/<1994>/ Marino mi guardò freddo mentre mi fermavo accanto al tavolo e mi presentò Matt Petersen, il marito. Petersen era accasciato su una sedia, i lineamenti sconvolti dallo shock. Era di una bellezza raffinata, lo si sarebbe potuto dire stupendo, con quelle fattezze perfettamente cesellate, i capelli nerissimi, la pelle liscia con una traccia di abbronzatura. Aveva spalle larghe su un corpo snello ma scolpito con eleganza; vestiva in modo informale: una camicia bianca marca Izod e un paio di blue-jeans scoloriti. Teneva gli occhi bassi, le mani serrate sul ventre. « E' roba di sua moglie?» volli sapere. Gli strumenti medici potevano appartenere al marito. Il «già » di Marino me lo confermò. Petersen alzò lentamente lo sguardo. Occhi color azzurro scuro, iniettati di sangue. Sembravano quasi sollevati, mentre mi fissavano. Il dottore era arrivato, un raggio di speranza dove i raggi di speranza erano assenti. Mormorò qualcosa, parlando a frasi smozzicate, con la mente scissa, sconvolta. «Le ho parlato al telefono. Ieri sera. Ha detto che sarebbe tornata verso mezzanotte e mezzo, tornata dal VMC, il Virginian Medical Center. Sono arrivato, ho trovato le luci spente e ho pensato che fosse già andata a letto. Poi sono entrato in casa.» La voce si fece acuta, tremante; lui respirò a fondo. «Sono entrato là, sono entrato là dentro, nella camera da letto.» Aveva un'espressione disperata negli occhi, quasi implorante. «La prego, non voglio che nessuno la guardi, che la veda così. La prego.» «Bisognerà fare degli esami, signor Petersen» dissi gentilmente. Picchiò all'improvviso un pugno sul tavolo, in un soprassalto di rabbia. «Lo so!» Aveva un'espressione feroce negli occhi. «Ma tutta quella gente, la polizia e tutti gli altri!» Gli tremava la voce. «Lo so cosa succede! Giornalisti, tutti, accalcati intorno. Non voglio che quei figli di puttana la vedano!» Marino non batté ciglio. «Ehi. Ho una moglie anch'io, Matt. Lo so cosa vuol dire, capito? Hai la mia parola che la tratteranno con rispetto. Lo stesso rispetto che pretenderei se fossi seduto al tuo posto, se fossi io a essere seduto sulla tua sedia, capito?» Il dolce balsamo delle menzogne. I morti sono indifesi e la violazione di questa donna, come quella delle altre, era solo cominciata. Sapevo che non sarebbe terminata fino a quando Lori Petersen non fosse stata rivoltata, fotografato ogni centimetro del suo corpo, il tutto messo a disposizione degli esperti, della polizia, degli avvocati, dei giudici e dei membri della giuria. Ci sarebbero state riflessioni, osservazioni sui suoi attributi fisici o sulla loro mancanza. Ci sarebbero state battute goliardiche e ciniche, mentre la vittima, non l'assassino, finiva sotto processo e ogni aspetto della sua persona, del suo modo di vita, veniva esaminato, giudicato e, in alcuni casi, insozzato. Una morte violenta è un evento pubblico ed era proprio questo risvolto della mia professione che urtava duramente la mia sensibilità. Facevo quel che potevo per salvaguardare la dignità delle vittime, ma ben poco potevo fare quando una persona era ormai un numero di un fascicolo, un elemento di prova che passava di mano in mano. La privacy viene annientata, proprio come la vita. Marino mi scortò fuori dalla cucina, lasciando che fosse l'agente a proseguire l'interrogatorio di Petersen. «Avete già fatto le vostre foto?» chiesi. «Adesso c'è dentro la scientifica che sparge polvere dappertutto» rispose. Intendeva gli uomini della squadra di identificazione. «Gli ho detto di stare lontani dal corpo.» Ci fermammo nel corridoio. Sulle pareti c'erano alcuni piacevoli acquerelli e una serie di fotografie che ritraevano le classi in cui si erano diplomati il marito e la moglie, più una fotografia artistica a colori della giovane coppia, sullo sfondo di una spiaggia, appoggiata a un pilone consumato dagli elementi, i pantaloni arrotolati alla caviglia, il vento nei capelli, il viso arrossato dal sole. Era bella da viva, bionda, con lineamenti delicati e un sorriso attraente. Aveva frequentato il Brown College, poi la facoltà di medicina di Harvard. Anche il marito aveva passato ad Harvard gli anni di undergraduate. Lì probabilmente si erano incontrati ed evidentemente lui era più giovane di lei. Ci spostammo verso i piedi. Anche qui trovammo le scintille bianche, ma anche qui erano poche. Nessuna traccia della sostanza, di qualunque cosa si trattasse, sul viso, nessuna sui capelli né sulle gambe. Ne trovammo alcune sugli avambracci e altre ancora sull'omero e sulle mammelle. Una costellazione di stelline bianche si aggrappava al cavo che le stringeva selvaggiamente i polsi sulla schiena; altre le trovammo sulla camicia da notte squarciata. Mi staccai dal tavolo, accesi una sigaretta e cominciai a mettere insieme i vari elementi. Sulle mani dell'aggressore c'era una sostanza che si depositava ogni qual volta lui toccava la vittima. Dopo aver strappato la camicia da notte a Lori Petersen, probabilmente le aveva afferrato la spalla destra, dove le dita avevano lasciato le macchie sulla clavicola. Di una cosa ero certa: che, se qui si trovava la massima concentrazione di sostanza, questo era il primo posto dove l'aveva toccata. Questo particolare era sconcertante: una tessera che sembrava combaciare nel mosaico, mentre in realtà non era così. Fin dall'inizio avevo immaginato che soggiogasse immediatamente le vittime, magari sotto la minaccia di un coltello, e che poi le legasse prima di tagliare loro gli abiti addosso o di fare il resto. Più le toccava, meno sostanza gli rimaneva sulle mani. Come mai ne era rimasta tanta sulla clavicola? Forse lì la pelle era scoperta all'inizio dell'aggressione? Non mi sembrava probabile. La camicia da notte era di maglia di cotone, morbida ed elastica, tagliata in modo da farla assomigliare a una T-shirt a maniche lunghe. Non aveva né bottoni né cerniere e la si poteva indossare solo infilandola dalla testa. Avrebbe dovuto coprirla fino al collo. Come aveva fatto l'assassino a toccarle la pelle nuda, se Lori Petersen aveva ancora la camicia da notte addosso? Come si spiegava una concentrazione così elevata di sostanza? Negli altri casi non ne avevamo mai trovata tanta. Uscii nel corridoio dove diversi uomini in uniforme se ne stavano in piedi, appoggiati alla parete, chiacchierando. Chiesi a uno di loro di chiamare Marino per radio e di riferirgli di telefonarmi immediatamente. Sentii la voce di Marino gracchiare un "dieci-quattro" di risposta. Camminai nel reparto delle autopsie, con il suo pavimento di piastrelle, i tavoli di acciaio inossidabile luccicanti, le vasche e i carrelli su cui erano allineati gli strumenti chirurgici. Da qualche parte un rubinetto perdeva. Si sentiva il puzzo dolciastro e rivoltante del disinfettante, che risultava gradevole solo quando serviva a coprire fetori ancora più intensi. Il telefono nero sulla scrivania mi beffava con il suo silenzio. Marino sapeva che ero in attesa della sua chiamata accanto all'apparecchio. E questa situazione lo divertiva. Era inutile cercare di risalire all'inizio per capire che cosa era andato storto. Ogni tanto ci pensavo lo stesso. Che cosa non gli andava in me? La prima volta che ci eravamo incontrati mi ero dimostrata educata con lui, gli avevo stretto forte e rispettosamente la mano, mentre i suoi occhi perdevano ogni espressione, come due monete consunte. Passarono venti minuti prima che il telefono squillasse. Era ancora a casa dei Petersen, mi disse, stava interrogando il marito che, per usare le sue parole, era "ridotto da buttare nel cesso". Gli raccontai della sostanza. Ripetei quello che gli avevo già spiegato in passato. Forse veniva da qualche prodotto domestico presente in tutti i casi sulla scena degli omicidi, qualche cosa di strano che l'assassino cercava e integrava nel rituale. Talco, lozioni, cosmetici, detersivi. Finora non avevamo scoperto di quale materia potesse trattarsi il che, in un certo senso, era stato utile. Se la sostanza non si trovava originariamente sul luogo del delitto, e dentro di me sentivo che così era, allora l'assassino la portava con sé, forse senza rendersene conto, particolare, questo, da non sottovalutare, perché alla fine avrebbe potuto svelarci dove lavorava o dove viveva. «Già » mi arrivò la voce di Marino. «Bene. Daremo un'occhiata negli armadi eccetera. Ma io una mia idea ce l'ho.» «E sarebbe?» «Il marito in questione si occupa di teatro, giusto? Prova tutti i venerdì sera, il che spiega come mai arriva a casa tardi, giusto? Mi corregga se sbaglio, ma gli attori si mettono il cerone.» Per lo più quando ero a New York, con gente tipo Johnny Andretti, con i suoi completi di seta, le sigarette straniere e il fascino che gli esce anche dalle orecchie. E' così gentile che cominci a farti in quattro per compiacerlo e a dimenticare il piccolo particolare che nella sua carriera ha fatto a pezzi più di venti persone. Poi c'è Phil il magnaccia. Picchia le sue ragazze con l'attaccapanni, due addirittura da ammazzarle. E lo trovi che piange come una fontana nel suo ristorante, che è solo una copertura per il suo servizio di squillo. Phil sembra a pezzi per le sue battone morte ed è lì sulla tavola che mi dice: "Ti prego, trova chi è stato, Pete. Deve essere un animale. Su, prendi un goccino di Chianti, Pete. E' buono". «Il fatto è, dottoressa, che l'ho già sentita la solfa. E Petersen mi ha fatto scattare l'allarme, come Andretti e Phil. Mentre lui dà spettacolo, io me ne sto seduto e mi chiedo "Ma cosa crede questo cervellone di Harvard? Che sono fesso o cosa?"» Infilai il nastro nel registratore per microcassette, senza dire nulla. Marino mi fece cenno di premere il pulsante Play. «Atto primo» annunciò. «Scena: la cucina dei Petersen. Personaggio principale: Matt. Ruolo: tragico. E' pallido e ha lo sguardo sofferto, okay? Fissa la parete. Io? A me passa un film in testa. Mai stato a Boston e non capirei la differenza tra Harvard e un buco per terra, ma vedo vecchi mattoni e tanta edera.» Tacque mentre il nastro iniziava bruscamente registrando a metà una frase di Petersen. Parlava di Harvard, rispondendo a domande su quando aveva conosciuto Lori. Negli anni ne avevo sentiti un bel po' di interrogatori di polizia e questo mi lasciava perplessa. Come mai? In che modo il corteggiamento di Lori al tempo del college aveva a che fare con l'assassinio? E nello stesso tempo pensavo che una parte di me lo sapesse. Marino stava saggiando il terreno, cercando di mettere a nudo Petersen. Marino cercava qualsiasi cosa - qualsiasi - da cui si potesse arguire che Petersen aveva delle ossessioni, delle perversioni e che potenzialmente era capace di manifestazioni psicopatiche. Mi alzai per chiudere la porta, per evitare che ci interrompessero, mentre la voce registrata proseguiva tranquillamente. «... l'avevo già vista. Al campus, una bionda che se ne andava in giro con le braccia piene di libri senza guardare niente e nessuno, come se avesse fretta e stesse pensando a un sacco di cose.» Marino: «E che cosa ti ha colpito di lei, Matt?». «Difficile a dirsi. Ma da lontano mi aveva intrigato. Non saprei bene perché. Forse in parte può essere dovuto al fatto che di solito era da sola, andava di fretta, diretta chissà dove. Era, ecco, sicura di se stessa e sembrava avere uno scopo. E' questo che mi ha incuriosito.» Marino: « E' una cosa che ti succede spesso? Voglio dire, il fatto di vedere una donna attraente, che ti incuriosisce da lontano, intendo». «Ah, non credo. Voglio dire, la gente la noto, come tutti. Ma con lei, con Lori, è stata una cosa differente.» Marino: «Vai avanti. Così finalmente l'hai conosciuta. Dove?». « E' stato a un party. In primavera, all'inizio di maggio. Il party era in un appartamento fuori dal campus, che era dell'amico del mio compagno di stanza, un tizio che si rivelò essere il compagno di laboratorio di Lori, il che spiegava come mai c'era anche lei. Arrivò verso le nove, più meno quando io stavo per andarmene. Il suo compagno di laboratorio, mi pare che si chiamasse Tim, le aprì una birra e cominciarono a parlare. Non avevo mai sentito la sua voce. Un registro da contralto, molto tranquillizzante, piacevolissimo da ascoltare. Quel tipo di voce che ti spinge a voltarti per capire da dove viene. Stava raccontando delle storielle su un certo professore e la gente intorno a lei rideva. Lori aveva un modo suo di attrarre l'attenzione generale, senza nemmeno provarci.» «Dobbiamo bloccare questa storia immediatamente, altrimenti ci troveremo un pandemonio tra le mani. Questo è uno dei punti di cui noi tre abbiamo discusso.» «Se lei fosse in grado di bloccare gli assassini da subito» dissi con lo stesso tono blando, «meriterebbe il premio Nobel.» «Naturalmente, questa è la nostra massima priorità » disse Boltz che aveva sbottonato la giacca scura del completo con panciotto, rilassandosi contro lo schienale della poltrona. «Abbiamo detto alla polizia di lavorarci giorno e notte, Kay. Ma tutti qui concordiamo nel dire che c'è una cosa che dobbiamo controllare, per il momento... le indiscrezioni alla stampa. Gli articoli sui giornali spaventano il pubblico e mettono al corrente l'assassino di tutte le nostre mosse.» «Sono assolutamente d'accordo.» Le mie difese stavano salendo come un ponte levatoio. «Lei può avere la certezza che dal mio ufficio non sono uscite dichiarazioni, eccetto le informazioni obbligatorie sulla causa e sul modo della morte» dissi, pentendomi immediatamente delle mie parole. Avevo risposto a un'accusa che non mi era ancora stata rivolta e il mio istinto da avvocato inorridiva di fronte alla stupidaggine che avevo commesso. Se ero venuta qui per sentirmi incolpare di indiscrezione, avrei dovuto costringere loro - costringere Amburgey, in ogni modo - a introdurre un argomento così offensivo. Invece, ero stata io a dare il segnale che ero in fuga, fornendo a loro la giustificazione per inseguirmi. «Ecco» commentò Amburgey, posando brevemente su di me gli occhi pallidi e freddi, «lei ha messo sul tavolo un argomento che credo dovremo esaminare attentamente.» «Non ho messo nulla sul tavolo» replicai senza enfasi. «Ho solo sottolineato un fatto.» La receptionist bussò piano entrando con il caffè e all'improvviso nella stanza piombò il silenzio. La cosa pareva non interessarla minimamente mentre, con estrema minuzia, si accertava che avessimo tutto ciò che ci serviva, lasciando però che la sua attenzione aleggiasse come una nebbiolina intorno a Boltz. Forse Boltz non era il miglior pubblico ministero che la città avesse mai avuto, ma era di gran lunga il più bello, uno di quei pochi uomini dai capelli biondi con i quali il trascorrere degli anni si rivela benevolo. Non aveva perduto né i capelli né la linea e le rughe sottili agli angoli degli occhi erano l'unica indicazione che si stava avvicinando ai quaranta. Quando fu uscita, Boltz senza rivolgersi a nessuno in particolare disse: «Lo sappiamo tutti che ogni tanto ai poliziotti piace sbottonarsi. Norman e io abbiamo avuto qualche scambio con i massimi livelli. Nessuno sembra sapere con precisione da dove partono le indiscrezioni». Mi controllai. Che cosa pretendevano? Che uno dei grandi capi, tutto pappa e ciccia con Abby Turnbull o con chiunque altro, si mettesse a confessare: «Già, mi spiace. Ho detto qualcosa che non dovevo?». Amburgey voltò una pagina del taccuino. «Fino a oggi le indiscrezioni sono trapelate da quella che viene indicata come "una fonte medica", che è stata citata diciassette volte a partire dal primo omicidio, dottoressa Scarpetta. La cosa mi mette un poi a disagio. Palesemente, i dettagli più sensazionali, come per esempio i legacci, le prove di aggressione sessuale, il modo in cui l'assassino è penetrato in casa, il luogo in cui sono stati trovati i corpi e il fatto che sia in corso un test del DNA sono stati tutti attribuiti a questa fonte medica.» Alzò lo sguardo. «Devo supporre che questi dettagli siano esatti?» «Non del tutto. Ci sono alcune piccole discrepanze.» «Del tipo?» Non volevo dirgliele. Non volevo assolutamente parlare con lui di questi casi, ma lui aveva il diritto di avere anche i mobili del mio ufficio, se li voleva. Io dovevo riferire a Amburgey. Lui non doveva riferire a nessun altro, se non al governatore. «Per esempio» replicai, «i giornali hanno riportato che intorno al collo di Brenda Steppe era stata trovata una cintura di tessuto di colore marrone. In realtà, il collo era stretto in un paio di collant.» Amburgey stava scrivendo. «E che altro?» Innestò bruscamente la marcia e partimmo verso il fiume, verso sud, a Berkley Down. Per i dieci, quindici minuti successivi - in realtà non mi rendevo conto del tempo - non scambiammo una parola. Venni lasciata in un silenzio miserando, ridotta a osservare il bordo della strada filarmi via accanto. Era come essere l'oggetto di uno scherzo crudele o di una trama che tutti conoscevano salvo me. L'isolamento stesso stava diventando insopportabile, i miei timori erano così ingigantiti che non ero più certa della mia capacità di giudizio, del mio acume, della mia stessa ragione. Credo che non fossi sicura di nulla. Tutto ciò che riuscivo a fare era raffigurarmi le macerie di quello che solo pochi giorni prima era un invidiabile futuro professionale. Il mio ufficio veniva biasimato per le indiscrezioni. I miei tentativi di modernizzazione avevano minato le rigide norme di riservatezza che io stessa avevo imposto. Anche Bill non era più sicuro della mia credibilità. Ora i poliziotti non avrebbero più dovuto parlare con me. Sarebbe finita solo quando fossi diventata il capro espiatorio di tutte le atrocità causate da questi delitti. Amburgey probabilmente non avrebbe avuto altra scelta che togliermi l'incarico o addirittura licenziarmi in tronco. Marino mi lanciò un'occhiata. Quasi non mi ero resa conto che aveva accostato e parcheggiato la macchina. «Quanto siamo lontani?» chiesi. «Da che cosa?» «Da dove eravamo, da dove viveva Cecile?» «Esattamente 12,2 chilometri» rispose asciutto, senza nemmeno guardare il contachilometri. Nella luce del giorno, quasi non riconobbi la casa di Lori Petersen. Aveva un'aria disabitata, coperta da una patina di trascuratezza. I profili in legno verniciati di bianco apparivano sporchi nell'ombra, le persiane blu sembravano coperte di polvere. I gigli sotto le finestre anteriori erano stati schiacciati, probabilmente dai poliziotti che avevano rastrellato ogni centimetro della proprietà alla ricerca di prove. Un brandello di nastro giallo era rimasto attaccato al telaio della porta e nell'erba troppo lunga c'era una lattina di birra che qualcuno passando aveva gettato. Era la tipica abitazione decorosa e pulita dell'America middleclass, quel tipo di casa che si trova in tutte le cittadine, in tutti i quartieri. Era il posto in cui la gente cominciava a vivere e dove poi tornava durante la vecchiaia: giovani professionisti, giovani coppie e, alla fine, anziani in pensione con i figli ormai cresciuti e usciti di casa. Era quasi identica alla casa di legno bianca dei Johnson a Baltimora, dove avevo preso una stanza in affitto al tempo dell'università. Come Lori Petersen, avevo vissuto dimenticando ogni altra cosa, uscendo all'alba, spesso senza ritornare fino alla sera dopo. La sopravvivenza si limitava ai libri, ai laboratori, agli esami, ai turni e al disporre dell'energia fisica ed emotiva per reggere. Non mi sarebbe mai venuto in mente, come non era mai venuto in mente a Lori, che una persona che non conoscevo potesse decidere di prendersi la mia vita. «Ehi...» Mi resi conto all'improvviso che Marino mi stava parlando. Mi guardava incuriosito. «Va tutto bene, dottoressa?» «Mi spiace. Non ho sentito quello che mi ha detto.» «Le ho chiesto cosa pensava. Sa, una mappa in testa adesso ce l'ha. Che cosa ne pensa?» «Credo che tra la loro morte e il posto in cui vivevano non ci siano rapporti» risposi sintetica. Non disse se era d'accordo o no. Afferrò il microfono e comunicò al controllore che il suo turno era concluso. Il giro era finito. «Dieci-quattro, sette-dieci» gracchiò la voce impertinente del controllore, imitando Burt Reynolds. «Ore diciotto e quarantacinque, attento al sole negli occhi, domani alla stessa ora canteranno la nostra canzone...» Una canzone fatta di sirene, di spari e di automobilisti che si schiantano gli uni contro gli altri, pensai. Marino sbuffò. «Quando ero giovane io, bastava un "Certo" invece di un "Dieci-quattro" che l'ispettore ti scriveva subito una nota di demerito.» Chiusi per un attimo gli occhi e mi massaggiai le tempie. «Certo che adesso le cose non vanno più come una volta» disse. «Diavolo, non c'è più niente che va come una volta.» C'era una particolarità di questo esempio di progresso automatizzato che mi rendeva nervosa. Inevitabilmente rimanevano alcune etichette inutilizzate perché di regola non si raccoglievano tutti i reperti possibili, specialmente quando i laboratori avevano troppo da fare e troppo poco personale. Per esempio, non inviavo al laboratorio frammenti di unghia su cui cercare indizi se il morto era un vecchio di ottant'anni stroncato da un infarto al miocardio mentre tagliava l'erba in giardino. Ma che cosa fare delle etichette che rimanevano? Senz'altro non bisognava lasciarle in giro con il rischio di farle finire sulle provette sbagliate. La maggior parte dei patologi le strappava. Io invece avevo l'abitudine di raccoglierle nella cartella della persona deceduta. Era un metodo rapido per sapere quali esami erano stati fatti, quali erano stati tralasciati e quante provette di questo e di quello erano state spedite al piano di sopra. Wingo era corso dall'altra parte e stava sfogliando le pagine del registro dell'obitorio. Sentivo lo sguardo di Marino fissarmi dal fondo della sala mentre attendeva di raccogliere i proiettili del suo caso di omicidio. Mi si avvicinò proprio mentre Wingo tornava. «Quel giorno abbiamo avuto sei casi» mi ricordò Wingo come se Marino non ci fosse. «Sabato. Lo ricordo. C'erano un sacco di etichette là sul bancone. Magari una...» «No» dissi ad alta voce. «Non vedo come. Non ho lasciato in giro etichette non utilizzate di quel caso. Erano insieme alla mia documentazione, fissate al mio portablocco...» «Merda» disse Marino sorpreso. Mi stava guardando sopra la spalla. «Sta pensando quel che sto pensando io?» Mi tolsi freneticamente i guanti, presi la cartella dalle mani di Wingo e tagliai il nastro con l'unghia del pollice. Dentro c'erano quattro vetrini, tre dei quali senz'altro erano stati macchiati con qualcosa; però non erano siglati a mano con le lettere o, a, oppure v, che indicavano di che cosa si trattava. Non portavano contrassegni, eccettuata l'etichetta del computer sul frontespizio della cartella. «Dunque, forse ci ha messo l'etichetta pensando di usarle e poi ha cambiato idea?» suggerì Wingo. Non risposi immediatamente. Non me lo ricordavo! «Quando è stata l'ultima volta che hai aperto il frigorifero?» gli chiesi. Scrollò le spalle. «La settimana scorsa, forse lunedì della settimana scorsa quando ho tirato fuori la roba perché i dottori dovevano prelevarla. Non è stato l'ultimo lunedì. Questa settimana è la prima volta che guardo nel frigo.» Poi mi ricordai che Wingo il lunedì precedente aveva usato il computer. Ero stata io in persona a tirare fuori dal frigorifero i reperti di Lori Petersen prima di fare il giro dei laboratori. Era possibile che non avessi visto la cartelletta? Era possibile che fossi così stanca, così distratta, da confondere i reperti del suo caso con quelli di uno degli altri cinque casi di quel giorno? Se la risposta era sì, dove erano finiti i reperti? Nella cartelletta di cui avevo firmato la ricevuta al piano di sopra o in questa? Non riuscivo a credere che fosse successa una cosa del genere. Stavo sempre così attenta! Raramente indosso il camice fuori dalla sala operatoria. Quasi mai. Nemmeno quando c'è un'esercitazione antincendio. Qualche minuto dopo, il personale del laboratorio mi osservava incuriosito percorrere a passo spedito il corridoio del secondo piano nel camice verde macchiato di sangue. Betty si trovava nel suo ufficio stipato di materiale intenta a bere un caffè. Mi lanciò un'occhiata e lo sguardo le si raggelò. «Abbiamo un problema» dissi senza preamboli. Fissò la cartelletta e l'etichetta incollata sopra. «Wingo stava ripulendo il frigorifero delle prove. L'ha trovata un minuto fa.» «Oh, Dio» fu tutto quello che disse. La seguii nel laboratorio di sierologia spiegandole che non ricordavo affatto di avere messo l'etichetta a due cartelle dei perk nel caso di Lori. Non avevo la minima idea di che cosa fosse successo. Betty infilò le mani in un paio di guanti, prese dei boccettini da un armadietto tentando nel contempo di rassicurarmi. «Credo che quelli che mi hai fatto avere, Kay, siano i reperti giusti. I vetrini concordano con i tamponi e con tutte le altre cose che hai identificato. Da tutti è risultato che è un non secretore, tutti erano coerenti. Deve trattarsi di un extra che non ti ricordi di avere preso.» «Ti prego» sbottai. Proseguì in tono dolce: «Hai capito cosa intendo dire». «Anche troppo bene.» « E' una maledetta scocciatura, questa violazione del computer.» «Oh, Signore. Mi fa venire voglia di tornare all'epoca delle macchine per scrivere.» Fissò pensieroso la finestra. «Vediamo un po' le cose dal punto di vista legale, Kay.» Portò lo sguardo su di me, l'espressione seria. «Ti propongo di fare moltissima attenzione. Ma ti consiglio fortemente di non lasciarti coinvolgere da questa faccenda, tanto da distrarti dalle indagini. Le azioni politiche scorrette o la paura che ti incutono, possono impensierirti al punto da farti commettere errori, cosa che risparmierebbe ai tuoi nemici la seccatura di fabbricarli.» Mi vennero in mente le etichette scambiate. Avvertii un nodo allo stomaco. «Sono come le persone su una nave che affonda» aggiunse. «Possono trasformarsi in belve. Ciascuno per sé. Non devi trovarti sulla loro strada. Non devi metterti in una posizione vulnerabile quando la gente si fa prendere dal panico. E la gente di Richmond si sta facendo prendere dal panico.» «Certa gente sì» concordai. « E' comprensibile. Si poteva impedire la morte di Lori Petersen. La polizia ha fatto un errore imperdonabile quando non ha dato una priorità elevata alla sua chiamata. L'assassino non è stato preso. Ci sono donne che continuano a morire. L'opinione pubblica dà la colpa alle autorità cittadine, che a loro volta devono scaricarla su altri. E' la natura della bestia. Se polizia e politici possono mollare a qualcun altro la patata bollente, lo fanno.» «Depositandola sulla porta di casa mia» dissi aspra e pensando automaticamente a Cagney. A lui sarebbe successa una cosa simile? Sapevo qual era la risposta e la dissi ad alta voce. «Non posso fare a meno di pensare che sono un bersaglio facile perché sono una donna.» «Sei una donna in un mondo di maschi» rispose Fortosis. «Sarai sempre ritenuta un bersaglio facile, finché i ragazzi scopriranno che hai le zanne. E tu le zanne le hai.» Sorrise. «Fai in modo che se ne accorgano.» «Come?» «C'è qualcuno nel tuo ufficio di cui ti fidi assolutamente?» «Il mio personale mi è molto leale...» Allontanò la dichiarazione con un cenno della mano. «Fiducia, Kay, quella che ti farebbe affidare loro la tua vita. La tua programmatrice, per esempio?» «Margaret mi è sempre stata fedele» risposi esitando. «Ma mettere la mia vita nelle sue mani? Non credo. La conosco superficialmente, non di persona.» «Quello che voglio dire è che la tua sicurezza - la tua miglior linea di difesa, se vuoi vederla in questo modo - sarebbe quella di riuscire a capire chi è penetrato nel computer. Forse non si potrà. Ma se c'è solo una possibilità, allora sospetto che per scoprirlo ci vuole qualcuno che conosce bene i computer. Un investigatore tecnicamente competente, qualcuno di cui ti fidi. Credo che non sarebbe saggio coinvolgere una persona che conosci poco, qualcuno che potrebbe parlare.» «Non mi viene in mente nessuno» dissi. «E anche se la trovassi, questa persona, non è detto che otterrebbe un risultato positivo. Se è stato un giornalista a violare il computer, non vedo come potrei risolvere il mio problema, scoprendolo.» «Forse no. Ma se io fossi al tuo posto correrei il rischio.» Mi chiesi dove stesse andando a parare. Avevo la sensazione che nutrisse già dei sospetti. «Terrò a mente tutte queste cose» promise, «se e quando qualcuno mi contatterà a proposito delle indagini, Kay. Se qualcuno eserciterà pressioni su di me, per esempio, sulla questione degli articoli che stimolano l'assassino e cose del genere.» Una pausa. «Non intendo farmi strumentalizzare. Ma non posso neppure mentire. Il fatto è che la reazione di questo assassino alla pubblicità, il suo modus operandi, in altre parole, è un poi insolito.» Mi limitai ad ascoltarlo. «A essere sinceri, non a tutti i serial killer piace leggere delle loro imprese. L'opinione pubblica tende a credere che la maggior parte di coloro che commettono delitti sensazionali vuole la fama, vuole sentirsi importante. Come Hinckley. Spari al presidente e ti ritrovi in un attimo protagonista. Un individuo dalla personalità inadeguata con problemi di integrazione sociale, che non riesce a conservare un lavoro e ad avere relazioni normali, ottiene di colpo fama internazionale. Questi personaggi sono l'eccezione, secondo me. Rappresentano un estremo. Passammo l'ora successiva a rifinire il linguaggio dell'articolo di Abby. «Non possiamo citare le fonti» insisteva Abby. «Assolutamente. Se le citazioni vengono attribuite alla direttrice del Centro di medicina legale, la cosa sembrerà sospetta perché lei in passato ha sempre rifiutato di parlare. E adesso le è stato ordinato di non parlare. Deve sembrare che ci sia stata una fuga di notizie.» «Bene» commentai secca, «immagino che potrà tirare fuori dal cappello la sua famosa "fonte dell'ambiente medico".» Abby lesse la bozza ad alta voce. Non mi parve buona. Troppo vaga. Piena di "presunto" di qui e di "possibile" di là. Se solo avessimo avuto un campione di sangue. Il difetto enzimatico, se esisteva effettivamente, si sarebbe potuto trovare nei leucociti, le cellule bianche del sangue. Se solo avessimo avuto qualche cosa. Proprio in quel momento il mio telefono ronzò. Era Rose. «Dottoressa Scarpetta, c'è qui il sergente Marino. Dice che è urgente.» Lo incontrai giù nell'atrio. Aveva con sé una borsa. Quel tipo di borsa di plastica grigia che mi era familiare, perché serviva per raccogliere i capi di vestiario legati a casi criminali. «Questa le sembrerà incredibile.» Rideva scoprendo i denti, con il volto arrossato. «La conosce La Gazza?» Chiaramente sconcertata, fissavo la borsa. «Sa, La Gazza. Gira la città con tutti i suoi beni terreni in un carrello di supermercato che ha preso chissà dove. Passa le ore a rovistare nei bidoni delle immondizie e nei cassonetti.» «Un barbone?» Di chi stava parlando Marino? «Già, il gran mandarino dei barboni. Bene, durante il week-end sta pescando in un cassonetto a meno di un isolato da dove è stata massacrata Henna Yarborough e, dottoressa - provi a indovinare - trova una bella tuta blu. La nota subito perché è macchiata di sangue. Sa, è un mio informatore. E' abbastanza furbo da infilarla in un sacco della spazzatura e poi se ne va in giro giorni e giorni con quell'affare, cercandomi. Mi ha fatto segno per strada poco tempo fa, si è fatto pagare il solito deca sull'unghia e Buon Natale.» Stava sciogliendo il legaccio che chiudeva il sacchetto. «Dia un'annusata.» Quasi mi fece svenire. Non solo il puzzo della tuta intrisa di sangue vecchio di giorni, ma il potente odore dolciastro e sudaticcio. Un brivido gelido mi percorse la spina dorsale. «Ehi» proseguì Marino, «ho fatto un salto a casa di Petersen prima di venire qui. Gli ho fatto dare un'annusata anche a lui.» « E' l'odore che aveva notato?» Mi puntò contro un dito e ammiccò. «Centro.» Per due ore io e Wander ci dedicammo alla tuta blu. Betty ci avrebbe messo un bel poi di tempo per analizzare le macchie di sangue, ma eravamo quasi certi che la tuta fosse stata usata dall'assassino. Sotto il laser riluceva come un manto di asfalto coperto di quarzo. Sospettavamo che quando aveva ferito Henna con il coltello si fosse imbrattato di sangue e si fosse ripulito le mani sulle cosce. Anche i polsi delle maniche erano induriti a causa del sangue secco. Molto probabilmente aveva l'abitudine di indossare qualcosa di simile a una tuta sopra gli abiti quando colpiva. Forse ogni volta dopo il delitto la buttava via in un cassonetto. Ne dubitavo. Aveva buttato via la tuta perché aveva fatto sanguinare questa vittima. Ero pronta a scommettere che era abbastanza furbo da sapere che le macchie di sangue sono indelebili. Non voleva, in caso di arresto, farsi trovare nell'armadio un capo macchiato di sangue secco. E voleva escludere che si risalisse a lui attraverso la tuta. L'etichetta era stata asportata. Il tessuto sembrava un misto di cotone e di materiale sintetico, color blu cupo, taglia Large o forse Extra Large. Ricordai le fibre scure trovate sul davanzale e sul corpo di Lori Petersen. Ce ne erano alcune scure anche sul corpo di Henna. Me le caricò sulle braccia e disse: «Tanti auguri». «Cosa?» Lo guardai come se fosse uscito di cervello. «Ehi.» Tirò fuori le sigarette. «A me toccano i pronto pizza. Là c'è un registratore.» Indicò con il pollice la sala degli smistatori, oltre il vetro. «O li ascolta qui o se li porta in ufficio. Ora, io al suo posto li porterei fuori da questa gabbia di matti, ma questo non gliel'ho detto, ci siamo capiti? Non dovrebbero uscire da qui. Basta però che quando ha finito li riconsegni a me personalmente.» Stava venendomi il mal di testa. Mi portò poi in una stanzetta dove una stampante laser stava vomitando chilometri di carta a strisce verdi. La pila sul pavimento era già alta una sessantina di centimetri. «Ho dato un colpo di telefono ai ragazzi qui prima di uscire dal suo ufficio» spiegò laconico. «Gli ho detto di stampare tutto quello che il computer aveva registrato negli ultimi due mesi.» Oh, Dio. «Quindi qui ci sono gli indirizzi e tutto il resto.» Mi guardò con quei suoi occhi castani, inespressivi. «Bisogna guardare la copia su carta per sapere che cos'è apparso sullo schermo al momento della telefonata. Senza indirizzo, non si riesce a capire chi ha chiamato.» «Ma non si poteva tirare fuori dal computer esattamente quello che si voleva sapere?» lo interruppi esasperata. «Lei sa qualcosa sul conto dei mainframe?» Ovviamente non ne sapevo nulla. Si guardò in giro. «Nessuno in questa baracca sa un accidente di mainframe. Abbiamo uno specialista al piano di sopra. Solo che capita che in questo momento è andato al mare. L'unico modo per fare venire un esperto è quando c'è un guasto. Allora chiamano l'assistenza e il Dipartimento si becca una stangata di settanta dollari l'ora. Anche se il Dipartimento volesse collaborare, i cervelloni dell'assistenza sono lenti a venire come il giorno di paga. In questo caso, probabilmente arriverebbero domani sul tardi, o lunedì, o chissà quando la settimana prossima e questo se la signora fortuna ci assiste, dottoressa. In realtà, lei è stata fortunata che sono riuscito a trovare qualcuno abbastanza sgamato da premere il tasto Print.» Rimanemmo nel locale una trentina di minuti. Finalmente, la stampante si arrestò e Marino strappò la carta. Era una pila alta una novantina di centimetri circa. La infilò in uno scatolone di carta vuoto che aveva trovato da qualche parte e lo sollevò con un grugnito. Mentre io uscivo dietro di lui dalla sala radio, Marino disse, rivolto a un giovane poliziotto nero di bell'aspetto: «Se vedi Cork, ho un messaggio per lui». «Spara» disse il poliziotto sbadigliando. «Digli che lui non li guida più, gli autoarticolati, e che qui non siamo mica in Il bandito e la madama.» Il poliziotto rise. Una perfetta imitazione della risata di Eddie Murphy. Per un giorno e mezzo non ebbi neanche il tempo di vestirmi, ma rimasi reclusa in casa con addosso una tuta e un paio di cuffie. Bertha si dimostrò un angelo e portò Lucy in gita tutto il giorno. Evitai di andare in ufficio, dove ero sicura di venire interrotta ogni cinque minuti. Stavo correndo contro il tempo, pregando di trovare qualcosa prima che il venerdì diventasse sabato. Ero convinta che lui si sarebbe messo di nuovo in caccia. Avevo già controllato due volte con Rose. Mi aveva detto che l'ufficio di Amburgey aveva tentato di contattarmi quattro volte, da quando mi ero allontanata con Marino. Il commissario esigeva che mi recassi da lui immediatamente, che gli spiegassi l'articolo in prima pagina del giorno prima, "quest'ultima imperdonabile indiscrezione", per usare le sue parole. Voleva la relazione sul test DNA. Voleva la relazione su "quest'ultimissima prova". Era talmente incuriosito che era addirittura arrivato a minacciare Rose, la quale però sapeva come difendersi. «Che cosa gli hai detto?» le domandai stupita. «Gli ho detto che avrei lasciato un messaggio sulla tua scrivania. Quando ha minacciato di farmi licenziare se non lo mettevo in contatto con te immediatamente, gli ho detto che era libero di farlo. Non avevo mai querelato nessuno prima...» «Visto altre volte?» chiesi, sconcertata. «Visto Amburgey altre volte? A fare cosa?» Wingo si chinò e disse a bassa voce: «Visto fumare, dottoressa Scarpetta». Si raddrizzò. «Lo giuro. A fine mattinata e subito dopo pranzo, Patrick e io eravamo lì seduti in macchina, nella macchina di Patrick, a parlare, ad ascoltare un po' di musica. Abbiamo visto Amburgey entrare nella sua New Yorker nera e accendere una sigaretta. Non usa neanche il suo portacenere perché vuole che nessuno lo sappia. Non faceva che guardarsi intorno. E poi ha buttato la cicca dal finestrino, si è guardato in giro ancora un po' ed è tornato dentro, spruzzandosi un po' di deodorante in bocca...» Mi fissò, sconcertato. Ridevo così forte che mi scendevano le lacrime. Doveva essere un attacco isterico. Non riuscivo a smettere. Picchiavo i pugni sul piano della scrivania e mi asciugavo gli occhi. Ero sicura che mi sentivano in tutto il corridoio. Wingo attaccò a ridere, prima a disagio, poi anche lui senza più riuscire a smettere. Marino ci lanciò un'occhiataccia come se fossimo degli idioti. Poi lottò a sua volta per non sorridere. Un attimo dopo soffocava le risate sulla sua sigaretta. Finalmente Wingo proseguì: «Il fatto è...» respirò a fondo. «Il fatto è, dottoressa Scarpetta, che ho aspettato fino a quando ha finito la sigaretta e poi quando se n'è andato sono corso lì a raccogliere il mozzicone. L'ho portato su subito in sierologia, da Betty per farle fare il test». Ansimai. «Hai fatto cosa? Hai portato il mozzicone da Betty? Era quello che portavi l'altro giorno? Per fare cosa? Fare il test della saliva? A che scopo?» «Il gruppo sanguigno. E' ab, dottoressa Scarpetta.» «Mio Dio.» Il collegamento fu fulmineo. Il gruppo sanguigno del perk con l'etichetta sbagliata che Wingo aveva trovato nel frigorifero delle prove era ab. Il gruppo ab è estremamente raro. Corrisponde solo al quattro per cento della popolazione. «Continuavo a pensare a lui» spiegò Wingo. «So quanto la, ehm, odia. Mi ha sempre dato fastidio vedere che la trattava così male. Così ho chiesto a Fred...» «Il sorvegliante?» «Proprio. Ho chiesto a Fred se aveva visto qualcuno. Sa, se aveva visto qualcuno andare nel nostro obitorio e qualcuno che non aveva motivo per andarci. Ha detto che aveva visto un tizio il lunedì pomeriggio. Fred stava cominciando il suo giro ed era andato un attimo al cesso giù di sotto. Mentre viene fuori vede questo tizio bianco che entra, che entra nel cesso, voglio dire. Fred mi ha detto che il tizio aveva qualcosa in mano, un pacchettino di carta. Fred si è limitato a uscire, e ha continuato con le sue faccende. «Amburgey? Era Amburgey?» «Fred non lo sapeva. Ha detto che quasi tutti i bianchi per lui sono uguali. Ma ricordava questo tizio perché aveva un bellissimo anello d'argento con una pietra blu. Un tizio un po' vecchio, magro, quasi calvo.» Fu Marino a fare l'ipotesi. «Quindi magari Amburgey è andato alla toilette e si è preparato un tampone...» «Sono orali.» Ricordai. «Le cellule trovate sui vetrini. E niente corpi di Barr. Cromosoma y, in altre parole maschio.» «Mi piace moltissimo quando parla sporco.» Marino sorrise rivolto a me e proseguì: «Così si fa un tampone in mezzo alle guance, non sotto i pantaloni, speriamo. Sporca dei vetrini di un perk, ci schiaffa su un'etichetta...». «Un'etichetta presa dal fascicolo di Lori Petersen» lo interruppi nuovamente, questa volta incredula. «E poi lo infila nel frigo per fare credere che lei ha combinato il casino. Diavolo, magari è stato lui anche a violare il computer. Incredibile.» Rise di nuovo. «Ma non è una meraviglia? Lo inchiodiamo!» Il computer era stato violato durante il fine settimana. Wesley aveva notato i comandi sullo schermo il sabato mattina quando era venuto a prendere i risultati dell'autopsia di McCorkle. Qualcuno aveva cercato di richiamare il caso Henna Yarborough. Ovviamente era possibile rintracciare chi aveva fatto la telefonata. Aspettavamo che la società telefonica informasse Wesley dell'esito della ricerca. Avevo pensato che fosse stato McCorkle a farlo il venerdì sera, prima di venire da me.