/<1993>/ Non stabiliscono un piccolo affetto di appartenenza reciproca nemmeno con il cavallo che li fa vagare, di solito superbo e come loro solitario, che caracolla greve ma come se non avesse soma in sella, come se si stesse avviando solo e spoglio e senza nessuno alla remota altra spanna davanti a sé per morire. E ora davanti a me era comparsa questa figura sbucata dal nulla in sella a un cavallo moreno, sulla fronte gli calava un sombrero bruciacchiato e dal collo in giù era coperto da un poncho che a tratti gli arrivava anche sulla bocca, l'ho guardato negli occhi e anche se non ho detto niente ho pensato che era venuto a uccidere il serpente e a portarmi in salvo. Mi guardava con immensi buchi d'un grigiore acceso e compassionevole, ma erano freddi, remoti, come visti su un'altitudine lontana, come incavi di un mascherone votivo sul portale di un tempio d'Eleusi; quello dell'indifferenza a cui ogni dolore troppo insormontabile si assuefà. Doveva pur vedere in che dramma mi stavo dibattendo attanagliata dall'orrore, una bambina ferita in un deserto di sterpi e di scorpioni, con un serpente velenoso che calcolava il tiro per non mancarmi e ormai a poche spanne da me, e il gaucho che fa, mi fissa, il poncho gli si scuote un poco attorno al mento, gira il cavallo e a passo d'uomo si allontana. E' stato il nostro cieco e pazzo dolore, il mio e il suo messi assieme, che mi ha dato la forza di schivare le fauci saettate verso la mia mano abbandonata nella sabbia e di svegliarmi dal maleficio della nenia metallica mettendomi a gridare per balzare in piedi, prendermi il braccio con l'altro e mettermi a correre, felice che il gaucho non mi avesse almeno fatto del male, non infelice perché non mi aveva fatto del bene. Ho raggiunto lo steccato della fazenda e i primi campesinos, la mamie mi ha portato in braccio fino a casa urlando e io avevo sentito nell'aria il rumore delle pale dell'elicottero di Ester e la pregavo di mettermi giù, ma la mamie non mi ubbidiva e mi portava davanti a mia madre, elegantissima, sapientemente truccata, con le piume di marabù color cannella tutte svolazzanti per via del vento sollevato dall'elica, e dalla sua smorfia di contrarietà capivo che si pentiva di non aver fatto in tempo a volare via prima e adesso sull'elicottero era costretta a portarci anche me per deviare verso l'ospedale dei bambini di Baires, e non so poi, così vestita, se abbia fatto comunque a tempo a fare quello che doveva fare in città. Non credo, credo di aver sconvolto i suoi piani o il suo tè, perché poi né è venuta a farmi visita né è stata lei a venirmi a riprendere, ma il calesse con la mamie. Doveva essere ancora arrabbiata con me, avevo messo in pericolo le prenotazioni sulla Virtud e addirittura tutto un rimpatrio e, forse, un appuntamento galeotto. E da allora è sempre stato così: la mia massima aspirazione era incontrare qualcuno che, anche se non era disposto a farmi alcun bene, non cercasse di proposito di aggiungere male al male. Ho preso possesso, cioè, dell'angoscia che mi viene ogni volta che devo dividere la solitudine con qualcun altro e vivo esacerbata dal continuo calcolo, attimo per attimo, su quanto male le avrà fatto una volta che ritornerà a essere di nuovo tutta mia. Ogni volta, per ogni storia, mi ritrovo in quel frangente preciso in cui con uno zoccolo si potrebbe schiacciare il serpente davanti alla mia mano tesa, lo zoccolo è alzato e potrebbe sia calcarsi sul serpente sia virare di fianco e prendere la marcia che lo porterà via, lasciando le cose come le ha trovate. L'amore è sempre stato questo per me: lo zoccolo alzato, e non sapere ancora qual è il nostro destino; può durare anni, è come fermare un fotogramma di un film che ti convinci di non aver ancora mai visto. Ma sai già qual è il fotogramma che viene dopo, e è tutto mio interesse accontentarmi di restare a terra senza, infine, essere ancora stata morsa, perché almeno sono eccitata dal pensiero inebriante della speranza, perché, come il film riparte, lo zoccolo non è mai andato a schiacciare la testa del serpente, il gaucho non è mai smontato da sella per raccogliermi e portarmi in salvo, e io, solo io, se voglio farcela, se voglio sopravvivere, devo farmi da me il mio Principe Azzurro, e correre a piedi verso la mia unica, vera salvezza di sempre: la mia indivisa solitudine. Invece, grandi fortune come quelle di Nonno Nasino e di Suo figlio Romeo - e anche nostre, in teoria - si mantengono solo gratis, legando a sé individui, famiglie, popoli, di loro spontanea volontà, imponendo con il carattere quei favori che accrescono la nostra fortuna e la loro disgrazia. Noi altri juniores, invece, siamo stati agevolati solo fintanto che abbiamo fatto vedere che, mentre la bocca chiedeva, la mano stava correndo al portafoglio. Tanto per dire del magnetismo del carattere di mio Nonno Nasino sulla gente (lui agganciava a sé sia gli uomini d'acciaio che quelli di paglia e distribuiva le parti uno per uno, secondo la lega, senza sbagliare mai), tutti i miei zii acquisiti, principessa Mafalda de' Malfatti compresa, sono stati succubi intronati del Suocero, di questo figlio unico di gabellieri sabaudi che solo da una generazione avevano perduto il gozzo nei ritratti a olio esposti negli Ospedali del Regno e nelle fotografie occasionali che Zio Romeo ancora conserva. Nessuna biografia, a parte la mia Sirena? Acciuga! stampata e subito fatta sparire, riuscirà mai a spiegare la forza di quest'uomo, già a trent'anni più insinuante del re e di ogni altro gerarca (Mussolini escluso) che ospitava Truman e Eisenhower e Himmler e Stalin e Churchill a Villa Lucy in un pot-pourri di vacanzieri in incognito a Forte dei Marmi, dove lui gli faceva trovare altro che Lili Marlene: gli faceva trovare la Alida, la Clara, la Caterina, la Ida, la Wanda - e forse anche la Edwige Fenech. Tutti sono passati di lì a cuccare in gran segreto: don Sturzo, Alcide De Gasperi, Almirante, Togliatti, Padre Balducci, Ignazio Silone, Maritain e, dall'avvento della prima repubblica in poi, ogni primo ministro - con portafoglio - e ogni presidente della repubblica quando Mafalda subentrò a Lucy nella gestione dei capanni. Anche l'attore Paolo Carlini e l'allora cardinale Giovanni Montini sono venuti in villa da noi a prendere la tintarella su una terrazza particolare, dove noi bambini non abbiamo mai potuto andare a mostrarci i nostri sviluppi: perché i due dovevano mostrarsi i loro arresti. E credete che quando Montini è diventato papa si sia fatto chiamare Paolo VI in memoria di Paolo di Tarso? Ma no, era per rendere omaggio urbi et orbi al suo diodamore, col quale stava da mattina a sera gobboni per l'entroterra a raccogliere le erbe per fabbricare la famosa China Montini, la china dei chinati da monda. Poveri Paoloni oni oni, che inferno deve essere stato per entrambi stabilire ogni volta a chi toccava chinarsi sull'erbetta più bassa e stare il tempo sufficiente per l'altro, dietro, a montargliela! Personalmente mi ricordo solo delle visite di re Faruk, visite non molto sbandierate nel milieu versiliese perché i Pastalunghi non hanno mai avuto molta simpatia per gli esuli, gli esiliati, i detronizzati e i perdenti in generale, ne sa qualcosa la Soraya, incontrata dalle zie, ma quasi di nascosto, solo al Café de Paris o fra i mostri sgretolati di Bomarzo. Quanto al Faruk d'Egitto, a Forte era ammesso perché si tirava dietro Ritina Hayworth, che Alfio si faceva un dovere di corteggiare e Romeo di portare a letto, «Come on, darl» l'ho sentito dirle una volta, «let's have a lesbian game», perché è stato lui a insegnarle a buttare i capelli all'indietro nella prima sequenza in cui appare in Gilda. La faccia rubizza e tozza del Senatore Pastalunghi Romeo senior sembrava scolpita nell'ardesia, con la pelle tendente al grigio secco e polveroso dei depositi morenici, involgarita dalla patina di perbenismo che mettono su i padri della patria quando diventano imbattibili nel battere le casse pubbliche a fini privati. Tanto per dirne una di queste virtù politico-teologali nel far passare il denaro dalle casse per il Mezzogiorno (Friuli-Venezia Giulia compreso) alle proprie trasmessa da Nonno Nasino all'Eletto: allorché mio Zio nella joint venture con le Cucine Scavolini, che voleva diversificare i suoi prodotti per la casa, nell''87 s'è messo a fabbricare elicotterini di massa, è riuscito a far promulgare la legge 113.789 di un decreto Bis, secondo la quale l'onere della costruzione di piste e annessi privati è detraibile al 100% dalle tasse. Ecco spiegato perché tutta la stampa estera fa le meraviglie. «E chi è la tua compagna di stanza?» le avevo chiesto una volta e lei, facendo il sorrisino tipico della furba che tanto furba non è, aveva risposto «Ma io non ce l'ho, io sono da sola e me ne sto per i fatti miei, e le suore sanno che faccio sul serio, io». Dunque, era una beniamina, una privilegiata dove è più difficile esserlo: fra le povere e miserabili. Almeno, a vedere come certe ragazze che entravano e uscivano dal Deledda andavano conciate: borchie, giubbotti di pelle, parka con strass, pellicce, bigiotteria da infarto, scarpe di Vuitton, tutti indumenti che ormai oserebbero portare solo le povere piene di complessi, solo chi, non avendo il necessario, butta via tutto nel superfluo. Solo le puttane, insomma. Caterina, arrivata fra le ultime, non era però l'ultima arrivata, si trovava meglio delle altre; certo, avrebbe potuto stare anche meglio, un po' meglio, ma io non avevo nessun diritto di sconvolgere la sua economia esistenziale e lei non ha saputo della mia «garcière» se non quando era già diventata il mio appartamento preferito, né ha mai saputo che, se non l'avessi amata come l'ho amata dal primo momento, sarei stata impulsiva come ai bei tempi e l'avrei sistemata lì dopo neanche ventiquattro ore che la conoscevo - non starò lì a dirvi le serrature che ho dovuto far cambiare di punto in bianco in via Renzo e Lucia per liberarmi dell'ultima intrusa che accampava diritti sulle mie promesse locatarie fatte in un momento di sballo. Quanto alla drogheria, non avevo paura di incorrere nelle ire e nel disprezzo culturale di Caterina, ho tirato fuori la mia De Agostini a pressione e buttato ogni rimasuglio di bustina nel cesso e ho tirato lo sciacquone, tanto è plastica sigillata, se proprio proprio svito il tubo e recupero. Invece, quanto a alzare il gomito coi superalcolici, devo riconoscere a me stessa che da quel giorno del fioretto ho fatto qualche fatica a astenermi completamente dal bere, sino a svuotare nel lavandino la mezza piena di Donnino, e a cena dalla Smeralda Pandispagna, mia compagna di sbornie dal Santo Domingo all'AfroClub al Jamaica, ho stupito tutte col mio colpo di fulmine per l'acqua minerale non gasata prima e poi rifiutando il cicchettino, che di solito è uno ogni quarto d'ora intanto che Rosellina trincia o Marianna li arrotola, proprio come trent'anni fa, e poche si rendono conto che Woodstock è finita da un pezzo e che sono ormai nonne o bisnonne mancate. A quella cena ovviamente non ho resistito alla tentazione di fare un accenno a colei che mi stava dando la forza di cambiare e di disintossicarmi, suscitando la morbosa curiosità che ci si può ben immaginare, perché nel loro ambiente medioelevato-alto puoi scopare con cani e porci ma, proprio come nelle parabole edificanti o fra le sartine di rione, appena queste magnate, industrialesse, troie maritate a grand commis, direttrici di giornali, economiste, pettegole con le rendite a vita hanno sentore di affetti e di amore vero, si scatenano come furie e ti danno l'assalto, anzi, non ti danno pace, parlano già degli effetti negativi che ciò avrà sulla Borsa - perché per loro è così: ogni amore altrui sul nascere corrisponde a uno dei loro già finito. Questi puttanoni che erigono la verità col pettegolezzo fanno di tutto per demolire i tuoi sentimenti e cominciano col farsi gioco di te, non paghe fino a che tu non sia ritornata una di loro, bolse chiacchieratrici di insulsi atti fisiologici, di prodezze erotiche esclusivamente da circo fra putredini di cui una paga e l'altra è pagata. Ma la mia fermezza le ha prese tutte in contropiede e, quando di Caterina ho detto solo «Si chiama come la Patrona d'Italia» mantenendomi vaga su tutto il resto, si è scatenata la caccia a chi la snidava per prima e riportava alle altre (e alla Ripussi, e a mia madre...) le notizie sul bottino di guerra. Forse mi sono dilungata un attimo di troppo su Caterina e la sua uscita da Bice con LIGRESTI e Calimeri e gli altri due e allora mi sono lasciata sfuggire «Ma guardate che non c'è niente di strano, l'ha già vista anche la Unpò, e la Camillucci, abbiamo fatto uno spuntino insieme alla Liber l'altro giorno». Guai a amarli sinceramente come uomini senza onorarli di alcun calcolo segreto attorno al loro marchio di fabbrica! Prima di tutto non capiscono, poi ti mollano e poi, non capendo perché l'hanno fatto, capiscono che l'unica cosa che vogliono è sempre quella: essere amati per ciò che non sono, cioè se stessi. Da qui si può evincere in che menti equilibrate il mondo ripone le sue sorti: in una manica di spostati che anche quando manipolano il mondo dopo trenta secondi sono già altrove con la testa. Dove? Ah, questo non si sa. E io da bambina ho avuto questa intuizione: o diventare una di loro o fare qualcosa per distruggerne un po'. Perché è chiaro: l'Eletta oggi sarei potuta essere io, solo io. Ma al delirio di potenza ho preferito il delirio di impotenza e, a parte che ci sono crepata, non ho rimpianti. Grazie, nonna Laudomia, che dunque hai avuto il tempo di togliere il coperchio alla pignatta del diavolo con dentro la segreta mattanza, il sangue rosso occultato nel bianco e nel nero delle partite doppie dei Pastalunghi, quella mattanza originaria che, chissà poi perché, ti terrorizza e fa di te una suocera infida, dall'odio inestirpabile, forse perché in questa mattanza non ti lasciano entrare neppure da una barchetta di servizio? Tu, che davi ancora le bacchettate sulle dita e sui garretti della Pomara fino al giorno prima che, stavolta per sempre, si facesse come sempre in due per te e in quattro coi pappagalli, ti prendi a cuore la sorte dei delfini sacrificali, come neanche una vestale del Greenpeace quarant'anni più tardi. Ma va'! La vecchia strega elabora, nelle poche e innocenti sillabe del mio nome, tutto un disegno di ira funesta contro i Pastalunghi allorché i soli delfini che, secondo me, abbia mai visto prima non li vede dalla Virtud ma proprio in quella filmina alla buona che terrà via o ripescherà quattro anni dopo la mia nascita per entrare con me nel salottino giallo del ricamo e delle civette di Fabrizio Unno e agitare finalmente la fiala e far agire in me il veleno instillatomi al momento del battesimo. Inoltre, contro questa versione per come Ester la stava ripetendo per la terza volta me presente alla Madonnina, c'è il fatto genetico che, gesti estenuati da Tardi Telefoni Bianchi a parte, lei ha mantenuto la tempra montanara dei Pastalunghi col gozzo: la signora Unno Cavamarmi Pastalunghi ha portato a termine le sue due prime gravidanze nuotando dall'imbarcadero di Villa Lucy a Forte dei Marmi a quello di Marina di Pietrasanta e ritorno fino a quattro giorni prima di ogni parto. Non era certo una traversata di dieci giorni all comforts sulla Virtud che avrebbe potuto piegarla al vomito, occorreva una cosa ben più complicata: per esempio I cantos pisani di Ezra, troppo farraginosi per chiunque non fosse Pound, che lei trovava "indigesti" - saccente Ezra, saccente Ester, è stata l'unica volta in vita sua che abbia azzeccato un giudizio letterario, anche se non si capacitava come uno che parlava così sensatamente alla radio potesse poi scrivere cose così confusionarie e "indigeste" sulla carta. Anche se poi Ezra era pur sempre un poeta scicchissimo e lo sa solo lei quanti tramezzini caldi e gocciolanti - almeno quanto lei, che andava in brodo di giuggiole per tutto ciò che è poetico e romantico - gli abbia portato nel suo cestino da Cappuccetto Rosso quando entrava a ascoltarlo dal vivo nella stazione radiofonica da cui il Grande Fabbro martellava i suoi vaniloqui filonazisti. In questo, Ester è stata tale e quale a Lucy, che aveva solo passioni artistiche e aveva arricchito la già ben ubertosa flora tutta libresca del D'Annunzio quando il Vate non ce la faceva più a tener testa ai creditori; Lucy aveva incatramato anche le già tremende e oleose pagine del Malaparte che, quanto ai bisogni più impellenti del carnet creditori, si rivolgeva direttamente al mecenatismo di Nonno Nasino; Lucy aveva dato allo Stecchetti spunti piccanti e un po' macabri su certe attaccature delle sue vene varicose e camionate gratis di scatolette di Mangio Moderno alle due botteghe di certi suoi parenti poveri veronesi. Per farla corta. Nonna Lucy era troppo femminile per non pagare gli uomini, purché fossero dei poeti. Coperte fino a metà coscia dalla minigonna in lamé d'argento con cintura a fascia dietro a forma di coda di sirena e che stava già perdendo qualche scaglia dell'imperlinato, certo per via della sella del motorino. Chiusissimo davanti fino al collo e coi seni in tutto il loro fulgore e agio, dietro era scoperto fino a dove non è riuscito a stabilirlo ancora nessuno. Ma ogni party a suo tempo. Un bel po' di tempo prima del Grande Party da cui tutta la società milanese che conta sarebbe uscita trasfigurata dalla grazia di una giovane sconosciuta, timidissima e bellissima - chissà perché Caterina ha detto a Agatino Battilocchio che c'è andata da sola in motorino: c'è venuta con me in auto, anzi, sono stata io a costringerla a andare dal parrucchiere per la seconda volta in vita sua, ricordo benissimo la Chicca al telefono «Ma certo cara che l'invito è per due, porta chi vuoi! Anche un maschio, se appena puoi... No, no: per me» - ho dato io un party, morigerato, a Palazzo Borromeo, Ester era andata a Sydney a un convegno con Germaine Greer invitata da Franka Arena e da altre femministe aborigene, la Ripussi ne aveva certamente approfittato, pensavo, per prendersi una vacanza (lei, che non lavora mai) e accompagnare il suo nume tutelare, e io potevo in tutta tranquillità ricevere come mi pare e piace, senza tanti formalismi. Certo, party ristretto, dei più coraggiosi, perché pochi vogliono inimicarsi la Senatrice (se non ci sono presentatrici, fotomodelle e artdirector femmine di mezzo) e prendere parte ai normalissimi party che do io a casa mia. Poi c'è anche da dire che non eravamo ancora fuori dall'inverno e che a fine aprile, che festeggiavo il mio compleanno con quasi un mese di ritardo, faceva freddissimo, a Cortina era caduta tanta di quella neve artificiale che un sacco di gente aveva preferito restare a sciare e ha dovuto declinare l'invito. A farla breve: saremo state cinque gatte persiane e un paio di chihuahua di allevamento più alcuni faccendieri specifici, però tutte in ghingheri, si preferiva l'eleganza, eravamo tutte stufe del casual, che non va bene per commentare i rapimenti di lusso che si stavano abbattendo su Milano. Francamente, a parte il personale negro della Pranzotti che la O'Hara presta a Calimeri che lo presta a Scognamiglio che lo presta alla Pranzotti che lo presta a me, mi seccava che una ragazza abituata come Caterina a fare lavori di casa qui e là, e pratica di sala, restasse con le mani in mano solo a casa mia, Gheddafi non vuole avere gente attorno che gli ricordi la tribù eritrea e non mi viene quando do una cena senza seguito e io stessa, visto che la Anna Falck del Cairo non mi ha prestato i suoi cuochi rumeni, ho dovuto trascorrere più di due ore ai fornelli solo per togliere la carta stagnola ai pacchetti di El Toulà Catering; speravo che Caterina mi aiutasse almeno a preparare la tavola, che si mettesse a fianco del negro somalo o rottinculo, non so. Macché. Per essere arrivata in anticipo, è arrivata, ma, dopo essermi divincolata dalla sua stretta e dal suo tentativo di baciarmi in bocca, per non dire in gola, tenendomi prigioniera fra le sue braccia, si è buttata nella lettura di Foemina Foeminae, il mensile illustrato alternativo a che non si sa, si è versata un bel bicchierone di arancia e papaya, si toglieva le scarpe, la camicetta e la gonna, si infilava una mia vestaglia che le arriva sopra il ginocchio e è venuta in cucina a scoperchiare le pentole di fagioli e cotiche socchiudendo gli occhi dal piacere e sospirando ai profumi della cassola precotta. Le ero grata di apprezzarmi come cuoca, visto che ancora persisteva a non prendere neppure in mano uno dei miei libri di nuovo nella vetrina dell'entrata in bella mostra. Rinnovavo le copie ogni volta che mi dimenticavo di farle sparire dalla vista della Ripussi, che va e viene a casa mia come fosse casa sua, visto che ha il beneplacito di mia madre e, forse, già un contratto di successione di proprietà. Perché, ovvio, potrebbe anche essere stata la Ripussi a far manomettere asse e freni della mia Zil Bentleyata, non è certo stata Caterina solo perché avevamo litigato e è stata l'ultima a avere a che fare con la mia auto. Così quella sera Caterina, per la prima volta dopo tante toccate e fughe in pizzerie famose e qualche cena in privato, si ritrovò gomito a gomito con ospiti quali la Camillucci. Ora Ester si schiariva la voce e diceva a una Caterina sempre più esterrefatta e, forse, lusingata: «Ne ho accompagnati tre in due anni, sa? Al cimitero. Tre. Almeno questi so dove sono», concludeva cercando di mettere in evidenza l'incipit di una lacrima spremuta non so da dove e cercando un fazzoletto da pianto che non ha. Mica è vera la faccenda che ci ha accompagnato al cimitero, è solo un modo di dire, lei non ha accompagnato né Tanghita né Gionata né me. Ester Pastalunghi è come la Chiesa Cattolica: non ti fa mancare niente nella morte ma ti toglie tutto prima e ti dà il minimo indispensabile dopo: l'Aldilà. Nel mio caso, l'Aldilà a Lambrate. Diventa punitiva solo se fai il Lazzaro e, dopo tante inutili cure e estreme unzioni, ritorni in vita a spaccare i marroni. Poi mi sono ritrovata al polso l'orologino di Caterina, alla quale mia madre permetteva questa familiarità come a chiudere un occhio, e con quello sono stata inchiodata e sotterrata. E' l'ultima follia della Swatch e è senza dubbio l'orologio meno preciso o più approssimativo del mondo, per un semplice motivo: non ha cifre e non ha lancette, al loro posto soltanto una ruota con quattro raggi che ogni 24 ore compie due giri su se stessa. Al centro c'è un trio di animaletti, due galline a zampe all'aria sul dorso di un delfino che, spostandosi con la ruota, fanno capire che il tempo passa. Ma quanto tempo passa? Ah, questo non si sa, questo è giustamente il mistero. E' il modello Wheel Animal. Da quando Caterina l'ha ricevuto dalla Unpò Bertolli a adesso che si trova dentro da me, è diventato davvero più prezioso di un Cartier: roba fine da collezionisti, che sarebbe battuta a un centinaio di milioni anche dalla Financo Arte. Se mi rimuoveranno da Lambrate per portarmi in un cimitero più decente, sarà solo una scusa per sollevare il coperchio della mia bara in abete di terza e slegarmelo dal polso, lo sento. Poi si sono fatte entrambe il segno della croce. Però Ester adesso esigeva referenze specifiche, «Ma lei, per maestra di cappella, intende anche che guiderebbe una banda municipale coi timpani e tutto, che so, un coro laico?», ha chiesto. Caterina, che si era già scordata dell'argomento e che, lei sì, è una che davvero non sa chiedere niente, ha detto impappinandosi ma ferma, «No, no, deve essere un coco coco coco ro per funzioni religiose particolari, celebrative, un coo coo coo ro di chiesa religiosa, privata. Non scherziamo, Senatrice. Di caca caca ca...», «Di cappella?», «Per l'appunto», e mia madre ha capito che tutto ciò che chiedeva quella balbuziente piena di timor di Dio in cambio di ogni possibile passata e presente e futura omertà era un manipolo di castrati, magari da prendere fra quelli in cassa integrazione già in sovrannumero fra le comparse al San Valentino. Non era molto per una appena derubata di otto miliardi che perdeva una manica dall'impermeabile. Ester stentava a credere alle proprie orecchie - e anch'io - e per un attimo ha guardato Caterina in cagnesco, ha sospettato che la giovanotta fosse più furba di lei e parlasse per codice cifrato, che intendesse far capire altro, che in quel delirio così ordinato che pareva pentagrammato da lei stessa se non lo fosse stato dalla sua interlocutrice, c'era un ricatto per ora inimmaginabile, magari con un uomo o una banda nell'ombra, e non certo il Battilocchio e quella dell'Avis Municipale coi timpani e il trombone. «Venga, le do uno strappo», ha detto Ester perentoria, e Caterina d'istinto è indietreggiata. Si rendeva conto che stava perdendo quasi mezza manica del suo ultimo impermeabile da inserto e tuttavia ha detto impaurita, «No, grazie, la rammendo anche stavolta» e Ester, che seguiva tutta un'altra strettoia di pensiero, «Col motorino?» e Caterina, «No no, a mano, ago e filo. Sono capace». Sia come sia, è riuscita a dare un passaggio a Caterina sulla stessa limousine che l'aveva prelevata dal Banchettificio Verdi, la Ripussi davanti con l'autista che non ha mai degnato di uno sguardo né prima né dopo per via dell'insopportabile odore di cannella.