/<1995>/ Se l'avesse spinta più o meno nella direzione giusta, sarebbe senz'altro entrata! Le automobili dovrebbero essere costruite in modo da non sentire quel rumore stridente. Comunque, pensava Gerda imboccando la salita di Mersham Hill, questa volta non aveva guidato troppo male. John ancora assorto nei suoi pensieri non aveva fatto caso al grattare delle marce mentre passavano per Croydon. Con ottimismo, mentre l'auto guadagnava velocità, passò in terza e subito la macchina rallentò. John rialzò il capo di scatto. «Che cosa ti viene in mente di cambiare proprio al principio della salita?» Gerda non rispose. Fra poco sarebbero arrivati. Non che lei lo desiderasse! Avrebbe preferito guidare ore e ore, anche se John avesse dovuto perdere la pazienza con lei! Ora correvano tra i boschi, rosseggianti nella loro veste autunnale, verso Showel Down. «Che differenza tra Londra e qui» disse John. «E pensare che tante volte, al pomeriggio, ci chiudiamo in quel salotto buio a prendere il tè, magari con la luce accesa.» L'immagine del suo quieto salottino balenò alla mente di Gerda come un miraggio. Oh, poterci essere in quel momento! «La campagna è magnifica» ammise eroicamente. Ormai erano arrivati. La vaga speranza che qualcosa, non sapeva nemmeno lei che cosa, potesse intervenire a salvarla dall'incubo, era svanita. Si sentì un po' confortata, arrivando, nello scorgere Henrietta seduta sopra un muricciolo con Midge e con un uomo alto e magro. Aveva una certa fiducia in Henrietta, che spesso, quando le cose si mettevano male, l'aiutava in modo inaspettato. Anche John fu contento di vedere Henrietta. Gli apparve come il tocco finale al meraviglioso panorama autunnale: scendere dalla collina e trovarla ad aspettarlo. Indossava un tailleur verde di tweed che a lui piaceva tanto e che le donava molto più degli abiti che portava a Londra. Le sue lunghe gambe sporgevano davanti a lei per terminare in grosse scarpe di cuoio marrone. Scambiarono un rapido sorriso, che diceva come ognuno dei due fosse felice della presenza dell'altro. John non desiderava parlarle, adesso. Gli bastava sapere che era lì, perché senza di lei il week-end sarebbe stato noioso e vuoto. Lady Angkatell si fece sulla soglia per accoglierli. Sentendosi in difetto fu assai più cordiale con Gerda di quanto non lo fosse di solito con i suoi ospiti. «Che bellezza averti qui, Gerda, dopo tanto tempo! Ed anche John!» L'intenzione era che Gerda e non John figurasse come l'ospite attesa con ansia, ma l'effetto fallì miseramente. La signora Christow s'irrigidì in una espressione goffa e mortificata. «Conoscete Edward Angkatell?» riprese Lucy. «Non mi pare.» John fece un cenno a Edward. Il sole faceva brillare i bei capelli dorati e gli occhi azzurri del medico. Aveva lo sguardo fiero di un vichingo appena sbarcato durante una conquista. La sua voce era calda e armoniosa e il fascino della sua personalità dominava la scena. (Solo Lucy non lo subiva sottolineando così il proprio carattere elusivo.) La figura di Edward, in contrasto con la prepotente vitalità di John, parve quasi sbiadire, divenire opaca. Henrietta portò Gerda a fare un giro nell'orto. «Lucy» le confidò allegramente «vorrebbe farci vedere solo il giardino, ma secondo me nell'orto si sta proprio bene. E' tanto grazioso e quieto! Si può sedere sulle casse che riparano i cetrioli o entrare in una serra se fa freddo. Nessuno ci disturberà e magari troveremo anche qualcosa da piluccare.» Scoprirono dei piselli che Henrietta mangiò crudi. Gerda non volle assaggiarli, era ben felice di essere sfuggita a Lucy Angkatell, che le era parsa più inquietante che mai. Cominciò a parlare con Henrietta, con entusiasmo. Con lei si trovava a suo agio perché parlava sempre di cose a cui sapeva rispondere. Dopo dieci minuti cominciò a sentirsi meglio e a pensare che, dopo tutto, forse aveva avuto torto a preoccuparsi tanto per quel week-end. Zena ora andava alla scuola di ballo. E ho capito poi che, siccome la Mears è mancina, lo tiene con la testa dall'altra parte!» Guardò trionfante i suoi interlocutori. «Mah» pensò l'ispettore «può anche darsi che ci sia della gente simile.» Ma non era ben sicuro che non si trattasse di una sfilza di bugie. La sguattera, per esempio, aveva detto chiaramente che Gudgeon aveva in mano un revolver. Però, non ci si poteva fare un grande affidamento: la ragazza non ne sapeva nulla di armi da fuoco. Aveva sentito parlare di un'arma nel delitto e revolver o pistola per lei era tutt'uno. Sia Gudgeon sia lady Angkatell avevano invece indicato la Mauser, ma nulla provava elle dicessero la verità. Poteva darsi che Gudgeon avesse avuto in mano il revolver mancante, e lo avesse riportato non nello studio ma alla sua padrona stessa. Tutti i domestici parevano completamente istupiditi da quel diavolo di donna. E se fosse stata proprio lei a uccidere Christow? (Ma perché? Per quale motivo avrebbe dovuto farlo?) I domestici l'avrebbero spalleggiata e avrebbero mentito in suo favore? Grange aveva paura di sì. E ora anche questa storia di lei che non riusciva a ricordare: certo, sarebbe stata in grado d'inventare qualcosa di meglio. E sembrava così sincera e per niente imbarazzata o preoccupata. L'ispettore si alzò in piedi. «Quando, si ricorderà qualcos'altro, voglia comunicarcelo» disse seccamente. «Ma certo, ispettore. Le cose tornano in mente quando meno ci si aspetta.» Grange uscì. Quando fu nell'atrio, si mise un dito nel colletto per allargarlo e respirò forte. Si sentiva la testa tutta ingarbugliata: aveva proprio bisogno d'una bella bistecca con patate, d'un boccale di birra e della sua vecchia pipa. Qualcosa, insomma, di concreto e di semplice. «Perché avevi preso quella pistola, Lucy» chiese finalmente. «Ti assicuro che non lo so, Henry. Avevo forse la vaga idea che capitasse qualche incidente» disse sedendosi. «Incidente?» «Ma sì. Sai bene con tutte quelle radici d'albero sporgenti... è così facile inciamparci... Uno tira qualche colpo al bersaglio, e poi lascia un colpo in canna, naturalmente per disattenzione. La gente è così disattenta! Ho sempre pensato che un incidente è il modo più semplice per fare una cosa di quel genere. Naturalmente, poi, si è terribilmente addolorati, e ci si rimprovera...» S'interruppe. Suo marito non le toglieva gli occhi di dosso. «A chi sarebbe dovuto toccare... l'incidente?» Lucy lo guardò sorpresa: «A John Christow, si capisce. Oh, Henry, ero talmente preoccupata per Ainswick!». «Capisco. Te n'è sempre importato troppo di Ainswick. Penso spesso che sia la sola cosa di cui t'importi.» «Edward e David sono gli ultimi degli Angkatell. E David non va. Non si sposerà mai, a causa di sua madre e di tutto il resto. Alla morte di Edward erediterà lui la tenuta. Noi saremo già morti prima che compia cinquant'anni.» «Ma ha proprio tanta importanza?» «Lo credo bene, che ha importanza: si tratta di Ainswick!» «Avresti dovuto avere un figlio, Lucy.» Sorrise lievemente perché non si immaginava sua moglie mamma. «Tutto dipende dal matrimonio di Edward. E Edward è così ostinato... proprio come mio padre. Io speravo che dimenticasse Henrietta e sposasse qualche brava ragazza, ma vedo che non c'è niente da fare. Speravo che l'affaretto tra Henrietta e John finisse alla svelta. «E allora si può sapere perché non menti un po' anche con me?» «Lo vorresti?», «Sì.» «Non me la sento.» «Eppure sai bene quello che vorrei sentirmi dire...» Però ora non doveva mettersi a pensare a Henrietta. L'avrebbe vista nel pomeriggio. Ora c'era da ricevere quell'ultima dannata cliente. Un'altra con un decimo di malattia e nove decimi di immaginazione! Ma dopotutto, perché non permettere loro di crogiolarsi nei propri malesseri, dal momento che pagavano per consultarlo? Servivano a bilanciare tutte le signore Crabtree del mondo. Rimase ancora fermo. Era stanco, tanto stanco. E c'era qualcosa di cui sentiva un bisogno immenso. Ad un tratto un pensiero balenò nella sua mente: "Voglio tornare a casa". Rimase stupito: che cosa significava questo pensiero? Da dove gli veniva? Casa? Quando mai aveva avuto una casa. I suoi genitori erano anglo-indiani e lui era stato sballottato da uno zio all'altro. La prima casa vera poteva dirsi questa in Harley Street. Ma poteva considerarla tale? Scosse la testa: sapeva che non era così. In un certo senso la cosa stuzzicava anche la sua curiosità di medico: che mai voleva dire quella frase che gli era balenata all'improvviso nel cervello? "Voglio tornare a casa." Qualcosa doveva pur voler dire. Socchiuse gli occhi, alla ricerca di qualche immagine dimenticata. E vide chiaramente dentro di sé, l'azzurro intenso del Mediterraneo, le palme, i cactus, e i fichi d'India. Sentì l'odore della sabbia ardente, ricordò il fresco delle onde sul corpo riscaldato dal sole. San Miguel!! Si sentiva inquieto e allarmato. Erano anni, ormai, che non pensava a San Miguel. Non voleva certo tornarci. Apparteneva a un capitolo ormai chiuso della sua vita. Dodici, no, quattordici, quindici anni prima. Era innamorato pazzo di Veronica, allora, ma sapeva che quell'amore non gli avrebbe portato nulla di buono. Veronica voleva tutto di lui, corpo ed anima. Era una grande egoista e non aveva scrupoli ad ammetterlo. Tutto quel che voleva doveva essere suo, ma lui no, non era riuscita ad averlo! Era scappato. Forse l'aveva trattata troppo male; a dire il vero l'aveva proprio piantata in asso. La verità era che lui voleva vivere la sua vita e Veronica non glielo avrebbe permesso. Lei voleva vivere la "sua" e tenersi John, in più. Era rimasta stupita quando lui aveva rifiutato di seguirla ad Hollywood. Stupita e sdegnata. Gli aveva detto: «Se proprio vuoi fare il medico potrai esercitare anche là. Ma che bisogno c'è? Tu hai già abbastanza da vivere, e poi ci sarò io che farò certamente un mucchio di quattrini». «Ma io amo la mia professione» aveva replicato lui con veemenza. «Lavorerò con Radley!» La sua voce entusiasta era piena di reverenza. «Quel vecchio tabaccoso?» sbuffò Veronica. «Quel vecchio tabaccoso, come lo chiami tu, ha fatto delle ricerche di valore mondiale sul morbo di Pratt.» «Che m'importa del morbo di Pratt? In California il clima è incantevole: sarà bello vedere un po' il mondo. Ma lo odierei senza di te. Io ti voglio, John: ho bisogno di te.» Allora lui aveva chiesto a Veronica (che proposta buffa!) di rifiutare le offerte di Hollywood, di sposarlo e di stabilirsi con lui a Londra. Lei si era dimostrata divertita della cosa, ma era stata irremovibile: doveva andare in America, ma siccome amava John, bisognava che John la sposasse e andasse con lei. Non aveva dubbi sulla sua bellezza e sul suo potere. Per John c'era solo una cosa da fare, e l'aveva fatta. Aveva sofferto molto, ma non aveva avuto dubbi sulla saggezza della sua decisione. Ritornato a Londra, aveva cominciato a lavorare con Radley, e un anno dopo aveva sposato Gerda, che era così diversa da Veronica. La porta si aprì ed entrò Beryl Collins, la segretaria. «C'è ancora la signora Forrester, dottore.» «Lo so.» «Credevo che se ne fosse dimenticato.» «Cosa t'è venuto in mente di fare quella statuetta a Gerda? Non è un lavoro da te. Dopo tutto tu fai sempre delle buone cose». «Non è proprio brutta. A Gerda è piaciuta molto.» «Si capisce. Gerda non distinguerebbe un quadro da una cartolina.» «Non è una cosa di cattivo gusto. E' solo un ritratto, senza nessuna pretesa.» «Ma tu di solito non perdi il tempo con cose simili...» Si era interrotto guardando una grande figura in legno alta circa un metro e mezzo. «E quello cos'è?» « E' per il Gruppo Internazionale. Legno di pero. L'ho chiamato "Figura Adorante".» John l'aveva osservato per qualche istante, poi un improvviso rossore di collera gli era salito alla fronte. Era infuriato. «Dunque è per questo che hai fatto venire qui Gerda, eh! Come hai osato?» «Non credevo che avresti visto...» «Visto? Certo che lo vedo. E' qui.» Aveva messo il dito sul muscolo del collo della figura. «Sì, erano il collo e le spalle che mi occorrevano. E quell'inclinazione in avanti, quell'aspetto sottomesso. E' meraviglioso.» «Meraviglioso? Guardami, Henrietta. Questa cosa mi secca molto. Gerda devi lasciarla stare.» «Gerda non lo sa. Non lo sa nessuno. Sai bene che non è possibile riconoscerla. E poi non è Gerda. Non è nessuno.» «Ma io l'ho riconosciuta, no?» «Tu sei diverso, John. Tu sai vedere.» «Ma non capisci che per me è una cosa insopportabile? Dov'è la tua sensibilità?» Henrietta aveva risposto lentamente: «Non capisci, John. Non puoi capire. Non sai cosa vuol dire aver sotto gli occhi quello che cerchi; veder continuamente quella data linea del collo, lo sviluppo dei muscoli, l'inclinazione della testa... Io li vedevo, tutte le volte che guardavo Gerda, e ne avevo bisogno! Alla fine non ho resistito». «Non si può dire che tu abbia molti scrupoli.» « E' vero. Ma quando si desidera intensamente una cosa bisogna riuscire ad averla.» «Sicché non te ne importa nulla degli altri, non t'importa di Gerda.» «Ma via, John! E' per questo che le ho fatto la statuetta. Per farla contenta. Non sono così disumana.» «Disumana! Ecco quello che sei!» «E poi, credi davvero che Gerda si riconoscerà mai?» John aveva guardato controvoglia la grande figura di legno. Per la prima volta la collera e il risentimento avevano ceduto all'interesse. Era una strana figura sottomessa, che offriva la sua adorazione a un'ignota deità, col viso volto verso l'alto, cieco, chiuso, devoto... stranamente forte, nel suo fanatismo... «Hai fatto una cosa che mi spaventa, una cosa tremenda, Henrietta.» «Sì, l'ho pensato anch'io.» «Ma cosa guarda? Chi?» aveva chiesto John seccamente. Henrietta aveva esitato, prima di rispondere, con uno strano tono di voce: «Non so. Credo che stia guardando te, John». Nella stanza da pranzo il piccolo Terry faceva un'altra dichiarazione scientifica: «I sali di piombo sono più solubili in acqua fredda che in acqua calda. Se si aggiunge joduro di potassio si ha un precipitato giallo di joduro di piombo». Guardò sua madre, ma senza troppa speranza. I genitori, secondo il giovane Terence, non erano molto incoraggianti. «Lo sapevi, mamma?» «Non so niente di chimica, caro.» «Sono tutte cose che si leggono nei libri» disse Terence. Era una semplice constatazione, ma con una punta di incitamento. Gerda però non se ne accorse, chiusa nel proprio sconforto. Era tutta la mattina che si sentiva oppressa, sin da quando, svegliandosi, si era resa conto che alla fine il temuto week-end dagli Angkatell era arrivato. «Non avrei messo l'arma nella siepe di casa mia.» «Si capisce, signor Poirot! Mi dispiace! Bene, comunque, adesso l'abbiamo trovato. Sembra proprio quello che manca dallo studio di sir Henry. Possiamo verificarne il numero. Poi vedremo se è l'arma che ha colpito Christow. Adesso sarà facile.» Con infinita cura e con l'aiuto d'un fazzoletto di seta trasse la pistola dagli arbusti. «Speriamo che ci siano le impronte. Ma ho speranza che finalmente la fortuna ci aiuterà.» «Mi faccia sapere qualcosa.» «Certamente, signor Poirot. Le telefonerò.» Poirot ricevette due telefonate. Una, quella sera stessa, era l'ispettore tutto giulivo: « E' lei, signor Poirot? Ci siamo, sa? E' proprio l'arma mancante dalla collezione di sir Henry e, per di più, quella che ha ucciso Christow. E' ormai certo. E c'è sopra una magnifica serie d'impronte. Pollice, indice e parte del medio. Non le avevo detto che la fortuna ci avrebbe aiutati?». «Ha identificato le impronte?» «Non ancora. Però non sono quelle della signora Christow: le avevamo e abbiamo potuto confrontarle. Sembrano più quelle d'un uomo che d'una donna, dalle dimensioni. Domani andrò a "La Cava" a fare il mio bel discorsetto e a prendere le impronte a tutti quanti. E poi, signor Poirot, sapremo a che gioco giochiamo.» «Lo spero» rispose l'altro, sempre compito. Il giorno seguente ebbe la seconda telefonata. La voce, dall'altro capo del filo, era molto calata di tono. «Vuole sentire l'ultima?» gracchiò lugubremente l'ispettore. «Quelle impronte non appartengono a nessuno! Proprio! Non sono di Edward Angkatell, né di David, né di sir Henry. E non sono né di Gerda Christow, né della Savernake, e nemmeno della nostra Veronica. Non parliamo di lady Lucy e di quella ragazza bruna! Naturalmente non sono neanche della sguattera, sorvolando su tutti gli altri servitori!» Poirot espresse la sua meraviglia. L'ispettore continuò: «Sicché, a quanto sembra, il delitto è opera d'un estraneo. Qualcuno che aveva una pendenza da regolare con Christow, e di cui noi non sappiamo un bel nulla. Un essere invisibile che ha prelevato le pistole dallo studio, e che dopo aver sparato se l'è svignata per il sentiero che porta allo stradone. E, per di più, ha messo l'arma nella sua siepe e poi è svanito nell'aria!» «Vuole prendere le mie impronte, caro amico?» «Non importa se voglio o no! Però, signor Poirot, è un fatto che lei era là al momento dell'assassinio e che, a dirla fra noi, il maggior indiziato in questo delitto è proprio lei!» Il magistrato si schiarì la gola e guardò con aria piena d'attesa il capo dei giurati. Questi fissò il pezzo di carta che teneva in mano. Il suo pomo d'Adamo andava su e giù per l'eccitazione: lesse ad alta voce e con chiarezza: «Risulta che il decesso è avvenuto per omicidio premeditato, ad opera di uno o più sconosciuti». Era l'unico verdetto ammissibile. Fuori, gli Angkatell si fermarono un momento a parlare con Gerda, e con sua sorella. Gerda portava ancora lo stesso abito nero. La sua faccia aveva la medesima espressione sbalordita e infelice. Niente Daimler, questa volta: il servizio ferroviario, aveva spiegato Elsie Patterson, era davvero ottimo. Un direttissimo per la stazione di Waterloo, e avrebbero potuto prendere benissimo il treno delle venti per Bexhill. «Non perdiamoci di vista, cara» mormorò lady Angkatell stringendo la mano di Gerda. «Magari potremo far colazione insieme, a Londra, un giorno o l'altro: penso che di tanto in tanto ci andrò per fare delle Spese.» «Io... io non so» balbettò l'altra. «Presto, c'è il treno» disse in fretta Elsie, e Gerda si allontanò con un'espressione di sollievo. «Povera Gerda» commentò Midge.