loro, basta poco, l'equilibrio si rompe, e si disgregano, o come dicono loro, si ammalano.» «Si incrinano, implodono, come può capitare a noi quando i nuclei dell'elio interagiscono con quelli dell'idrogeno?» «Sì, più o meno.» «E perché?» «Succede quando la loro mente antica non riesce ad accordarsi con quella nuova: si disgregano.» «Ma loro lo sanno?» «No, credo di no, ancora non lo sanno, ma ne hanno paura, hanno paura dei dinosauri, e credo che per loro sia difficile comprenderlo. Così hanno inventato un modo di spiegare quello che accade. E lo chiamano malattia.» «E cosa accadrà?» «Mah, loro sono un tentativo dell'evoluzione. Se riusciranno a far pace con i dinosauri della mente, riusciranno a integrarsi, e i dinosauri che hanno dentro non li distruggeranno più.» «Sennò che accadrà, secondo te?» «Si autodistruggeranno piano piano. Verranno fuori nuove malattie, con la violenza fuori o verso se stessi, quella forza applicata dentro e contro se stessi.» « E' un po' pazzerella, sai? Deve darsi una calmata, adesso. E' tipico di tutti quelli che hanno avuto un cuore nuovo, la smania di vivere, di ricominciare tutto daccapo... Lei è un poi birbantella, fa i capricci, non vuole vedere gente...» «Come sarebbe?» le chiedo, guardandola negli occhi. «Sarebbe che non è assolutamente vero che non voglio vedere gente. Lei è qui, non le pare? E' mio marito che non voglio vedere» dice, come se ripetesse quella frase, scandendola, per la centesima volta. «Oh...» non so che altro dire, non immaginavo che sarei piombata nel bel mezzo di una crisi familiare. La donna, come a voler dissipare dubbi, si affretta a spiegare: «Il nostro è un rapporto che non va. E io voglio riflettere, pensarci su. O cambia, o si chiude. Non ho mai avuto il coraggio di dirlo, di affrontare l'argomento. Ho sopportato. Ma adesso è venuto il momento di cambiare e cambierò.» Ripenso al fatto che anche il suo cuore era mostruosamente gonfiato per la stessa malattia che aveva colpito gli altri, passati prima di lei sul tavolo operatorio. E ora intuisco che il suo cuore aveva contenuto in passato più cose di quante potesse. E come a confermare il mio pensiero, lei incalza: «Sai, sono sempre stata timida, riservata. Tutto dentro, tutto accettato. Ma ora la musica sarà un'altra, adesso ho capito che cosa, davvero, è importante». Le sorrido, una corrente di fortissima intesa s'instaura tra lei e me. «Insomma, sei rinata libera?» «Calma, calma» interviene il chirurgo. «Bella mia, devi controllarti un poi, non si fa così...» «No, è una vita che mi controllo» e il tono della risposta induce il chirurgo a non ribattere. Mentre la saluto sento la forza che è tornata in lei e, in silenzio, le auguro «di cuore» di riuscire a mantenere intatta la sua voglia di rinnovamento, di non soffocare più le emozioni e di non dover più «tener dentro» tristezze, bocconi amari e cose inconfessate. Qualsiasi conseguenza tutto ciò possa avere nella sua vita. Il modo in cui mi stringe la mano mi dimostra che, in quei momenti, ci siamo scambiate pochi, essenziali, scampoli di conoscenza. In corridoio il chirurgo continua a parlarmi di lei. «Mi ha fatto penare, Daniela, ma non sai quanto!» «Perché?» «Poche ore dopo l'intervento, non se n'è venuta fuori con un sintomo che non sta né in cielo né in terra in questi casi? "Non ci vedo," diceva "non riesco più a vedere..." L'infermiera era corsa da me, preoccupatissima, come ti puoi ben immaginare. Sono andato subito da lei, ho fatto uscire gli altri medici dalla sua camera, l'ho guardata bene in faccia e poi le ho detto: stammi bene a sentire, cos'è questa storia che non vedi? Che scherzi sono? Tu ci vedi benissimo, non hai motivo di non vedere. Ti abbiamo presa al volo, eri in pronto soccorso, stavi per morire. E adesso che storie vai raccontando? Mettiti calma e parliamone un poi.» «Lo avete fatto davvero?» «Certo che lo abbiamo fatto. E così, a poco a poco, se n'è venuta fuori con 'sta fesseria che non voleva incontrare il marito e con tutta quella serie di stupidaggini che ha detto anche a te.» «Non mi sembravano stupidaggini. E la vista?» «Quella è tornata, quasi subito.» «Ma non può essere stato effetto dei farmaci, delle terapie?» «Macché, era tutto nella sua testa...» «O nel suo cuore...» «Come ti pare, in ogni caso lei non vedeva.» «O forse non voleva vedere.» «Che cosa?» «La sua situazione, forse... Suo marito.» «Mah, può anche essere, adesso che ci penso. Comunque non è dimostrato.» Mentre sto rientrando in redazione ripenso a un'altra donna che non vedeva. Era accaduto un mese prima. Una dolorosa forma di congiuntivite l'aveva colpita: non poteva stare alla luce, né leggere, né guardare uno schermo luminoso. Doveva portare costantemente occhiali scurissimi. Il suo oculista si era arreso: «Non so più che cosa fare, abbiamo provato di tutto». E una sera, nel suo studio, se n'era uscito con una battuta: «Si direbbe quasi che tu ti ostini a non voler vedere». Lei era tornata a casa, rimuginando la frase del suo medico. In quel periodo stava vivendo il senso d'impotenza che si prova quando un lungo e tormentato amore non ha più via d'uscita e il dolore è un'unica nota grave che fa da colonna sonora a ogni attività quotidiana. Stava cercando di evitare in tutti i modi di prendere la sola decisione possibile: dare un taglio netto a una storia clandestina e triste, per anni relegata in un dorato universo parallelo. E, all'improvviso, ripensando alle parole dell'oculista, si era resa conto che quella situazione, lei, non la voleva vedere. Non la voleva assolutamente vedere. Fu una decisione sofferta e difficile. Ma quando finalmente la prese, la congiuntivite, come per magia, si dissolse. Dalla sera alla mattina.