/<1989>/ - Mi sento tanto male. - Che avete mai? Ella, senza rispondere, si volse agli altri salutando. Ma gli altri seguivano il suo esempio; uscivano insieme. I giovini signori motteggiavano intorno il mancato spettacolo. La marchesa d'Ateleta rideva, ma la Ferentino pareva di pessimo umore. I servi che aspettavano nel corridoio, facevano avanzar le carrozze, come alla porta d'un teatro o d'una sala di concerti. - Non vieni dalla Miano? - domandò l'Ateleta ad Elena. - No; torno a casa. Ella aspettò, su l'orlo del marciapiede, che il suo coupé s'avanzasse. La pioggia si disperdeva; tra larghe nuvole bianche scorgevasi qualche intervallo d'azzurro; una zona di raggi faceva luccicare il lastrico. E la signora, investita da quel chiaror tra biondo e roseo, nel mantello magnifico che scendeva con poche pieghe diritte e quasi simmetriche, era bellissima. Il sogno medesimo della sera innanzi sorse nello spirito d'Andrea, quando egli intravide l'interno del coupé tappezzato di raso come un boudoir, dove luccicavano il cilindro d'argento pieno d'acqua calda destinato a tenere tiepidi i piccoli piedi ducali. «Essere là, con lei, in quella intimità così raccolta, in quel tepore fatto dal suo alito, nel profumo delle violette appassite, intravedendo appena dai cristalli appannati le vie coperte di fango, le case grigie, la gente oscura!» Ma ella inchinò lievemente il capo allo sportello, senza sorridere; e la carrozza partì, verso il palazzo Barberini, lasciandogli nell'anima una vaga tristezza, uno scoramento indefinito. - Ella aveva detto «forse». Poteva dunque non venire al palazzo Farnese. E allora? Questo dubbio l'affliggeva. Il pensiero di non rivederla gli era insopportabile: tutte le ore passate lontano da lei già gli pesavano. Egli chiedeva a sé stesso: «L'amo io dunque già tanto?» Il suo spirito pareva chiuso in un cerchio, entro cui turbinavano confusamente tutti i fantasmi delle sensazioni avute nella presenza di quella donna. D'un tratto, emergevano dalla sua memoria, con una singolare esattezza, una frase di lei, una intonazione di voce, un'attitudine, un movimento degli occhi, la forma d'un divano sul quale ella sedeva, il Finale della Sonata del Beethoven, una nota di Mary Dyce, la figura del servo che stava allo sportello, una qualunque particolarità, un qualunque frammento, ed oscuravano con la vivezza della loro immagine le cose della esistenza in corso, si sovrapponevano alle cose presenti. Egli le parlava, mentalmente; le diceva, mentalmente, tutto quello che poi le avrebbe detto in realtà, ne' futuri colloqui. Prevedeva le scene, i casi, le vicende, tutto lo svolgimento dell'amore, secondo le suggestioni del suo desiderio. - In che modo si sarebbe ella data a lui, la prima volta? Mentre saliva le scale del palazzo Zuccari, per rientrare nel suo appartamento, gli balenava questo pensiero. - Ella, certo, sarebbe venuta là. La via Sistina, la via Gregoriana, la piazza della Trinità de' Monti, specialmente in certe ore, erano quasi deserte. La casa non era abitata che da stranieri. Ella avrebbe dunque potuto avventurarsi senza timori. Ma come attirarla? - La sua impazienza era tanta ch'egli avrebbe voluto poter dire: «Verrà domani!» «Ella è libera» pensò. «Non la tiene la vigilanza d'un marito. Nessuno può chiederle conto delle assenze anche lunghe, anche insolite. Ella è padrona d'ogni suo atto, sempre.» Gli si presentarono allo spirito, subitamente, interi giorni e intere notti di voluttà. Si guardò intorno, nella stanza calda, profonda, segreta; e quel lusso intenso e raffinato, tutto fatto di arte, gli piacque, per lei. Quell'aria aspettava il suo respiro; quei tappeti chiedevano d'essere premuti dal suo piede; quei cuscini volevano l'impronta del suo corpo. «Ella amerà la mia casa» pensò. «Amerà le cose ch'io amo.» Il pensiero gli dava una indicibile dolcezza; e gli pareva che già un'anima nuova, consapevole della imminente gioia, palpitasse sotto gli alti soffitti. Chiese il tè al servo; e s'adagiò d'innanzi al caminetto, per meglio godere le finzioni della sua speranza. Trasse dall'astuccio il piccolo teschio gemmato e si mise ad esaminarlo attentamente. Al chiaror del fuoco l'esile dentatura adamantina brillava su l'avorio giallastro e i due rubini illuminavano l'ombra delle occhiaie. Sotto il cranio polito risonava il battito incessante del tempo. - RUIT HORA. - Quale artefice mai poteva avere avuta per una sua Ippolita quella superba e libera fantasia di morte, nel secolo in cui i maestri smaltisti ornavan di teneri idilli pastorali gli orioletti destinati a segnar pe' cicisbei l'ora de' ritrovi ne' parchi del Watteau? La scultura rivelava una mano dotta, vigorosa, padrona d'uno stile proprio: era in tutto degna d'un quattrocentista penetrante come il Verrocchio. «Vi consiglio questo orologio.» Andrea sorrideva un poco, ricordando le parole di Elena pronunziate in un modo così strano, dopo un così freddo silenzio. - Senza dubbio, dicendomi quella frase, ella pensava all'amore: ella pensava ai prossimi convegni d'amore, senza dubbio. Ma perché poi, di nuovo, era diventata impenetrabile? Perché non s'era curata più di lui? Che aveva ella? - Andrea si smarrì nell'indagine. Però l'aria calda, la mollezza della poltrona, la luce discreta, le variazioni del fuoco, l'aroma del tè, tutte quelle sensazioni grate ricondussero il suo spirito agli errori dilettosi. Egli andava errando senza meta, come in un fantastico labirinto. In lui il pensiero assumeva talvolta la virtù dell'oppio: poteva inebriarlo. Il Rùtolo sentì dietro di sé il galoppo incalzante, e fu preso da tale ansietà che non vide più nulla. Tutto alla vista gli si confuse, come s'egli fosse per perdere gli spiriti. Faceva uno sforzo immenso per tenere piantati gli speroni nel ventre del cavallo; e lo sbigottiva il pensiero che le forze lo abbandonassero. Aveva negli orecchi un rombo continuo, e in mezzo al rombo udiva il grido breve e secco d'Andrea Sperelli. - Hop! Hop! Sensibilissimo alla voce più che ad ogni altra istigazione, Mallecho divorava l'intervallo di distanza, non era più che a tre o quattro metri da Brummel, stava per raggiungerlo, per superarlo. - Hop! Un'altra barriera attraversava la pista. Il Rùtolo non la vide, poiché aveva smarrita ogni coscienza, conservando solo un furioso istinto di aderire all'animale e di spingerlo innanzi, alla ventura. Brummel saltò; ma, non coadiuvato dal cavaliere, urtò le zampe posteriori e ricadde dall'altra parte così male che il cavaliere perse le staffe, pur restando in sella. Seguitò tuttavia a correre. Andrea Sperelli teneva ora il primo posto; Giannetto Rùtolo, senza aver recuperato le staffe, veniva secondo, incalzato da Paolo Caligàro; il duca di Beffi, avendo sofferto da Satirist un rifiuto, veniva ultimo. Passarono sotto le tribune, in quest'ordine; udirono un clamore confuso, che si dileguò. Su le tribune, tutti gli animi stavano sospesi nell'attenzione. Alcuni indicavano ad alta voce le vicende della corsa. Ad ogni mutamento nell'ordine dei cavalli, molte esclamazioni si levavano tra un lungo mormorio; e le dame ne avevano un fremito. Donna Ippolita Albónico, ritta in piedi sul sedile, appoggiandosi alle spalle del marito il quale era sotto di lei, guardava senza mai mutarsi, con una meravigliosa padronanza; se non che le labbra troppo chiuse e un leggerissimo increspamento della fronte potevan forse rivelare a un indagatore lo sforzo. A un certo punto, ritrasse dalle spalle del marito le mani per tema di tradirsi con un qualche involontario moto. - Sperelli è caduto - annunziò a voce alta la contessa di Lùcoli. Mallecho, infatti, saltando, aveva messo un piede in fallo su l'erba umida ed erasi piegato su le ginocchia, rialzandosi immediatamente. Andrea gli era passato dal collo, senza danno; e con una prontezza fulminea era tornato in sella, mentre il Rùtolo e il Caligàro sopraggiungevano. Brummel, sebbene offeso alle zampe posteriori, faceva prodigi, per virtù del suo sangue puro. Carbonilla infine spiegava tutta la sua velocità, condotta con arte mirabile dal suo cavaliere. Mancavano circa ottocento metri alla meta. Lo Sperelli vide la vittoria fuggirgli; ma raccolse tutti gli spiriti per riafferrarla. Teso su le staffe, curvo su la criniera, gettata di tratto in tratto quel grido breve, esile, penetrante, che aveva tanto potere sul nobile animale. Mentre Brummel e Carbonilla, affaticati sul terreno pesante, perdevano vigore, Mallecho aumentava la veemenza del suo slancio, stava per riconquistare il suo posto, già sfiorava la vittoria con la fiamma delle sue narici. Dopo l'ultimo ostacolo, avendo superato Brummel, raggiungeva con la testa la spalla di Carbonilla. A circa cento metri dalla meta, radeva lo steccato, avanti, avanti, lasciando dietro di sé e la morella del Caligàro lo spazio di dieci «lunghezze». La campana squillò; un applauso risuonò per tutte le tribune, come il crepitar sordo di una grandine; un clamore si propagò nella folla su la prateria inondata dal sole. Andrea Sperelli rientrando nel recinto pensava: «La fortuna è con me, oggi. Sarà con me anche domani?» Sentendo venire a sé l'aura del trionfo, ebbe contro l'oscuro pericolo quasi una sollevazione d'ira. Avrebbe voluto affrontarlo sùbito, in quello stesso giorno, in quella stessa ora, senza altro indugio, per godere una duplice vittoria e per mordere quindi al frutto che gli offriva la mano di Donna Ippolita. Tutto il suo essere accendevasi d'orgoglio selvaggio, al pensiero di possedere quella bianca e superba donna per diritto di conquista violenta. L'immaginazione gli fingeva un gaudio non mai provato, quasi direi una voluttà d'altri tempi, quando i gentiluomini scioglievano i capelli delle amasie con mani omicide e carezzevoli, affondandovi la fronte ancora grondante per la fatica dell'abbattimento e la bocca ancora amara delle profferte ingiurie. Egli era invaso da quella inesplicabile ebbrezza che danno a certi uomini d'intelletto l'esercizio della forza fisica, l'esperimento del coraggio, la rivelazione della brutalità. Quel che in fondo a noi è rimasto della ferocia originale torna al sommo talvolta con una strana veemenza ed anche sotto la meschina gentilezza dell'abito moderno il nostro cuore talvolta si gonfia di non so che smania sanguinaria ed anela alla strage. Andrea Sperelli aspirava la calda ed acre esalazione del suo cavallo, pienamente, e nessuno di quanti delicati profumi egli aveva fin allora preferiti, nessuno aveva mai dato al suo senso un più acuto piacere. Così Andrea cominciava a riavvicinarsi all'Arte, curiosamente esperimentandosi in piccoli esercizi e in piccoli giuochi, ma ben meditando opere meno lievi. Molte ambizioni, che già un tempo l'avevano incitato, tornarono ad incitarlo; molti progetti d'un tempo gli si riaffacciarono nello spirito modificati o completi; molte antiche idee gli si ripresentarono sotto una luce nuova o più giusta; molte immagini, una volta appena intraviste, gli brillarono chiare e nitide, senza ch'egli potesse rendersi conto di quel loro svolgimento. Pensieri subitanei insorgevano dalle profondità misteriose della coscienza e lo sorprendevano. Pareva che tutti i confusi elementi accumulati in fondo a lui, ora combinati con la disposizione particolare della volontà, si trasformassero in pensieri con lo stesso processo per cui la digestione stomacale elabora i cibi e li cangia in sostanza del corpo. Egli intendeva trovare una forma di Poema moderno, questo inarrivabile sogno di molti poeti; e intendeva fare una lirica veramente moderna nel contenuto ma vestita di tutte le antiche eleganze, profonda e limpida, appassionata e pura, forte e composta. Inoltre vagheggiava un libro d'arte su i Primitivi, su gli artisti che precorrono la Rinascenza, e un libro d'analisi psicologica e letteraria su i poeti del Ducento in gran parte ignorati. Un terzo libro avrebbe egli voluto scrivere sul Bernini, un grande studio di decadenza, aggruppando intorno a quest'uomo straordinario che fu il favorito di sei papi non soltanto tutta l'arte ma anche tutta la vita del suo secolo. Per ognuna di tali opere bisognavano naturalmente, molti mesi, molte ricerche, molte fatiche, un alto calore d'ingegno, una vasta capacità di coordinazione. In materia di disegno, egli intendeva illustrare con acque forti la terza e la quarta giornata del "Decamerone", prendendo ad esempio quella "Istoria di Nastagio degli Onesti" ove Sandro Botticelli rivela tanta raffinatezza di gusto nella scienza del gruppo e dell'espressione. Inoltre vagheggiava una serie di "Sogni", di "Capricci", di "Grotteschi", di "Costumi", di "Favole", di "Allegorie", di "Fantasie", alla maniera volante del Callot ma con un ben diverso sentimento e un ben diverso stile, per potersi liberamente abbandonare a tutte le sue predilezioni, a tutte le sue immaginazioni, a tutte le sue più acute curiosità e più sfrenate temerità di disegnatore. Il 15 settembre, un mercoledì, giunse l'ospite nuova. La marchesa andò, insieme con il suo primogenito Ferdinando e con Andrea, ad incontrare l'amica nella prossima stazione di Rovigliano. Mentre il "phaeton" discendeva per la strada ombreggiata di alti pioppi, la marchesa parlava dell'amica ad Andrea con molta benevolenza. - Credo che ti piacerà - ella concluse. Poi si mise a ridere, come per un pensiero che le attraversasse lo spirito improvvisamente. - Perché ridi? - le chiese Andrea. - Per un'analogia. - Quale? - Indovina. - Non so. - Ecco: pensavo a un altro annunzio di presentazione e a un'altra presentazione ch'io ti feci, son quasi due anni, accompagnandola con una profezia allegra. Ti ricordi? - Ah! - Rido perché anche questa volta si tratta di una incognita e anche questa volta io sarei... l'auspice involontaria. - Ohibò. - Ma il caso è diverso, ossia è diverso il personaggio del possibile dramma. - Cioè? - Maria è una "turris eburnea". - Io sono ora un "vas spirituale". - Guarda! Dimenticavo che tu hai finalmente trovato la Verità e la Via. «L'anima ride li amor suoi lontani...» - Tu citi i miei versi? - Li so a memoria. - Che amabilità! - Del resto, caro cugino, quell'«assai bianca donna» con l'Ostia in mano m'è sospetta. M'ha tutta l'aria d'una forma fittizia, d'una stola senza corpo, che sia alla mercede di quella qualunque anima d'angelo o di demonio intenzionata d'entrarci, di amministrarti la comunione e di farti «il gesto che consente». - Sacrilegio! Sacrilegio! - Bada a te e fa ben la guardia alla stola e fa molti esorcismi... Ricasco nelle profezie! Proprio, le profezie sono una delle mie debolezze. - Siamo giunti, cugina. Ridevano ambedue. Entravano nella stazione, mancando pochi minuti all'arrivo del treno. Il dodicenne Ferdinando, un fanciullo malaticcio, portava un mazzo di rose per offrirlo a Donna Maria. Andrea, dopo quel dialogo, si sentiva allegro, leggero, vivacissimo, quasi che d'un tratto fosse rientrato nella primiera vita di frivolezza e di fatuità: era una sensazione inesplicabile. Gli pareva che qualche cosa come un soffio femmineo, come una tentazione indefinita, gli attraversasse lo spirito. Scelse dal mazzo di Ferdinando una rosa tea e se la mise all'occhiello; diede un'occhiata rapida al suo abbigliamento estivo; si guardò con compiacenza le mani bene curate ch'erano divenute più sottili e più bianche nella malattia. Fece tutto questo senza riflessione, quasi per un istinto di vanità risvegliatosi in lui d'un tratto. - Ecco il treno - disse Ferdinando. La marchesa si avanzò incontro alla ben venuta; ch'era già allo sportello e salutava con la mano e accennava con la testa tutt'avvolta d'un gran velo color di perla coprente a metà il cappello di paglia nera. - Francesca! Francesca! - ella chiamava, con una effusione tenera di gioia. Quella voce fece su Andrea un'impressione singolare; gli ricordò vagamente una voce conosciuta. Quale? Ho suonato molta musica, di Sebastiano Bach e di Roberto Schumann. Egli stava seduto, come quella sera, alla mia destra, un poco indietro, su la poltrona di cuoio. Di tratto in tratto, alla fine d'ogni pezzo, egli si levava e, chino alle mie spalle, sfogliava il libro per indicarmi un'altra Fuga, un altro Intermezzo, un altro Improvviso. Quindi si metteva di nuovo a sedere; ed ascoltava, senza muoversi, profondamente assorto, con gli occhi fissi sopra di me, facendomi sentire la sua presenza. Intendeva egli quanto di mio, del mio pensiero, della mia tristezza, del mio essere intimo, passava nella musica altrui? Musica, - chiave d'argento che apri la fontana delle lacrime, ove lo spirito beve finché la mente si smarrisce; soavissima tomba di mille timori, ove la loro madre, l'Inquietudine, simile a un fanciullo che dorma, giace sopita ne' fiori...» SHELLEY. La notte è minacciosa. Un vento caldo e umido soffia nel giardino; e il fremito cupo si prolunga nell'oscurità, poi cade, poi ricomincia più forte. Le vette dei cipressi oscillano sotto un cielo quasi nero, dove le stelle appaiono semispente. Una striscia di nuvole attraversa lo spazio, dall'uno all'altro orizzonte, frastagliata, contorta, più nera del cielo, simile alla capigliatura tragica di una Medusa. Il mare nell'oscurità è invisibile; ma singhiozza, come un immenso e inconsolabile dolore, solo. Che è mai questo sbigottimento? Mi sembra che la notte mi ammonisca d'una sciagura prossima e che all'ammonizione risponda in fondo a me un rimorso indefinito. Il Preludio di Sebastiano Bach ancora m'incalza; si mesce nell'anima mia con il fremito del vento e con il singhiozzo del mare. Non piangeva, dinanzi, qualche cosa di me in quelle note? Qualcuno piangeva, gemeva, oppresso dall'angoscia; qualcuno piangeva, gemeva, chiamava Dio, domandava il perdono, implorava l'aiuto, pregava con una preghiera che saliva al cielo come una fiamma. Chiamava ed era ascoltato, pregava ed era esaudito; riceveva la luce dall'alto, gettava gridi d'allegrezza, stringeva alfine la Verità e la Pace, si riposava nella clemenza del Signore. Sempre, mia figlia mi conforta; e mi guarisce da ogni febbre; come un balsamo sublime. Ella dorme, nell'ombra rischiarata dalla lampada che è mite come una luna. La sua faccia, bianca della fresca bianchezza d'una rosa bianca, quasi si sprofonda nell'abbondanza de' capelli oscuri. Pare che il fino tessuto delle sue palpebre appena appena riesca a nascondere nell'interno gli occhi luminosi. Io mi piego su lei, la riguardo; e tutte le voci della notte si estinguono, per me; e il silenzio per me non è misurato che dalla respirazione ritmica della sua vita. Ella sente la vicinanza della madre. Leva un braccio e lo lascia ricadere; sorride dalla bocca che si schiude come un fiore perlifero e per un istante tra i cigli appare uno splendore simile all'umido splendore argenteo della polpa d'un asfodelo. Come più la contemplo, diventa alla mia vista una creatura immateriale, un essere formato dell'elemento as dreams are made on. Perché, a dare un'idea della sua bellezza e della sua spiritualità, sorgono spontanee nella memoria immagini e parole di Guglielmo Shakespeare, di questo possente selvaggio atroce poeta che ha così melliflue labbra? Ella crescerà, nutrita e avvolta dalla fiamma del mio amore, mio grande unico amore... Oh Desdemona, Ofelia, Cordelia, Giulietta! Oh Titania! Oh Miranda! 24 settembre. - Io non so prendere una risoluzione, non so fare un proposito. Io mi abbandono un poco a questo nuovissimo sentimento, chiudendo gli occhi sul pericolo lontano, chiudendo gli orecchi alle ammonizioni savie della coscienza, con il trepidante ardire di chi, per cogliere le violette, s'avventura su l'orlo d'un abisso in fondo a cui rugge un fiume vorace. Egli non saprà nulla dalla mia bocca; io non saprò nulla dalla sua. Le Anime saliranno insieme, un breve tratto, su per le colline dell'Ideale, berranno qualche sorso alle fonti perenni; quindi ciascuna riprenderà la sua via, con maggior confidenza, con minor sete. Che tranquillità nell'aria, dopo il mezzogiorno! Il mare ha il color bianco azzurrognolo latteo d'un opale, d'un vetro di Murano: ed è qua e là come un cristallo appannato da un alito. Leggo Percy Shelley, un poeta ch'egli ama, il divino Ariele che si nutre di luce e parla nella lingua degli Spiriti. E' notte. Questa allegoria mi si leva d'innanzi visibile. «Una porta di cupo diamante si spalanca sul gran cammino della vita da noi tutti esercitato, una caverna immensa e corrosa. Intorno imperversa una perpetua guerra di ombre, simili alle nuvole inquiete che s'affollano nella fenditura d'una qualche montagna scoscesa, perdendosi in alto fra i turbini del cielo superiore. E molti passano con passo incurante, d'innanzi a quel portico, non sapendo che un'ombra segue i vestigi d'ogni passeggero insino al luogo ove i morti aspettano in pace il lor compagno novello. Altri però, mossi da un pensier più curioso, si fermano a riguardare. Sono costoro in esilissimo numero; ed ivi ben poco apprendono, se non che ombre li seguono ovunque eglino vadano.» Il giorno moriva; ma l'aria era ancora pregna di luce, ritenendo la luce come una spugna ritiene l'acqua. Si vedeva, per la finestra, all'orizzonte una striscia aranciata su cui i cipressi del Monte Mario si disegnavano netti come i denti d'un gran rastrello d'ebano. Si udivano di tratto in tratto i gridi delle cornacchie trasvolanti in gruppi a riunirsi su i tetti della Villa Medici per discendere poi nella Villa Borghese, nella piccola valle del sonno. - Che fai tu stasera? - chiese ad Andrea il Barbarisi. - Veramente, non so. - Vieni allora con noi. Per le otto abbiamo un pranzo dai Doney, al Teatro Nazionale. Inauguriamo il nuovo Restaurant, anzi i cabinets particuliers del nuovo Restaurant, dove almeno non dovremo rassegnarci, dopo le ostriche, allo scoprimento afrodisiaco della Giuditta e della Bagnante, come al Caffè di Roma. Pepe accademico su ostriche finte... - Vieni con noi, vieni con noi - sollecitò Giulio Musèllaro. - Siamo noi tre - aggiunse il duca - con Giulia Arici, con la Silva e con Maria Fortuna. Ah, una bellissima idea! Vieni con Clara Green. - Bellissima idea! - ripeté Ludovico. - E dove trovo io Clara Green? - All'Albergo d'Europa, qui accanto, in piazza di Spagna. Un tuo biglietto la renderà felice. Sii certo che lascerà qualunque impegno. Ad Andrea piacque la proposta. - Sarà meglio - disse - ch'io vada a farle una visita. E' probabile ch'ella sia rientrata. Non ti pare, Ruggero? - Vestiti, e usciamo sùbito. Uscirono. Clara Green era rientrata da poco all'albergo. Accolse Andrea con una gioia infantile. Ella, certo, avrebbe preferito di pranzare sola con lui; ma accettò l'invito senza esitare; scrisse un biglietto per liberarsi da un impegno anteriore; mandò a un'amica la chiave d'un palco. Ella pareva felice. Si mise a raccontargli una quantità di sue storie sentimentali; gli fece una quantità di domande sentimentali; gli giurò ch'ella non aveva mai potuto dimenticarlo. Parlava, tenendo le mani di lui nelle sue. - I love you more than any words can say, Andrew... Ella era ancor giovine. Con quel suo profilo puro e diritto, coronato dai capelli biondi, divisi su la fronte in un'acconciatura bassa, pareva una bellezza greca in un keepsake. Aveva una certa incipriatura estetica, lasciatale dall'amor del poeta pittore Adolphus Jeckyll; il quale seguiva in poesia John Keats e in pittura l'Holman Hunt, componendo oscuri sonetti e dipingendo soggetti presi alla Vita nuova. Ella aveva «posato» per una Sibylla palmifera e per una Madonna del Giglio. Aveva anche «posato», una volta, innanzi ad Andrea, per uno studio di testa da servire all'acquaforte dell'Isabetta nella novella del Boccaccio. Era dunque nobilitata dall'arte. Ma, in fondo, non possedeva alcuna qualità spirituale; anzi, a lungo andare, la rendeva un po' stucchevole quel certo sentimentalismo esaltato che non di rado s'incontra nelle donne di piacere inglesi e che fa uno strano contrasto con le depravazioni della loro lascivia. - Who would have thought we should stand again together, Andrew! Dopo un'ora, Andrea la lasciò e risalì al palazzo Zuccari, per la scaletta che dalla piazza Mignanelli porta alla Trinità. Giungeva alla scaletta solitaria il rumore della città nella sera mite di ottobre. Le stelle riscintillavano in un cielo umido e terso. Di sotto alla casa dei Casteldelfino, a traverso un piccolo cancello, le piante in un chiarore misterioso agitavano ombre vaghe, senza un fruscìo, come piante marine fluttuanti in fondo a un acquario. Dalla casa, da una finestra con le tendine rosse illuminate, veniva il suono d'un pianoforte. Le campane della chiesa rintoccarono. Egli si sentì d'improvviso pesare il cuore. Un ricordo di Donna Maria lo riempì, d'improvviso; e gli suscitò in confuso un senso di rammarico e quasi di pentimento. - Che faceva ella in quell'ora? Pensava? Soffriva? - Con l'immagine della senese gli si affacciò alla memoria la vecchia città toscana: il Duomo bianco e nero, la Loggia, la Fonte. Una grave tristezza l'occupò. Gli parve che qualche cosa dal fondo del suo cuore si fosse involato; ed egli non sapeva bene qual fosse, ma n'era afflitto come d'una perdita irrimediabile. Ripensò al proposito suo della mattina. - Una sera in solitudine, nella casa dove ella forse un giorno sarebbe venuta; una sera malinconica ma dolce, in compagnia dei ricordi e dei sogni, in compagnia dello spirito di lei; una sera di meditazione e di raccoglimento! - In verità, il proposito non poteva meglio esser tenuto. Egli stava per recarsi a un pranzo di amici e di donne; e, senza dubbio, avrebbe passata la notte con Clara Green. Il pentimento gli fu così insoffribile, gli diede tale tortura, ch'egli si abbigliò con insolita prontezza, saltò nel coupé e si fece condurre all'albergo, prima dell'ora. Trovò Clara già pronta. Le offerse un giro in coupé per le vie di Roma, durante il tempo che mancava alle otto. Andrea domandò, con premura. - Ora, che soneranno? - Il Quartetto del Brahms, in do minore. - Lo conoscete? - No. - Il secondo tempo è meraviglioso. Per celare la sua inquietudine, egli parlava. - Quando vi vedrò, ancora? - Non so. - Domani? Ella titubò. Pareva che le fosse discesa per il volto una lieve ombra. Rispose: - Domani, se ci sarà sole, verrò con Delfina su la piazza di Spagna, verso mezzogiorno. - E se il sole mancasse? - Sabato sera, andrò dalla contessa Starnina... La musica ricominciava. Il primo tempo esprimeva un lottar cupo e virile, pieno di vigore. La Romanza esprimeva un ricordarsi desioso ma assai triste, e quindi un sollevarsi lento, incerto, debole, verso un'alba assai lontana. Una chiara frase melodica si svolgeva con profonde modulazioni. Era un sentimento assai diverso da quel che animava l'Adagio del Bach: era più umano, più terreno, più elegiaco. Passava in quella musica un soffio di Ludovico Beethoven. Andrea fu invaso da una così terribile ansia che temé di tradirsi. Tutta la dolcezza di prima gli si convertì in amarezza. Egli non aveva la coscienza esatta di questo suo nuovo soffrire; non sapeva raccogliersi né dominarsi; ondeggiava perduto fra la duplice attrazione femminile e il fascino della musica, da nessuna delle tre forze penetrato; provava, dentro, un'impressione indefinibile, come d'un vuoto in cui risuonassero di continuo grandi urti con un'eco dolorosa; e il suo pensiero si spezzava in mille frammenti, si sconnetteva, si disfaceva; e le due immagini femminili si sovrapponevano, si confondevano, si distruggevano a vicenda, senza ch'egli potesse giungere a separarle, senza ch'egli potesse giungere a definire il suo sentimento verso l'una, il suo sentimento verso l'altra. E a fior di questa torbida sofferenza interiore si muoveva l'inquietudine prodotta dalla immediata realtà, dalle preoccupazioni, dirò così, pratiche. Non gli sfuggiva un leggero cambiamento nell'attitudine di Donna Maria verso di lui; e credeva sentire lo sguardo di Elena assiduo e fisso; e non giungeva a trovare un modo di contenersi, non sapeva se dovesse accompagnar Donna Maria nell'uscire dalla sala o se dovesse avvicinarsi a Elena, né sapeva se quel caso gli avrebbe giovato o nociuto presso l'una e l'altra. - Io vado - disse Donna Maria levandosi, dopo la Romanza. - Non aspettate la fine? - No; debbo essere a casa per le cinque. - Ricordatevi, domattina... Ella gli tese la mano. Forse per il calore dell'aria chiusa, una lieve Fiamma le avvivava la pallidezza. Un mantello di velluto, d'un color cupo di piombo, orlato d'una larga zona di chinchilla, le copriva tutta la persona: e tra la pelliccia cinerea le violette morivano squisitamente. Nell'uscire, ella camminava con sovrana eleganza, mentre qualcuna delle signore sedute volgevasi a guardarla. E per la prima volta Andrea vide in lei, nella donna spirituale, nella pura madonna senese, la dama di mondo. Il Quartetto entrava nel terzo tempo. Poiché la luce diurna diminuiva, furono alzate le tendine gialle, come in una chiesa. Altre signore abbandonarono la sala. Sorgeva qua e là qualche bisbiglio. Cominciavano nell'uditorio la stanchezza e la disattenzione, che son proprie della fine d'ogni concerto. Per uno di quei singolari fenomeni d'elasticità e di volubilità repentini, Andrea provò un senso di sollievo, quasi gaio. Egli perse ogni preoccupazion sentimentale e passionale, d'un tratto; e l'avventura di piacere apparve sola alla sua vanità, alla sua viziosità, lucidamente. Egli pensò che Donna Maria, concedendogli quei convegni innocui, già aveva messo il piede su la dolce china in fondo a cui è il peccato inevitabile anche per le anime più vigili; pensò che forse un po' di gelosia avrebbe potuto spingere Elena a ricadergli nelle braccia, e che quindi forse l'una avventura avrebbe aiutata l'altra; pensò che forse appunto un vago timore, un presentimento geloso avevano affrettato l'assenso di Donna Maria al prossimo convegno. Egli era dunque su la via di una duplice conquista; e sorrise notando che in ambedue le imprese la difficoltà si presentava sotto un medesimo aspetto. Egli doveva convertire in amanti due sorelle, cioè due che volevano presso di lui far profession di sorelle. Altre somiglianze fra i due casi egli notò, sorridendo. - Quella voce! Com'erano strani nella voce di Donna Maria gli accenti d'Elena! - Gli balenò un pensiero folle. - Quella voce poteva esser per lui l'elemento di un'opera d'immaginazione: in virtù d'una tale affinità egli poteva fondere le due bellezze per possederne una terza immaginaria, più complessa, più perfetta, più vera perché ideale... Il terzo tempo, eseguito con impeccabile stile, finiva tra gli applausi. Andrea si levò; si avvicinò a Elena. - Oh, Ugenta, dove siete stato fino ad ora? - gli disse la principessa di Ferentino. - Au pays du Tendre? - E quell'incognita? - gli disse Elena, con un'aria leggera, odorando un mazzo di viole tirato fuori dal manicotto di martora. - Come qui? Io salivo da te. Sono le cinque. - Manca qualche minuto. Io correvo ad aspettarti. Perdonami. - Che hai? Sei molto pallido, tutto alterato... Di dove vieni? Ella corrugò i sopraccigli, fissandolo, a traverso il velo. - Dalla scuderia - rispose Andrea, sostenendo lo sguardo, senza arrossire, come s'egli non avesse più sangue. - Un cavallo, che m'era assai caro, s'è rovinato un ginocchio per colpa del jockey. Domenica non potrà quindi prender parte al Derby. La cosa mi fa pena ed ira. Perdonami. Ho indugiato senza accorgermene. Ma alle cinque manca qualche minuto... - Bene. Addio. Me ne vado. Erano su la piazza della Trinità. Ella si soffermò per congedarsi, tendendogli la mano. Le durava ancora tra i sopraccigli una piega. In mezzo alla sua gran dolcezza, talvolta ella aveva insofferenze quasi aspre e movimenti alteri che la trasfiguravano. - No, Maria. Vieni. Sii dolce. Io vado su, ad aspettarti. Tu arriva fino ai cancelli del Pincio e torna indietro. Vuoi? L'orologio della Trinità de' Monti suonò le cinque. - Senti? - soggiunse Andrea. Ella disse, dopo una leggera esitazione: - Verrò. - Grazie. Ti amo. - Ti amo. Si separarono. Donna Maria seguitò il suo cammino; traversò la piazza, entrò nel viale alberato. Sul suo capo, a intervalli, lungo la muraglia, il soffio languido dello scirocco suscitava negli alberi verdi un murmure. Nel tepore umido dell'aria fluivano rare onde di profumo e svanivano. Le nuvole parevano più basse; certi stormi di rondini quasi radevano il suolo. Eppure, in quella snervante gravezza era qualche cosa di molle che ammolliva il cuor passionato della senese. Da che ella aveva ceduto al desiderio di Andrea, il suo cuore si agitava in una felicità solcata d'inquietudini profonde; tutto il suo sangue cristiano s'accendeva alle voluttà della passione non mai provate e s'agghiacciava agli sbigottimenti della colpa. La sua passione era altissima, soverchiante, immensa; così fiera che spesso per lunghe ore le toglieva la memoria della figlia. Ella giungeva ad obliare Delfina, talvolta; a trascurarla! Ed aveva poi subitanei ritorni di rimorso, di pentimento, di tenerezza, in cui ella copriva di baci e di lacrime la testa della figlia attonita, singhiozzando con un dolor disperato, come sopra la testa d'una morta. Tutto il suo essere s'affinava alla fiamma, si assottigliava, si acuiva, acquistava una sensibilità prodigiosa, una specie di lucidità ultraveggente, una facoltà divinatoria che le dava strane torture. Quasi ad ogni inganno di Andrea, ella si sentiva passare un'ombra su l'anima, provava una inquietudine indefinita che talvolta addensandosi prendeva forma d'un sospetto. E il sospetto la mordeva, le rendeva amari i baci, acre ogni carezza, finché non si dileguava sotto gli impeti e gli ardori dell'incomprensibile amante. Ella era gelosa. La gelosia era il suo spasimo implacabile, la gelosia, non pur del presente, ma del passato. Per quella crudeltà che le persone gelose hanno contro sé stesse, ella avrebbe voluto leggere nella memoria di Andrea, scoprirne tutti i ricordi, vedere tutte le tracce segnate dalle antiche amanti, sapere, sapere. La domanda che più spesso le correva alle labbra, quando Andrea taceva, era questa: - A che pensi? - E mentre ella profferiva le tre parole, inevitabilmente l'ombra le passava negli occhi e su l'anima, inevitabilmente un flutto di tristezza le si levava dal cuore. Anche quel giorno, all'improvviso sopraggiungere di Andrea, non aveva ella avuto in fondo a sé un istintivo moto di sospetto? Anzi un pensier lucido le era balenato nello spirito: il pensiero che Andrea venisse dalla casa di Lady Heathfield, dal palazzo Barberini. Ella sapeva che Andrea era stato l'amante di quella donna, sapeva che quella donna si chiamava Elena, sapeva infine che quella era la Elena dell'inscrizione. «Ich lebe!...» Il distico del Goethe le squillava forte sul cuore. Quel grido lirico le dava la misura dell'amor d'Andrea per la bellissima donna. Egli doveva averla immensamente amata! Camminando sotto gli alberi, ella ricordava l'apparizione di Elena nella sala del concerto, al Palazzo de' Sabini, e il turbamento mal dissimulato dell'antico amante. Ricordava la terribile commozione che l'aveva presa una sera, a una festa dell'Ambasciata d'Austria, quando la contessa Starnina le aveva detto, al passaggio di Elena: - Ti piace la Heathfield? E' stata una gran fiamma del nostro amico Sperelli, e credo che sia ancora. «Credo che sia ancora.» Quante torture per quella frase! Ella aveva seguita con gli occhi la gran rivale, di continuo, in mezzo alla folla elegante; e più d'una volta il suo sguardo erasi incontrato con quel di lei, ed ella ne aveva avuto un brivido indefinibile. Poi, nella sera medesima, presentate l'una all'altra dalla baronessa di Boeckhorst, in mezzo alla folla, avevano scambiato un semplice inchino della testa. E il tacito inchino erasi ripetuto in seguito nelle assai rare volte che Donna Maria Ferres y Capdevila aveva attraversato un salone mondano. La mattina del 20 giugno, lunedì, alle dieci, incominciò la pubblica vendita delle tappezzerie e dei mobili appartenuti a S. E. il Ministro plenipotenziario del Guatemala. Era una mattina ardente. Già l'estate fiammeggiava su Roma. Per la via Nazionale correvano su e giù, di continuo, i tramways, tirati da cavalli che portavano certi strani cappucci bianchi contro il sole. Lunghe file di carri carichi ingombravano la linea delle rotaie. Nella luce cruda, tra le mura coperte d'avvisi multicolori come d'una lebbra, gli squilli delle cornette si mescevano allo schiocco delle fruste, agli urli dei carrettieri. Andrea, prima di risolversi a varcare la soglia di quella casa, vagò pe' marciapiedi, alla ventura, lungo tempo, provando una orribile stanchezza, una stanchezza così vacua e disperata che quasi pareva un bisogno fisico di morire. Quando vide uscire dalla porta su la strada un facchino con un mobile su le spalle, si risolse. Entrò, salì le scale rapidamente; udì, dal pianerottolo, la voce del perito. - Si delibera! Il banco dell'incanto era nella stanza più ampia, nella stanza del Buddha. Intorno, s'affollavano i compratori. Erano, per la maggior parte, negozianti, rivenditori di mobili usati, rigattieri: gente bassa. Poiché d'estate mancavano gli amatori, i rigattieri accorrevano, sicuri d'ottenere oggetti preziosi a prezzo vile. Un cattivo odore si spandeva nell'aria calda, emanato da quegli uomini impuri. - Si delibera! Andrea soffocava. Girò per le altre stanze, ove restavano soltanto le tappezzerie su le pareti e le tende e le portiere, essendo quasi tutte le suppellettili radunate nel luogo dell'asta. Sebbene premesse un denso tappeto, egli udiva risuonare il suo passo, distintamente, come se le volte fossero piene di echi. Trovò una camera semicircolare. Le mura erano d'un rosso profondo, nel quale brillavano disseminati alcuni guizzi d'oro; e davano immagine d'un tempio e d'un sepolcro; davano immagine d'un rifugio triste e mistico, fatto per pregare e per morire. Dalle finestre aperte entrava la luce cruda, come una violazione; apparivano gli alberi della Villa Aldobrandini. Egli ritornò nella sala del perito. Sentì di nuovo il lezzo. Volgendosi, vide in un angolo la principessa di Ferentino con Barbarella Viti. Le salutò, avvicinandosi. - Ebbene, Ugenta, che avete comprato? - Nulla. - Nulla? Io credevo, invece, che voi aveste comprato tutto. - Perché mai? - Era una mia idea... romantica. La principessa si mise a ridere. Barbarella la imitò. - Noi ce ne andiamo. Non e possibile rimaner qui, con questo profumo. Addio, Ugenta. Consolatevi. Andrea s'accostò al banco. Il perito lo riconobbe. - Desidera qualche cosa il signor conte? Egli rispose: - Vedrò. La vendita procedeva rapidamente. Egli guardava intorno a sé le facce dei rigattieri, si sentiva toccare da quei gomiti, da quei piedi; si sentiva sfiorare da quegli aliti. La nausea gli chiuse la gola. - Uno! Due! Tre! Il colpo di martello gli suonava sul cuore, gli dava un urto doloroso alle tempie. Egli comprò il Buddha, un grande armario, qualche maiolica, qualche stoffa. A un certo punto udì come un suono di voci e di risa femminili, un fruscio di vesti femminili, verso l'uscio. Si volse. Vide entrare Galeazzo Secìnaro con la marchesa di Mount Edgcumbe, e poi la contessa di Lùcoli, Gino Bommìnaco, Giovanella Daddi. Quei gentiluomini e quelle dame parlavano e ridevano forte. Egli cercò di nascondersi, di rimpicciolirsi, tra la folla che assediava il banco. Tremava, al pensiero d'essere scoperto. Le voci, le risa gli giungevano di sopra le fronti sudate della folla, nel calor soffocante. Per ventura, dopo alcuni minuti, i gai visitatori se ne andarono. Egli si aprì un varco tra i corpi agglomerati, vincendo il ribrezzo, facendo uno sforzo enorme per non venir meno. Aveva la sensazione, in bocca, come d'un sapore indicibilmente amaro e nauseoso che gli montasse su dal dissolvimento del suo cuore. Gli pareva d'uscire, dai contatti di tutti quegli sconosciuti, come infetto di mali oscuri e immedicabili. La tortura fisica e l'angoscia morale si mescolavano. Quando egli fu nella strada, alla luce cruda, ebbe un po' di vertigine. Con un passo malsicuro, si mise in cerca d'una carrozza. La trovò su la piazza del Quirinale; si fece condurre al palazzo Zuccari. Ma, verso sera, una invincibile smania l'invase, di rivedere le stanze disabitate. Salì, di nuovo, quelle scale; entrò col pretesto di chiedere se gli avevano i facchini portato i mobili al palazzo. Un uomo rispose: - Li portano proprio in questo momento. Ella dovrebbe averli incontrati, signor conte. Nelle stanze non rimaneva quasi più nulla. Dalle finestre prive di tende entrava lo splendore rossastro del tramonto, entravano tutti gli strepiti della via sottoposta. Alcuni uomini staccavano ancora qualche tappezzeria dalle pareti, scoprendo il parato di carta a fiorami volgari, su cui erano visibili qua e là i buchi e gli strappi. Alcuni altri toglievano i tappeti e li arrotolavano, suscitando un polverio denso che riluceva ne' raggi. Un di costoro canticchiava una canzone impudica. E il polverio misto al fumo delle pipe si levava sino al soffitto. Andrea fuggì. La sua voce, quel nome nel silenzio, le diedero uno strano sussulto, come se la voce, il nome non fossero partiti dalla sua bocca. - Perché Andrea indugiava? - Ella si mise in ascolto. Non giungeva che il rumore sordo, cupo, confuso della vita urbana, nella sera di San Silvestro. Su la piazza della Trinità de' Monti non passava alcuna vettura. Come il vento a tratti soffiava forte, ella richiuse la finestra: intravide la cima dell'obelisco, nera sul cielo stellato. Forse Andrea non aveva trovato sùbito la vettura coperta, in piazza Barberini. Ella aspettò, seduta sul divano, cercando di quietare la folle agitazione, evitando di guardarsi nell'anima, forzando la sua attenzione alle cose esteriori. Attirarono i suoi occhi le figure vitree del parafuoco, appena illuminate dai tizzoni semispenti. Più sopra, su la sporgenza del caminetto, da una della coppe cadevano le foglie d'una grande rosa bianca che si disfaceva a poco a poco, languida, molle, con qualche cosa di femminino, direi quasi di carnale. Le foglie, concave, si posavano delicatamente sul marmo, simili a falde di neve nella caduta. «Quanto, allora, pareva soave alle dita quella neve odorante!» ella pensò. «Tutte sfogliate, le rose cospargevano i tappeti, i divani, le sedie; ed ella rideva, felice, in mezzo alla devastazione; e l'amante, felice, le era ai piedi.» Ma udì fermarsi una carrozza d'innanzi alla porta, nella strada; e si levò, scuotendo la povera testa, come per cacciare via quella specie di ottusità che la fasciava. Sùbito dopo, rientrò Andrea, ansante. - Perdonatemi - disse. - Ma, non avendo trovato il portiere, sono sceso fino in piazza di Spagna. La vettura è giù che aspetta. - Grazie - fece Elena guardandolo timidamente a traverso il velo nero. Egli era serio e pallido, ma calmo. - Mumps arriverà forse domani - soggiunse ella, con una voce tenue. - Vi scriverò un biglietto, per dirvi quando potrò vedervi. - Grazie - fece Andrea. - Addio, dunque - ella riprese, tendendogli la mano. - Volete che vi accompagni fin giù alla strada? Non c'è nessuno. - Sì, accompagnatemi. Ella si guardava a torno, un poco esitante. - Avete dimenticato nulla? - chiese Andrea. Ella guardò i fiori. Ma rispose: - Ah sì, il portabiglietti. Andrea corse a prenderlo sul tavolo del tè. Porgendolo a lei, disse: - "A stranger hither!" - "No, my dear. A friend." Elena pronunziò questa risposta con la voce molto animata, vivacemente. Poi, d'un tratto, con un sorriso tra supplichevole e lusinghevole, misto di temenza e di tenerezza, su cui tremolò l'orlo del velo che giungeva fino al labbro superiore lasciando tutta libera la bocca: - "Give me a rose." Andrea andò a ciascun vaso; e tolse tutte le rose, stringendole in un fascio ch'egli a stento reggeva tra le mani. Alcune caddero, altre si sfogliarono. - Erano per voi, tutte - egli disse, senza guardare l'amata. Ed Elena si volse per uscire, col capo chino, in silenzio, seguita da lui. Discesero le scale, sempre in silenzio. Egli le vedeva la nuca, così fresca e delicata, dove di sotto al nodo del velo i piccoli riccioli neri si mescolavano alla pelliccia cinerea. - Elena! - chiamò, a voce bassa, non potendo più vincere la struggente passione che gli gonfiava il cuore. Ella si rivolse, mettendosi l'indice su le labbra per indicargli di tacere, con un gesto dolente che pregava, mentre gli occhi le lucevano. Affrettò il passo, salì nella vettura, si sentì posare su le ginocchia le rose. - Addio! Addio! E, come la vettura si mosse, ella s'abbandonò al fondo, sopraffatta, rompendo in lacrime senza freno, straziando le rose con le povere mani convulse.