/<1993>/ La nave calava dagli spazi cosmici; veniva dalle stelle, dalle nere lontananze, dai luminosi moti, dai golfi silenti dello spazio. Era un'astronave nuova; aveva fuoco nel corpo e uomini nelle cellule di metallo; si muoveva nel vuoto con purezza di silenzi, corrusca e calda. In tutto diciassette uomini, compreso il comandante. La folla sul campo astronautico dell'Ohio aveva urlato, agitando le mani in alto, nella luce del sole, e il razzo era sbocciato in grandi fiori ardenti e variopinti, fuggendo poi via nello spazio, terza trasvolata verso Marte! Ora stava decelerando con metallica precisione nelle regioni superiori dell'atmosfera marziana. Era ancora una cosa bella e possente. Aveva navigato nelle notturne acque degli spazi come un pallido leviatano marino; era passato accanto all'antica luna, proseguendo poi nella sua caduta precipite da un nulla a un altro nulla. Gli uomini racchiusi dentro erano rimasti ammaccati, sbatacchiati qui e là, lo stomaco rovesciato, poi, uno a uno, si erano rimessi. Uno era morto, ma ora i sedici superstiti, con gli occhi limpidi nel viso e le facce premute contro gli spessi cristalli degli oblò, guardavano Marte ondeggiare sotto di loro. «Marte!» gridò Lustig, ufficiale di rotta. «Il buon vecchio Marte!» disse Samuel Hinkston, archeologo. «Bene» disse il capitano John Black. Il razzo calò su un prato ricoperto di verde erba. Su quel prato si ergeva un cerbiatto di ferro. Più oltre, ai margini del prato, sorgeva un'alta casa rossiccia in stile vittoriano, placida nel sole, tutta decorata di fronzoli e ghirigori rococò, le finestre variegate di vetri rosa, verdi, gialli. Sulla veranda gerani vellutati e un vecchio divano ad altalena che, agganciato sul soffitto, si dondolava dolcemente, avanti e indietro, avanti e indietro, nella lieve brezza. Una cupola sormontava la casa, con finestre a losanghe dai vetri piombati e il tetto a pan di zucchero. Dalle finestre della veranda si poteva vedere, sul leggio del pianoforte, uno spartito intitolato Meraviglioso Ohio. Attorno al razzo, nelle quattro direzioni, si stendeva la cittadina, verde e immota nella primavera marziana. C'erano case bianche e altre di rossi mattoni, grandi olmi fruscianti al vento, alti aceri e ippocastani. E campanili di chiese con dorate campane silenti. Gli uomini del razzo guardarono fuori e videro tutto questo. Si guardarono poi l'un l'altro e infine guardarono fuori un'altra volta. Si tenevano per il gomito, bruscamente incapaci di respirare, si sarebbe detto. I loro volti si erano fatti pallidi. «Che mi venga un accidente» mormorò Lustig, sfregandosi la faccia con dita intorpidite. «Che mi venga un accidente.» «E' impossibile» osservò Samuel Hinkston. «Gran Dio» disse il capitano John Black. Venne un richiamo dal chimico. «Comandante, l'atmosfera è molto rarefatta, ma l'ossigeno è sufficiente. Non c'è pericolo.» «Allora usciamo» disse Lustig. «Un momento» disse il capitano. «Che ne sappiamo di che si tratta?» « E' una cittadina con aria rarefatta ma respirabile, comandante.» «Una cittadina simile a quelle sulla Terra» osservò l'archeologo. «Incredibile. Non può essere, eppure è.» Il capitano John Black lo guardò oziosamente. «Lei ritiene, Hinkston, che le civiltà di due pianeti possano progredire di pari passo ed evolversi lungo le stesse linee?» «Non l'avrei mai creduto, comandante.» Il capitano Black stava ritto presso un oblò. «Guardi là. I gerani. Una pianta specifica. Quella particolare varietà è conosciuta sulla Terra da non più di cinquant'anni. Pensi alle migliaia di anni che sono occorsi all'evoluzione delle piante. E poi mi dica se le sembra logico che i marziani debbano avere: uno, finestre con vetri piombati; due, cupole; tre, dondoli da veranda; quattro, uno strumento che ha tutta l'aria di essere un pianoforte e quasi certamente lo è; e, cinque, guardi attraverso queste lenti telescopiche e mi dica se è logico che un compositore marziano abbia pubblicato una composizione intitolata, incredibilmente, Meraviglioso Ohio. Il che vuol dire che abbiamo un fiume Ohio su Marte!» «Il comandante Williams, naturalmente!» gridò Hinkston. «Che cosa?» «Il capitano Williams e il suo equipaggio di tre uomini! O Nathaniel York e il suo secondo. Con loro tutto si spiega!» Uno scalpiccio lieve e delicato si avvicinò per il corridoio e una signora dal volto soave, di una quarantina d'anni, vestita come doveva essere di moda nel 1909, aguzzò gli occhi su di loro. «Posso aiutarvi?» domandò. «Voglia perdonarci» disse il capitano Black indeciso «ma noi cerchiamo... cioè lei potrebbe esserci di aiuto...» S'interruppe. La donna lo guardò con occhi neri, perplessi. «Se vendete qualcosa...» cominciò. «No, aspetti!» esclamò Black. «Come si chiama questa cittadina?» Lo guardò dalla testa ai piedi, stupita. «Cosa intende con il suo come si chiama questo paese? Come può trovarsi in una città e non saperne il nome?» Il capitano aveva l'aria di chi ha una gran voglia di sedersi all'ombra di un melo ombroso. «Siamo forestieri qui. Vogliamo sapere come questa cittadina si trovi qui e come ci si trovi lei.» «Siete addetti al censimento?» «No.» «Tutti sanno che questa cittadina fu costruita nel 1868. E' un gioco?» «Oh, no, non un gioco!» esclamò il comandante. «Noi veniamo dalla Terra.» «Dal terreno, vuol dire?» chiese perplessa. «No, siamo venuti dal terzo pianeta, la Terra, a bordo di una astronave. E siamo atterrati qui, sul quarto pianeta, Marte...» «Questa» disse la donna, quasi si rivolgesse a un bambino «è Green Bluff, Illinois, sul continente americano, fra gli oceani Pacifico e Atlantico, in un posto detto mondo e, talvolta, Terra. Andatevene ora. Buongiorno.» Si allontanò trotterellando giù per il corridoio, facendo scorrere la fila di perline tra le dita. I tre uomini si guardarono l'un l'altro. «Apriamo a forza la porta a zanzariera» disse Lustig. «Non possiamo. E' proprietà privata. Buon Dio!» Sedettero sui gradini della veranda. «Non le è venuto il dubbio, Hinkston, che, chissà come, in qualche modo, abbiamo lasciato la rotta e che per caso siamo tornati indietro e finiti sulla Terra?» «Come avremmo potuto farlo?» «Non lo so, non lo so. Oh, Signore, ho bisogno di pensare!» Hinkston disse: «Abbiamo verificato ogni miglio dell'itinerario. I nostri cronometri dicevano il numero delle miglia. Abbiamo sorpassato la Luna e siamo andati oltre, nello spazio, ed eccoci qui. Ne sono sicuro: siamo su Marte». Lustig: «Ma supponiamo che per un incidente di natura spaziale o temporale ci siamo smarriti nelle dimensioni ritornando sulla Terra di trenta o quaranta anni fa?» «Oh, piantala, Lustig!» Lustig tornò davanti alla porta, suonò il campanello e chiamò verso le fresche, ombrose stanze: «In che anno siamo?» «Nel 1926, o bella!» disse la signora, che, seduta in una poltrona a dondolo, sorseggiava una limonata. «Avete sentito?» disse Lustig, volgendosi impetuosamente verso gli altri. «1926! Siamo tornati indietro nel tempo! Questa è la Terra!» Lustig sedette, e i tre uomini si lasciarono invadere dalla meraviglia e dal terrore di quella scoperta. Le loro mani fremevano spasmodicamente sulle ginocchia. Il capitano disse: «Non mi ci voleva una cosa come questa. Mi spaventa a morte. Come può accadere un fatto simile? Almeno avessimo portato Einstein con noi.» «Qualcuno in questa cittadina ci crederà?» disse Hinkston. «Stiamo forse giocando con qualcosa di pericoloso? Alludo al tempo. Non faremmo forse meglio a decollare e tornarcene sulla Terra?» «No. Non prima di aver tentato presso un'altra casa.» Superarono tre case, fino a una villetta bianca, sotto una quercia. «Voglio essere il più logico possibile» disse il capitano. «Non credo che abbiamo colto il nocciolo del problema. Supponiamo, Hinkston, come lei ha suggerito originariamente, che l'astronautica abbia avuto inizio molti anni fa. E che i terrestri, dopo un certo numero di anni di permanenza quassù, abbiano cominciato a provare nostalgia per la Terra. Prima una nevrosi leggera, poi una conclamata psicosi; infine la minaccia della follia. Che cosa farebbe lei, se fosse uno psichiatra, di fronte a un problema come questo?» Hinkston riflettè. «Ebbene, riorganizzerei la civiltà su Marte in modo da renderla ogni giorno più simile a quella terrestre. Se ci fosse il modo di riprodurre ogni pianta, ogni strada, ogni lago, perfino un oceano, io lo farei. Poi, mediante una vastissima forma di ipnosi collettiva, convincerei tutti gli abitanti di una cittadina di queste dimensioni che qui è la Terra, non Marte.» Rimase disteso, beato, lasciando librare i suoi pensieri. Per la prima volta la tensione della giornata fu messa da parte; poteva pensare logicamente ormai. Era stata tutta emozione. La banda, i volti familiari. Ma ora... Come? si domandò. Come poteva avvenire tutto ciò? E perché? A quale scopo? Per la bontà di qualche intervento divino? Dio era dunque così sollecito con i suoi figli? Come e perché e a quale scopo? Ripensò alle varie teorie proposte nella prima calura del pomeriggio da Hinkston e Lustig. Lasciò che ogni sorta di nuove teorie cadesse col peso morto di ciottoli nella sua mente, rotolando, rilanciando cupi riflessi di luce. La mamma. Il babbo. Edward. Marte. La Terra. Marte. I marziani. Chi viveva su Marte mille anni fa? Marziani? O le cose erano sempre state come erano oggi? Marziani. Ripetè la parola oziosamente, dentro di sè. Rise quasi ad alta voce. Gli si era presentata a un tratto una ridicolissima teoria che gli dette una specie di brivido. Una teoria da non prendersi veramente in considerazione, estremamente improbabile. Assurda. Da non pensarci più. Ridicola. Ma, si disse, supponendo per un momento... supponiamo per un momento che su Marte vivano dei marziani, abbiano visto venire la nostra astronave, abbiano visto noi dentro la nave e ci odino. Supponiamo ora, per gusto di ipotesi, che vogliano annientarci, noi invasori, noi intrusi, e che intendano farlo in modo molto abile, così da coglierci di sorpresa. Quale sarebbe il mezzo migliore di cui potrebbe servirsi un marziano contro terrestri dotati di armi atomiche? La risposta era interessante: telepatia, ipnosi, memoria e immaginazione. Supponiamo che tutte queste case non siano affatto reali, che questo letto non sia reale, ma solo frammenti della mia immaginazione, sostenuta da telepatia e ipnosi attraverso i marziani, si chiedeva il capitano John Black. Supponiamo che queste case abbiano tutt'altra forma, una forma marziana, ma, sfruttando i miei desideri e i miei bisogni, i marziani l'abbiano fatta apparire come la mia vecchia cittadina natia, come la mia vecchia casa, per acquietare ogni mio sospetto? Quale miglior sistema per ingannare un uomo dell'usare suo padre e sua madre come esca? E questa cittadina, così vecchia, che risale al 1926, molto tempo prima che fosse nato uno qualsiasi dei miei uomini? Che risale all'anno in cui, seienne, c'erano i dischi di Harry Lauder e i dipinti di Maxfield Parrish ancora appesi alle pareti, cortine di perline alle porte e Meraviglioso Ohio, e l'archittettura era quella di fine secolo? E se i marziani avessero attinto per i ricordi di una cittadina esclusivamente dalla mia mente? Si dice che i ricordi dell'infanzia siano i più nitidi. E dopo aver costruito la cittadina dalla mia mente, l'avessero popolata con le persone più amate tolte dalla mente degli uomini dell'equipaggio! E supponiamo che le due persone, addormentate nella stanza accanto, non siano affatto mio padre e mia madre, ma due marziani estremamente intelligenti, capaci di tenermi per tutto il tempo in questa ipnosi trasognata? E quella banda di ottoni oggi? Che piano straordinario, meraviglioso, sarebbe. Prima ingannare Lustig, poi Hinkston, poi riunire una turba di gente; e naturalmente, nel vedere madri, zie, zii, fidanzate, morti dieci, vent'anni prima, gli uomini di bordo, dimenticando gli ordini, si sarebbero precipitati fuori, abbandonando il razzo. Più che naturale! Più che innocente! Più che semplice! Uno non fa troppe domande quando si vede di colpo davanti la madre riportata d'improvviso in vita: è troppo felice. Ed eccoci tutti qui, stanotte, in case diverse, in letti diversi, senz'armi per proteggerci, mentre il razzo se ne sta ritto nel chiaro di luna, vuoto. E non sarebbe orribile, terrificante, scoprire che tutto ciò era parte di un vasto, astuto piano dei marziani per dividerci, conquistarci e infine ucciderci? A un certo punto, durante la notte, forse, mio fratello, qui nel letto accanto al mio, muterà forma, si scioglierà, cambierà per diventare un'altra cosa, una cosa terribile, un marziano! Sarebbe semplicissimo per lui girarsi nel letto e piantarmi un coltello nel cuore. All'alba, con quel piccolo sole che si levava sbiadito tra il nodo delle colline, si sarebbe alzato e, consumata in pochi minuti una fumosa colazione e calpestate le ceneri del fuoco, si sarebbe messo in cammino, zaino in spalla, a saggiare, scavare, porre sementi o germogli, battendo lievemente il terreno, annaffiando, riprendendo il cammino, zufolando, guardando il cielo limpido sempre più luminoso verso il caldo mezzogiorno. «Tu hai bisogno dell'aria», disse al suo fuoco notturno. Il fuoco era un compagno vivo e rossastro, che ti rispondeva crepitante, che ti dormiva vicino con i rosati occhi sonnacchiosi, caldi per tutta la gelida notte. «Tutti noi ne abbiamo bisogno. C'è un'aria sottile, qui, su Marte. Ci si stanca così presto! E' come vivere sulle Ande, nell'America Meridionale, ad alta quota. Inali l'aria e non ti entra nulla. Non soddisfa.» Si palpò la cassa toracica. In trenta giorni come era cresciuta! Per immettere più aria, tutti avrebbero dovuto costruirsi i polmoni. O piantare più alberi. « E' per questo che sono qui» disse, e il fuoco scoppiettò. «A scuola ci raccontavano la storia di Giovannino Semedimela che attraversò a piedi tutta l'America piantando meli. Ebbene, io sto facendo qualcosa di più: io pianto querce, olmi, aceri, ogni specie di alberi; pioppi, cedri, castagni. Invece di creare soltanto frutti per lo stomaco, fabbrico aria per i polmoni. Quando questi alberi avranno qualche anno, pensa all'ossigeno che fabbricheranno!» Ripensò al suo arrivo su Marte. Come mille altri, aveva lasciato spaziare lo sguardo nella pace del mattino e si era detto: "Qual è il mio posto qui? Che cosa farò? C'è un lavoro per me?". Ed era svenuto. Qualcuno gli aveva messo una fialetta di ammoniaca sotto le narici e lui, tossendo, aveva ripreso i sensi. «Starai benissimo» il medico gli aveva detto. «Che è successo?» «L'aria è molto rarefatta. Alcuni non ce la fanno. Credo che dovrai ritornare sulla Terra.» «No!» Si era levato a sedere e quasi subito aveva percepito che gli occhi si oscuravano, mentre Marte gli girava due volte intorno. Le narici dilatate, aveva costretto i polmoni ad aspirare profondamente il nulla. «Starò benissimo. Devo restare qui!» Lo avevano lasciato disteso a boccheggiare con orribili smorfie da pesce, a pensare: "Aria, aria, aria. Mi vogliono rimandare sulla Terra per colpa dell'aria". E aveva girato la testa a guardare in lontananza le pianure e le colline di Marte. Mentre metteva lo sguardo a fuoco, la prima cosa che aveva notato era stata la mancanza di alberi, non c'erano alberi, in qualunque direzione spingesse lo sguardo. La terra era tutta per se stessa, una landa di nera creta, su cui non c'era nulla, nemmeno l'erba. "Aria" si era detto, mentre il sottilissimo gas gli penetrava con un sibilo nelle narici. "Aria, aria." E sulle vette di quelle colline, o nella loro ombra, nemmeno presso i piccoli ruscelli, non un albero, non un solo filo verde d'erba. Naturalmente! Aveva sentito la risposta venir non dalla sua mente, ma dai polmoni, dalla strozza. E il pensiero era stato come una folata improvvisa di ossigeno puro, a ridargli forza. Alberi ed erba. Si era guardato le mani e le aveva girate. Avrebbe piantato alberi, erba. Ecco quale sarebbe stato il suo lavoro, battersi contro la cosa che gli impediva di stare su Marte. Avrebbe avuto la sua guerra orticola con Marte. Eccolo là il vecchio suolo e le sue piante così antiche da essersi logorate e distrutte. E se nuove forme vegetali fossero state introdotte? Piante della Terra, grandi mimose, salici piangenti, magnolie, magnifici eucalipti? Cosa sarebbe successo? Era inimmaginabile la ricchezza minerale sepolta nel suolo, inutilizzata da quando le antiche felci, i fiori, i cespugli, gli alberi avevano ceduto alla stanchezza, fino a morirne. «Tiratemi su!» aveva urlato. «Devo vedere il Coordinatore!» Lui e il Coordinatore avevano parlato per tutta la mattina delle creature che crescono e sono verdi. Sarebbero passati mesi, forse anni, prima che incominciasse una seminagione organizzata. Fino a quel giorno, viveri congelati arrivavano dalla Terra entro ghiaccioli volanti; qualche orto collettivo inverdiva nelle vasche delle idrocolture. Parve una cosa tanto remota, quando il padrone della valigeria udì la notizia nel bollettino della sera, ricevuto dalla lontana Terra mediante emissione di raggi fotofonici. Il negoziante sentì quanto fosse lontana. Un conflitto stava per scoppiare sulla Terra. Uscì per dare un'occhiata al cielo. Sì, eccola là. La Terra, nel cielo vespertino, scendeva con il sole dietro le colline. Le parole alla radio e quell'astro verde erano una sola medesima cosa. «Non ci credo» disse il negoziante. «Forse perché lei non si trova là» osservò padre Peregrine, che si era fermato per passare la serata. «Che cosa vuol dire, padre?» « E' come quando ero ragazzo» disse padre Peregrine. «Sentivamo parlare di guerre in Cina, ma non ci credevamo. Era troppo lontana. E ci moriva troppa gente. Era impossibile. Anche quando lo vedevamo al cinematografo non ci credevamo. Ebbene, ora è così di nuovo. La Terra è la Cina. E' tanto lontana da risultare incredibile. Non è qui. Non la si può toccare. Non si può nemmeno vederla. Tutto quello che vediamo è una luce verde. Due miliardi di esseri umani che vivono su quella luce? Assurdo! Guerra? Non sentiamo gli spari!» «Li sentiremo» disse il negoziante. «Continuo a pensare a tutta quella gente che doveva venire su Marte questa settimana. Quanti erano? Centomila, più o meno, in arrivo entro un mese o giù di lì. Che ne sarà di loro, se scoppia la guerra?» «Immagino che torneranno indietro. Occorreranno uomini sulla Terra!» «Be'» disse il negoziante «farò meglio a dare una spolverata alla mercanzia. Ho l'impressione che ci sarà una vendita straordinaria da un momento all'altro.» «Lei crede che tutti quelli già su Marte torneranno sulla Terra, se questa è la Grande Guerra che da anni ci aspettiamo?» « E' una cosa buffa, padre, ma sì, credo che tutti torneremo. Lo so, siamo venuti quassù per allontanarci da certe cose - la politica, la bomba atomica, la guerra, i gruppi di pressione, i pregiudizi, le leggi - lo so. Ma è ancora la nostra patria. Aspetti e vedrà. Quando la prima bomba cadrà sull'America, la gente quassù comincerà a pensare. Non sono qui da abbastanza tempo. Un paio di anni al massimo. Se fossero qui da quarant'anni, sarebbe diverso, ma hanno parenti laggiù e le città dove sono nati. Io, non ci credo più alla Terra, non riesco a figurarmela bene. Ma sono vecchio; non conto. Potrei continuare a stare qui.» «Ne dubito.» «Sì, penso che abbia ragione.» Rimasero sulla veranda a guardare le stelle. Finalmente padre Peregrine trasse alcune monete di tasca e le porse al negoziante. «Ora che ci penso, sarà meglio che mi dia una valigia nuova. Quella vecchia è in condizioni pietose...» «Che aspetto hanno?» domandò Michael. «Li riconoscerai subito, appena li vedrai» e il babbo sbottò in una risatina, mentre Timothy gli vedeva una pulsazione ritmica sulla guancia. La mamma era esile e morbida, con una gran treccia intessuta di capelli d'oro, trattenuta sulla testa da una reticella, con occhi che avevano la tinta delle fonde e fresche acque del canale, là dove scorrevano in ombra, quasi viola, con pagliuzze d'ambra intrappolate dentro. Potevi vedere i suoi pensieri galleggiarle negli occhi, come pesciolini: alcuni lucenti, alcuni cupi, alcuni rapidi, agili, alcuni lenti e tranquilli, e, talvolta, quando la mamma guardava il cielo, in direzione della Terra, non c'era altro se non colore, null'altro. Ella sedeva a prua, una mano abbandonata sul bordo dell'imbarcazione, l'altra in grembo posata sui calzoni blu scuro e una striscia di abbronzatura appariva sul collo morbido, là dove la camicetta si apriva come una bianca corolla. Continuava a guardare avanti, per vedere che cosa ci fosse, ma, non riuscendo a distinguere con chiarezza, si volgeva verso il marito, e attraverso i suoi occhi, là riflesse, le immagini di ciò che stava innanzi; poiché l'uomo aggiungeva una parte di sé a quelle immagini riflesse, una decisa fermezza, il volto di lei si addolciva, ed ella accettava il messaggio dell'uomo, voltandosi di nuovo verso prua, sapendo d'un tratto che cosa cercare. Anche Timothy guardava, ma riusciva a vedere solo la riga diritta, quasi tracciata a matita, del canale che si faceva violetto entrando in una valle larga e poco profonda, racchiusa da basse colline erose, avanti fino a perdersi all'orizzonte. E quel canale andava e andava, costeggiando città che, a scrollarle un po', si sarebbero messe a crepitare come scarabei entro un teschio bene asciutto. Cento o duecento città sognanti sogni torridi da giornata d'estate, e freschi sogni da notte d'estate... Avevano percorso milioni di miglia per questa gita... per pescare. Ma c'era un fucile sul razzo. Si era in ferie; ma allora perché tutti quei viveri, sufficienti a nutrirli per anni e anni, che avevano nascosto laggiù, presso il razzo? Le vacanze. Ma dietro il velo di quelle vacanze non c'era un morbido volto divertito, ma qualcosa di duro, ossuto, forse terrificante. Timothy non riusciva a sollevare quel velo, mentre i suoi fratelli erano occupatissimi ad avere dieci e otto anni, rispettivamente. «Niente marziani ancora. Accidenti!» Robert si strinse il mento aguzzo fra le mani, fissando il canale. Papà si era portato dietro una radio atomica, legata al polso. Funzionava in base a un principio antico: la premevi contro l'osso dell'orecchio, ed essa vibrava cantando o suonando per te. Papà si era messo a sentirla ora. La sua faccia assomigliava a una di quelle città marziane cadute, scavata, succhiata fino a essere arida, quasi morta. Porse l'apparecchio alla mamma, perché sentisse anche lei. La mamma dischiuse le labbra, desolata. «Che cosa...» cominciò a chiedere Timothy, ma non finì mai quello che aveva cominciato a dire. Perché in quel momento si udirono due esplosioni gigantesche, da scuotere il midollo, che si dilatarono cupe entro se stesse, seguite da una mezza dozzina di scoppi minori. Con uno scatto della testa il babbo accelerò immediatamente. L'imbarcazione saltò, balzò, cadde con un tonfo. Cosa che trasse Robert dal suo umor nero e strappò guaiti di atterrita ma estatica gioia a Michael che, afferratosi alle gambe della mamma, guardava l'acqua fuggire torrenzialmente a un palmo dal suo naso. Il babbo raddrizzò la rotta, diminuì la velocità e spinse il battello in una piccola diramazione del canale, sotto un antico molo di pietra, in rovina, che puzzava di crostacei in putrefazione. Il motoscafo cozzò contro il molo con violenza, proiettandoli in avanti, ma nessuno si fece male. Papà era ancora voltato per controllare che le increspature del canale non fossero tali da rivelare il loro itinerario fino al nascondiglio. Le onde si allargarono sulla superficie dell'acqua, lambirono le pietre, rimbalzarono indietro per fondersi l'una nell'altra acquietandosi, si lasciarono variegare dal sole. Svanì tutto. Il babbo tese l'orecchio. Così fecero tutti. Il respiro del babbo risuonava come pugni battuti contro le pietre fredde e bagnate del molo. Nell'ombra, gli occhi fosforescenti della mamma scrutavano quelli del babbo per indovinarne la prossima mossa. « E' per questo che ti vedo frugare il cielo con gli occhi?» «Sì, è sciocco. Nessuno ci darà mai la caccia. Non hanno i mezzi per seguirci. Sono troppo prudente, ecco tutto.» Michael veniva loro incontro correndo. «Questa è proprio la nostra città, papà?» «Tutto questo maledetto pianeta ci appartiene, figliolo. Tutto quanto il maledetto pianeta.» Erano là, Re della Montagna, Sovrani dei Sovrani, Signori di Tutto Quello che Vedevano, Monarchi e Presidenti indefettibili, e cercavano d'intendere che cosa volesse dire possedere un mondo e quanto fosse grande un mondo. La notte scese rapida nella sottile atmosfera, e il babbo li lasciò nella piazza, presso la fontana pulsante, scese fino al motoscafo e ne tornò con un pacco di giornali nelle mani capaci. Ammonticchiò i fogli in un antico cortile e vi appiccò il fuoco. Per stare caldi, si accoccolarono intorno al falò e si misero a ridere, mentre Timothy vedeva le piccole lettere balzare come animali spaventati, quando le fiamme le sfioravano e le divoravano. I giornali si arricciavano come la pelle di un vecchio, e la cremazione cingeva d'assedio innumerevoli parole: "Prestito di Guerra; Situazione Industriale 1999; Pregiudizi religiosi: Saggio; Scienza logistica; Problemi dell'Unità Pan-americana; Situazione Borsa Valori del 3 luglio 1998; Compendio dalla Guerra". Il babbo aveva insistito tanto per portare quegli stampati a quello scopo; se ne stava seduto e li gettava sul fuoco, a uno a uno, con soddisfazione, dicendo ai figli che cosa significasse tutto ciò. « E' ora che vi dica qualche cosa. Non credo che sia stato leale tenervi tanto all'oscuro. Non so se capirete, ma devo parlare, anche se soltanto una parte vi riuscirà comprensibile.» Lasciò cadere un altro foglio nel fuoco. «In questo momento sto bruciando un certo modo d'intendere la vita, esattamente come, in questo momento, questo modo d'intendere la vita viene spazzato via sulla Terra. Scusatemi se parlo come un politico. Sono, dopo tutto, l'ex governatore di uno Stato; ero onesto e perciò ero odiato. La vita sulla Terra non si è mai adoperata per fare qualcosa di onesto e nobile. La scienza è corsa troppo innanzi e troppo in fretta; gli uomini si sono smarriti in un deserto meccanizzato, come bambini che rimodellino cose graziose, congegni, elicotteri, razzi; dando rilievo agli oggetti meno degni, dando valore alle macchine anziché al modo di servirsene. Le guerre, sempre più estese, hanno finito per assassinare la Terra. Ecco cosa significa il silenzio della radio. Ecco perché siamo fuggiti. «La fortuna ci ha assistito. Non c'erano più razzi. E' ora che sappiate che la nostra non è affatto una partita di pesca. Ho voluto attendere prima di dirvelo. La Terra non c'è più. I viaggi interplanetari non torneranno in auge per secoli, forse mai più. Ma quel modo d'intendere la vita si è rivelato errato e si è strangolato con le sue stesse mani. Voi siete giovani. Vi ripeterò queste cose ogni giorno, finché non le avrete assorbite.» Tacque, per gettare altra carta nel fuoco. «Ora siamo soli. Noi e un pugno di altri nostri simili che arriveranno nei prossimi giorni. Abbastanza per ricominciare. Abbastanza per voltare le spalle a tutto quello che è rimasto sulla Terra e ricominciare secondo nuove idee...» Il fuoco fiammeggiò alto, come per dare rilievo alle sue parole. E poi tutti i giornali furono bruciati, meno un foglio. Tutte le leggi e le credenze della Terra erano arse e ridotte in ceneri calde, che in breve il vento avrebbe disperso. Timothy guardò l'ultimo foglio che il babbo gettava nel fuoco. Era una grande mappa del Mondo, e si raggrinzò e si contorse, ardente, finché flinf!, e scomparve come una calda farfalla nera. Timothy volse altrove lo sguardo. /<1994>/ C'era il solito dieci per cento di popolazione proveniente da un'altra parte ed epoca della Terra, rappresentato in quel caso da persiani del primo secolo, e c'era pure l'onnipresente uno per cento costituito da una selezione apparentemente casuale di individui di tutti i tempi e luoghi. Nel cannocchiale sfilavano le capanne di bambù costruite sulle pianure, e i volti delle persone. Molte di queste erano radunate sulla riva, evidentemente per assistere allo scontro. Avevano archi, frecce, lance dalla punta di selce, ma non erano schierate in ordine di battaglia. Gli uomini indossavano soltanto delle salviette di varie fogge; le donne portavano corte gonnelle simili alle salviette degli uomini e una striscia di stoffa sul petto. D'un tratto Clemens grugnì, puntando il cannocchiale sul volto di un uomo. A quella distanza, e col debole ingrandimento del suo apparecchio, non poteva distinguere con chiarezza i lineamenti, ma il volto scuro e il corpo dalle ampie spalle gli sembravano familiari. Dove aveva già visto quella faccia? Poi rammentò. L'uomo rassomigliava straordinariamente alle fotografie del famoso esploratore inglese Sir Richard Burton. Ma forse era soltanto una somiglianza. Clemens sospirò e rivolse il cannocchiale alle altre facce, mentre la nave lo allontanava da lì. Non avrebbe mai conosciuto l'identità di quell'uomo. Gli sarebbe piaciuto scendere a riva per parlare con lui e scoprire se era davvero Burton. Da vent'anni viveva su quel pianeta fluviale, e aveva già visto milioni di volti; ma non si era mai imbattuto in una sola persona già incontrata sulla Terra. Non aveva conosciuto Burton di persona, ma era convinto che Burton avesse sentito parlare di lui. Quell'uomo, se era Burton, poteva costituire un legame per quanto esile con la Terra ormai morta. D'improvviso, mentre una persona resa indistinta dalla lontananza appariva nel campo del cannocchiale, Clemens si mise a gridare non credendo ai propri occhi. - Livy! Oh, mio Dio! Livy! Non potevano esserci dubbi. Benché i lineamenti non fossero visibili con chiarezza, costituivano una schiacciante e innegabile verità. La forma del capo, la pettinatura, la linea del corpo e il caratteristico modo di camminare, irripetibile come le impronte digitali, conclamavano che si trattava della donna che sulla Terra era stata sua moglie. - Livy! - singhiozzò. La nave, che in quel momento prendeva l'altra bordata, sbandò e la donna uscì dal campo del cannocchiale. Clemens prese a volgere freneticamente a destra e a sinistra l'estremità dello strumento. Con gli occhi sbarrati si mise a pestare i piedi sul ponte, mugghiando: - Bloodaxe! Bloodaxe! Su! Presto! Si volse violentemente al timoniere gridandogli di girare e dirigere verso la riva. Per un attimo, Grimilsson fu colto alla sprovvista: poi strinse le palpebre, scosse il capo, e ringhiò un no. - Te lo ordino! - gridò Clemens, scordando che il timoniere non sapeva l'inglese. - Quella è mia moglie! Livy! La mia splendida Livy, com'era a venticinque anni! Tornata dal regno dei morti! Ci fu un brontolio alle sue spalle e Clemens, con un dietrofront, vide spuntare a livello del ponte una testa bionda con l'orecchio sinistro mozzato. Poi apparvero le ampie spalle, il petto massiccio, gli enormi bicipiti, e infine le cosce grosse come colonne di Erik Bloodaxe che saliva la scala del casseretto. Erik indossava una salvietta a scacchi verdi e neri e un'alta cintura dalla quale pendevano parecchi coltelli di quarzo e il supporto per l'ascia. La grande lama di questa era d'acciaio, montata su un manico di quercia: per quanto risultava a Clemens, era l'unica su quel pianeta, dove pietra e legno erano i soli materiali con cui foggiare armi. Erik scrutò le acque con volto accigliato, poi si rivolse a Clemens e disse: - Che c'è, sma-skitligr? Mi hai fatto tremare la stecca con le tue grida simili a quelle della sposa di Thor la notte di nozze. Ho perso un sigaro contro Toki Njalsson. Tolse l'ascia dal supporto e la roteò. La lama azzurrina balenò nel sole. - Spera di avermi disturbato per un'ottima ragione. Ho ucciso non so quanti uomini per molto meno. Clemens era pallido sotto l'abbronzatura, ma non per la minaccia di Erik, questa volta. Fulminava con lo sguardo Bloodaxe, e con i capelli scompigliati dal vento, gli occhi fissi, il profilo aquilino, pareva un falco. - All'inferno tu e la tua ascia! - gridò. - Ho visto mia moglie, Livy, là, sulla riva destra! Gli uomini e le donne si sentirono come se Dio li avesse abbandonati: il dono offerto tre volte al giorno dalle pietre-fungo aveva finito col divenire naturale come lo spuntare del sole. Occorse loro un po' di tempo per liberarsi dall'improvvisa morsa allo stomaco, tanto da poter mangiare quanto era rimasto del pesce, dei germogli di bambù, e del formaggio. Per un po' Clemens provò una fifa tremenda, ma poi Von Richthofen cominciò a parlargli della necessità di trasportare i graal sull'altra riva in modo che la mattina seguente fosse possibile fare colazione. Clemens balzò in piedi e andò a riferire a Bloodaxe. Il norvegese era di umore ancora più cattivo del solito, ma finì con l'ammettere che occorreva passare all'azione. Joe Miller, il tedesco, e un grosso svedese dalla testa rossa, di nome Toke Kroksson, risalirono faticosamente fino alla nave e tornarono giù con alcuni remi. Poi, accompagnati da Clemens, trasferirono sull'altra riva i graal con la canoa, che Toke riportò indietro. Miller, Clemens e Von Richthofen si sistemarono sopra una pietra-fungo per dormire. La roccia era pulita, in quanto la scarica elettrica aveva dissolto tutto il fango -. Quando arriva la pioggia dovremo metterci sotto la roccia - disse Clemens. Giaceva supino con le mani sotto la testa, e guardava il cielo. Non era certo un cielo terrestre, quel fulgore di ventimila stelle più grandi di Venere al massimo della sua lucentezza e di luccicanti filamenti che uscivano come tentacoli da splendenti nubi di gas. Alcune stelle erano così vivide che si potevano vedere, come pallidi fantasmi, perfino a mezzogiorno. - Il meteorite deve aver fracassato alcune pietre-fungo sulla riva occidentale - osservò Clemens. - E così ha interrotto il circuito. Mio Dio, che circuito! Devono esserci almeno venti milioni di pietre-fungo collegate insieme, se i calcoli di qualcuno sono esatti. - Lungo il Fiume si scatenerà un tremendo conflitto - disse Lothar. - I rivieraschi dell'ovest aggrediranno quelli dell'est per poter caricare i propri graal. Che guerra! In questa Valle del Fiume devono esserci da trentacinque a trentasette miliardi di abitanti, e tutti combatteranno fino alla morte per il cibo. - Il guaio - osservò Joe Miller - è che se anche metà di questa popolazione rimane uccisa, lasciando abbastanza spazio sulle rocce del graal, non ci farà lo stesso nessun vantaggio. Ventiquattr'ore più tardi i morti faranno di nuovo vivi, e tutto ricomincerà come prima. Sam replicò: - Non ne sono sicuro. Mi sembra dimostrato che fra le pietre-fungo e le resurrezioni c'è un certo legame. E se una metà è fuori uso, può darsi che ci sia un notevole calo nella produzione di Lazzari. Quel meteorite è un sabotatore giunto dai cieli. - Da un bel po' di tempo penso che questo pianeta, e la nostra resurrezione, non sono opera di esseri soprannaturali - disse Von Richthofen. - E' al corrente di quella diceria bislacca che corre su e giù per il Fiume? Raccontano che un uomo si sia svegliato prima del Giorno della Resurrezione, trovandosi in un luogo assai irreale. Intorno a lui c'erano milioni di corpi sospesi a mezz'aria: uomini, donne, bambini, tutti nudi e glabri, e tutti che ruotavano lentamente su se stessi sotto la spinta di qualche forza invisibile. Quest'uomo era morto sulla Terra intorno al 1890, e qualcuno dice che fosse un inglese di nome Perkin o Burton. Era riuscito a liberarsi, ma è stato bloccato da due esseri... due esseri umani... che l'hanno messo di nuovo a dormire. Poi lui si è risvegliato, come tutti quanti noi, sulla riva del Fiume. "Chiunque ci sia, dietro tutto ciò, non è infallibile. Con Burton ha commesso un errore. Burton ha potuto gettare un'occhiata nella fase di preresurrezione, in qualche punto tra la nostra morte sulla Terra e la preparazione per la vita su questo pianeta". E poi c'era quella storia che si raccontava quasi dovunque, la storia di un inglese, Burton o Perkin, probabilmente Burton, che si era prematuramente risvegliato nella fase di preresurrezione. Quel risveglio era forse ancor meno incidentale del passaggio scavato nella montagna polare? Questo era stato l'inizio del sogno di Samuel Clemens; alimentato di continuo, era diventato il Grande Sogno. Per realizzarlo gli occorreva ferro, molto ferro. Ecco perché aveva convinto Erik Bloodaxe a organizzare una spedizione alla ricerca del luogo di provenienza della sua ascia d'acciaio. Sam non pensava sul serio di trovare abbastanza metallo da poter costruire un enorme battello fluviale; ma almeno il norvegese gli stava facendo risalire il Fiume, portandolo più vicino al mare polare. Ora, per una fortuna che riteneva immeritata, aveva a portata di mano più ferro di quanto avesse mai sperato. Gli occorrevano uomini provvisti di cognizioni specifiche. Ingegneri in grado di estrarre il ferro dal meteorite, fonderlo e dargli una nuova forma, e ingegneri e tecnici per le centinaia di altre cose necessarie. Con la punta del piede diede un colpetto sulle costole di Joe Miller, dicendo: - Alzati, Joe. Fra non molto pioverà. Il titantropo grugnì, si sollevò come una torre che sbuca dalla nebbia, e si stirò. Il riflesso delle stelle gli balenò sui denti. Seguì Sam attraverso il ponte, facendo scricchiolare le tavole di bambù col suo peso di quattrocento chili. Da basso qualcuno imprecò in norvegese. Ormai su entrambe le rive le montagne erano coperte di nubi. L'oscurità si stendeva sulla valle, celando il pazzesco scintillio di ventimila fra stelle colossali e rilucenti ammassi di gas. Di lì a poco ci sarebbe stato un violento acquazzone della durata di mezz'ora, dopo di che le nubi sarebbero scomparse. Un fulmine saettò sulla riva orientale, e si udì mugghiare un tuono. Sam si fermò. I fulmini lo spaventavano sempre, o meglio spaventavano il fanciullo che era in lui. I fulmini lo attraversavano da parte a parte mostrandogli le facce ossessionate e ossessionanti di coloro che aveva offeso, insultato o disonorato, e dietro a queste facce ce n'erano altre, indistinte, che lo rimproveravano per colpe indefinite. I fulmini penetravano in lui, e allora lui credeva in un Dio vendicatore intenzionato ad arderlo vivo, ad affogarlo in un dolore bruciante. In qualche punto in mezzo alle nubi c'era il Giudice Irato, che stava cercando Sam Clemens. Joe disse: - Tuona, a valle, sul Fiume. No! Non è un tuono! Ascolta! Non riesci a sentirlo? E' qualcosa di buffo, simile al tuono ma diverso. Sam ascoltò, con la pelle percorsa da un gelido formicolio. A valle si udiva un debolissimo rombo. Poi Sam sentì da monte un rombo più forte, e il formicolio si fece più gelido. - Che diavolo è? - Non spaventarti, Sam - replicò Joe. - Sono con te. Ma tremava anche lui. Il fulmine sventagliò bianche ramificazioni sulla riva orientale. Sam fece un balzo esclamando: - Gesù! Ho visto guizzare qualcosa! Joe gli si accostò e disse: - Ho visto anch'io! E' il vascello! Sai, quello che avevo visto sopra la torre. Ma è scomparso! Joe e Sam rimasero in silenzio, aguzzando gli occhi nelle tenebre. Il fulmine esplose ancora, ma questa volta non rivelò un ovoide bianco, alto sul Fiume. - E' balenato dal nulla ed è tornato al nulla - disse Sam. - Come un miraggio. Se non l'avessi visto anche tu, avrei pensato che fosse un'illusione. Sam si risvegliò sul ponte. Era irrigidito, infreddolito, confuso. Si girò sulla schiena e strizzò le palpebre, per il sole che cominciava allora a spuntare dietro le montagne orientali. Joe giaceva supino accanto a lui, e il timoniere dormiva accanto alla ruota. Ma un'altra ragione fece saltare Sam in piedi. I suoi occhi, abbassandosi, avevano visto l'oro del sole passare a un verde generale. Le pianure e le colline non erano più coperte di fango e di detriti piccoli e grandi. Sulle pianure c'era erba bassa, e sulle colline era alta, bambù, e colossali pini, querce, tassi, alberi del ferro. - Tutto regolare - mormorò Sam, involontariamente spiritoso benché paralizzato dallo stupore. Qualcosa aveva fatto piombare nel sonno tutti quelli a bordo della Dreyrugr, e durante il loro stato di incoscienza aveva compiuto l'incredibile lavoro di eliminare tutto il fango e ripiantare la vegetazione. Quella parte del Fiume era rinata! Avevano in mano una cosa dall'aspetto buffo, lunga una trentina di centimetri, un bastone grosso e nero che non era legno, ma sembrava piuttosto l'acciaio di cui è fatta l'affia di Bladacse. "Io ero ben nascosto, ma quei bastardi si sono accorti non so come che ero lì. Uno di loro mi ha puntato contro il bastone, e io ho perso i sensi. Completamente partito. Quando mi sono risvegliato, i due umani e il vis erano scomparsi. Sono scappato a gambe levate, ma non ho mai dimenticato quell'odore." Sam chiese: - La storia finisce qui? Joe annuì. Sam disse: - Che io sia dannato! Allora questo significa che quei... quelle persone ci tengono d'occhio da mezzo milione di anni? O da più tempo ancora? O addirittura sono le stesse persone? - Cosa vuoi dire? Sam raccomandò a Joe di non riferire mai a nessuno quanto lui stava per dirgli. Sapeva di potersi fidare del titantropo, e tuttavia parlò con riluttanza. Ics gli aveva ordinato di non aprir bocca con anima viva. Joe annuì così a lungo che la sagoma del suo naso sembrava un tronco sollevato e abbassato dal mare in tempesta. - Tutto si lega. Che coincidenza, vero? Prima li vedo sulla Terra, poi la spedizione di Akenaton mi conduce via e vedo la torre e il vascello volante, e adesso tu sei scelto da questo Ics per costruire il battello a vapore. Che ne dici, eh? Sam era così eccitato che non poté addormentarsi se non poco prima dell'alba. Riuscì ad alzarsi per la colazione, anche se avrebbe preferito rimanere a letto. Mentre mangiava il contenuto del graal insieme ai vichinghi, al tedesco e a Joe, riferì una versione fortemente censurata dell'accaduto, parlandone come se si fosse trattato di un sogno. Senza la testimonianza olfattiva di Joe in merito alla presenza dello straniero misterioso, avrebbe creduto egli stesso che era stato un sogno. Von Richthofen, naturalmente, si burlò di lui. I norvegesi, invece, credevano nei sogni rivelatori. Quasi tutti, almeno. Però, tra gli inevitabili scettici vi era anche Erik Bloodaxe. - Pretendi che camminiamo per quindici chilometri e ci mettiamo a scavare solo perché hai avuto un brutto incubo? - muggì. - Ho sempre pensato che la tua mente sia debole come il tuo coraggio, Clemens, ma adesso ne sono certo! Neanche parlarne! Sam era seduto in terra: a questo punto si alzò, e gettando lampi da sotto le sopracciglia disse: - Allora, Joe e io ce ne andremo da soli. Per gli scavi ci metteremo in società con la gente del luogo, e quando avremo trovato il ferro, il che accadrà senz'altro, non potrai associarti a noi né per amore né per denaro. Di queste due cose, tra parentesi, la prima non l'hai mai avuta né sulla Terra né qui, e la seconda non esiste più. Bloodaxe prese a roteare l'ascia e a gridare, spruzzando dalla bocca pezzi di pane e di carne: - Nessun miserabile schiavo mi può parlare a questo modo! Tu non scaverai nient'altro che la tua fossa, sciagurato! Joe, che si era già alzato e accostato a Clemens, ringhiò ed estrasse l'enorme ascia di pietra dal supporto assicurato alla cintura. I vichinghi smisero di mangiare e si allontanarono mettendosi a una certa distanza dietro il loro capo. Von Richthofen aveva ascoltato sorridendo il racconto del sogno di Clemens. Il sorriso si raggelò, e il tedesco si mise a tremare. Ma non per paura. Si alzò in piedi, e senza una parola si mise alla destra di Clemens. Poi disse a Bloodaxe: - Amico mio norvegese, tu hai schernito l'abilità e il coraggio dei tedeschi come combattenti. Adesso questo tuo scherno te lo faremo ingoiare. Bloodaxe scoppiò in una grassa risata. - Due galletti da combattimento e una scimmia! Non avrete una morte facile: farò in modo che passino dei giorni prima che abbiate la gioia di morire! Prima che abbia terminato mi supplicherete di mettere fine alle vostre sofferenze! - Joe! - disse Clemens. - Abbi cura di uccidere Bloodaxe per primo. Poi potrai farti una sudatina abbattendo gli altri. Forse i Dodici emanavano una specie di effluvio, una sfumatura tigresca dell'anima, che metteva il traditore in grado di riconoscere l'uomo capace di compiere l'opera? Sam, Joe, Lothar e l'acheo, Ulisse, si ritirarono nelle proprie capanne a notte avanzata, dopo i festeggiamenti per la vittoria. Sam aveva la gola secca per il gran parlare. Aveva cercato di spremere dall'acheo tutto ciò che quello ricordava sull'assedio di Troia e sulle proprie peregrinazioni successive. Aveva sentito abbastanza da rimanerne confuso, anziché illuminato. La Troia che Ulisse conosceva non era la città accanto all'Ellesponto, o meglio le rovine che gli archeologi terrestri avevano chiamato Troia VII. La Troia assediata da Ulisse, Agamennone e Diomede era più a sud, di fronte all'isola di Lesbo ma più a nord e all'interno rispetto al fiume Kaikos. Vi abitava un popolo della stirpe degli Etruschi, che in quell'epoca vivevano nell'Asia Minore e più tardi erano emigrati in Italia a causa delle invasioni elleniche. Ulisse conosceva la città che le generazioni successive avevano ritenuto Troia: vi abitavano i Dardani, che parlavano una lingua barbara pur appartenendo allo stesso ceppo dei Troiani autentici. La loro città era stata distrutta cinque anni prima della guerra di Troia da altri barbari provenienti dal nord. Tre anni dopo l'assedio di Troia autentica, che era durato due anni soltanto, Ulisse aveva partecipato alla grande spedizione via mare dei Danai, o Achei, contro l'Egitto di Ramesse III. La spedizione aveva avuto un esito disastroso. Ulisse aveva cercato scampo fuggendo per mare, ed effettivamente aveva compiuto suo malgrado un viaggio che si era protratto per tre anni facendogli toccare Malta, la Sicilia e alcune zone dell'Italia, tutte terre allora sconosciute ai Greci. Non c'erano stati né Lestrigoni, né Eolo, né Calipso, né Circe, né Polifemo. Aveva avuto sì una moglie chiamata Penelope, ma niente Proci da uccidere. Per quanto riguardava Achille ed Ettore, Ulisse sapeva solo che erano i protagonisti di un poema. Riteneva che fossero entrambi dei Pelasgi, il popolo vissuto nella penisola ellenica prima che gli Achei calassero dal nord per conquistarla. Gli Achei avevano assorbito e adattato il poema dei Pelasgi, e bardi posteriori dovevano averlo incorporato nell'Iliade. Ulisse conosceva l'Iliade, e l'Odissea, avendo incontrato uno studioso in grado di recitarle entrambe a memoria. - E il cavallo di legno? - chiese Sam, convintissimo che l'altro non avrebbe saputo rispondergli. Invece Ulisse, con sua sorpresa, non solo ne era al corrente, ma disse che in effetti ne era stato lui l'ideatore. Si era trattato di un inganno concepito con la forza della disperazione, e avrebbe dovuto fare fiasco. Questa, per Sam, fu la notizia più sbalorditiva di tutte. Gli studiosi erano stati concordi nel rifiutare qualsiasi realtà all'episodio, affermando che era chiaramente impossibile. Chiunque avrebbe dato loro ragione, dal momento che l'idea sembrava frutto di fantasia, e che non era probabile che i Troiani fossero stati così stupidi da cadere nel tranello. Ma invece il cavallo di legno era esistito davvero, e gli Achei erano penetrati nella città nascondendosi all'interno dell'animale. Von Richthofen e Joe erano rimasti ad ascoltare i due che parlavano. Sam, nonostante l'Etico avesse ammonito di non parlare di lui a nessuno, aveva deciso di mettere al corrente Joe e Lothar, altrimenti si sarebbe trovato a compiere troppe cose che i suoi amici non avrebbero potuto comprendere. Inoltre Sam era convinto che dividendo il segreto con altri avrebbe dimostrato all'Etico che si dava da fare davvero. Era un atto puerile, ma lo fece ugualmente. Sam augurò la buona notte a tutti, tranne che a Joe, e si distese sul letto. Benché stanchissimo, non riuscì a prendere sonno. Il russare di Joe, simile a un risucchio attraverso il buco di una serratura, non contribuiva certo ad attenuargli l'insonnia. Inoltre l'eccitazione al pensiero dei lavori da compiere l'indomani gli faceva raggricciare i nervi e pulsare il cervello. Il giorno successivo sarebbe stato un giorno storico, sempre che quel mondo fosse destinato ad avere una storia. Alla fine ci sarebbero stati carta, inchiostro, matite, persino un torchio da stampa. Il grande battello avrebbe pubblicato un settimanale. Ha cercato di assassinare Arturo di Nuova Bretagna? Cosa sta cercando di fare quell'uomo, di rovinarci tutti quanti? Si mise a camminare avanti e indietro, si fermò, accese un grosso sigaro e riprese a camminare, fermandosi un'altra volta per offrire a Grevel un pezzo di formaggio e un bicchiere di vino. Era un'ironia del Caso (o forse degli Etici, per chi sapeva quali cose combinavano) che re Giovanni d'Inghilterra e il nipote da lui assassinato nel modo più sleale si trovassero a una cinquantina di chilometri di distanza l'uno dall'altro. Arturo, principe di Bretagna sulla defunta Terra, aveva organizzato in uno stato, chiamandolo poi Nuova Bretagna, gli abitanti della zona in cui era risorto. Nel territorio che governava, lungo quindici chilometri, gli antichi bretoni erano ben pochi: ma questo non importava, e Nuova Bretagna fu. Erano passati otto mesi prima che Arturo scoprisse che lo zio era suo vicino. Si era spinto in incognito fino a Parolando per controllare di persona l'identità dello zio che gli aveva tagliato la gola gettando poi nella Senna il suo corpo assicurato a un grosso peso. Arturo voleva far prigioniero Giovanni e sottoporlo a raffinate torture tenendolo in vita il più a lungo possibile. L'uccisione di Giovanni gli avrebbe soltanto impedito, e forse per sempre, di prendersi la propria vendetta. Giovanni, se fosse stato ucciso, si sarebbe risvegliato il giorno seguente in un altro punto del Fiume distante migliaia di chilometri. Arturo invece aveva inviato degli ambasciatori perché esigessero che Giovanni gli fosse consegnato. La richiesta era stata respinta, naturalmente, anche se Sam non l'aveva esaudita solo in omaggio al proprio senso dell'onore e alla paura che aveva di Giovanni. E adesso Giovanni aveva mandato quattro uomini per assassinare Arturo. Due erano morti, e due erano riusciti a fuggire avendo riportato ferite di poco conto. Questo voleva dire una probabile invasione. Arturo non solo voleva vendicarsi di Giovanni, ma anche avrebbe gradito impossessarsi del ferro. Il tratto di ventidue chilometri sulla riva destra del Fiume, tra Parolando e Nuova Bretagna, era conosciuto come Terra di Chernsky, o Cernskujo in esperanto. Chernsky, un colonnello di cavalleria ucraino del sedicesimo secolo, aveva rifiutato di allearsi con Arturo. Ma la nazione confinante a sud con la Nuova Bretagna era governata da Iyeyasu. Costui, potente e ambizioso, era l'uomo che nel 1600 aveva fondato lo shogunato di Tokugawa stabilendone la capitale a Yedo, più tardi chiamata Tokio. Le spie di Sam avevano riferito che il giapponese e il bretone avevano avuto sei colloqui diplomatici a scopo di alleanza. Inoltre, subito a nord di Iyeyasujo c'era Cleomenujo. Questo stato era governato da Cleomene, re di Sparta e fratellastro di quel Leonida che aveva difeso la gola delle Termopili. Cleomene aveva incontrato tre volte Iyeyasu e Arturo. Immediatamente a sud di Parolando c'era un territorio di diciassette chilometri, chiamato Publia dal nome del suo re, Publio Crasso. Publio era stato ufficiale della cavalleria di Cesare durante le guerre galliche. Era portato alla cordialità, ma aveva strappato a Sam un prezzo elevato in cambio dell'autorizzazione ad abbattere del legname nel suo territorio. A sud di Publia c'era Tifonujo, il cui sovrano era Tai Fung, uno dei capitani di Kublai Khan, morto sulla Terra cadendo da cavallo mentre era ubriaco. E a sud di Tifonujo c'era Soul City, governata da Elwood Hacking e Milton Firebrass. Sam si fermò, e da sotto le folte sopracciglia lanciò a Grevel uno sguardo truce. - Il maledetto guaio, Bill, è che io non posso farci molto. Se dico a Giovanni che sono al corrente del suo tentativo di assassinare Arturo, che per quel che ne so io può anche meritare di essere assassinato, lui viene a sapere che ho mandato delle spie in casa sua. Allora negherà ogni cosa e chiederà che io tiri fuori i suoi accusatori: e tu sai che cosa succederebbe a loro, a te. Grevel impallidì. Sam continuò: - Rimetti in moto la circolazione sanguigna: non lo farò. No. L'unica cosa è tacere e aspettare gli sviluppi della situazione. Ma, a furia di tacere, comincio a soffocare. Quello è l'uomo più spregevole ch'io abbia mai incontrato. E se tu sapessi quante e quante persone ho conosciuto, editori compresi, comprenderesti a fondo la mia affermazione. E anche questa va bene: ho proprio bisogno di vergognarmi. L'emozione stava svanendo, e un senso di calma relativa lo inondava per riempire il vuoto. L'apparizione dell'enorme titantropo l'aveva rincuorato. Buon vecchio Joe! Anche se era un subumano tonto, e per il momento malato, valeva quanto un intero battaglione. Joe aveva indossato l'armatura di cuoio. In una mano impugnava un'immensa ascia bipenne d'acciaio. - Chi sono? - tuonò. - Quelli di Soul City? - Non lo so - rispose Sam. - Te la senti di combattere? Come va la testa? - Mi fa male. Sì, posso combattere, okay. Da che parte andiamo? Sam lo precedette giù dalla collina, in direzione degli uomini che si stavano radunando intorno a Giovanni. Si sentì chiamare per nome: voltandosi, scorse l'alta figura allampanata di Bergerac. Al suo fianco stava Livy, munita di una lancia dalla punta d'acciaio e di un piccolo scudo rotondo di quercia ricoperto di cuoio. Cyrano impugnava una lunga lama che scintillava debolmente. Sam spalancò gli occhi. Era uno stocco. Cyrano esclamò: - Morbleu! - poi passò all'esperanto. - Il suo fabbro me l'ha dato proprio dopo cena. Ha detto che non c'era senso ad aspettare. Cyrano menò un fendente, tagliando l'aria con un sibilo acuto. - Sono rinato. Acciaio! Acciaio affilato! Un'esplosione a poca distanza li fece gettare tutti quanti a terra. Sam attese finché non fu sicuro che non c'era un altro razzo in arrivo, e poi guardò in direzione della "plancia". Era rimasta colpita in pieno. La parte anteriore era stata squarciata e all'interno divampava il fuoco, che presto sarebbe arrivato alle cabine. Il diario ormai se n'era andato, ma il graal, essendo indistruttibile, poteva essere recuperato più tardi. Nei successivi cinque minuti i missili di legno dalle code di fuoco si innalzarono sussultando dai bazooka pure di legno appoggiati alle spalle degli artiglieri di Parolando. I missili atterravano in prossimità dei nemici, e talvolta proprio in mezzo, ed esplodevano lanciando getti di fiamme e una gran quantità di fumo nero, rapidamente disperso dal vento. Giunsero a rapporto tre messaggeri. L'attacco era stato sferrato da tre punti, lungo tutto il Fiume. Il grosso delle forze era concentrato lì, evidentemente per impadronirsi dei capi di Parolando, delle fabbriche più grandi e dell'anfibio; gli altri due eserciti erano a un chilometro e mezzo di distanza, rispettivamente a monte e a valle. Gli invasori erano uomini della Nuova Bretagna e di Cleomenujo, e in più c'erano gli Ulmak che abitavano sulla riva opposta del Fiume. Gli Ulmak erano dei selvaggi vissuti in Siberia intorno al 30.000 a.C., e i cui discendenti avevano attraversato lo stretto di Bering dando così origine agli Amerindi. "Complimenti per il servizio di spionaggio di re Giovanni" pensò Sam. "A meno che... a meno che stia attaccando anche lui... Ma se così fosse non se ne starebbe qui fuori, dove è probabile che venga ucciso da un momento all'altro..." D'altra parte Arturo di Nuova Bretagna non avrebbe mai stretto alleanza con lo zio che lo aveva assassinato. I razzi continuavano a piovere su entrambi i contendenti, e le testate da due chili e mezzo, con gli shrapnel costituiti da ciottoli, seminavano vittime. Gli abitanti di Parolando si trovavano avvantaggiati: infatti potevano rimanere distesi a terra, mentre invece i loro razzi esplodevano in mezzo a bersagli che stavano in piedi. Gli invasori dovevano continuare ad avanzare, altrimenti tanto valeva che se ne tornassero a casa. Ciononostante era spaventoso stare sdraiati a terra aspettando la successiva assordante esplosione e sperando che non fosse più vicina della precedente. I feriti lanciavano urla, ma Sam non si sentiva straziare il cuore in quanto era così assordato da udirle a stento, e inoltre era troppo preoccupato per se stesso per poter pensare agli altri. Poi a un tratto i razzi cessarono di far saltare in aria il mondo. Un'enorme mano scosse la spalla di Sam. Sam sollevò lo sguardo e vide che molti intorno a lui si stavano alzando in piedi. I sergenti strillavano negli orecchi rintronati dei loro uomini di schierarsi in ordine di combattimento. Poi tutti e due sorseggiarono il caffè, e mentre Sam fumava una sigaretta chiacchierarono di quando avevano navigato lungo il Fiume alla ricerca del ferro insieme a Bloodaxe e ai suoi vichinghi. - Almeno ci si divertiva, di tanto in tanto - disse Joe. - Adesso invece non più. Troppo lavoro da sbrigare, troppe persone intenzionate a spellarci vivi. E poi la tua donna, che si fa vedere con quel nasuto di un Cyrano. Sam ridacchiò. - Grazie, Joe, per la prima risata che faccio da un bel po' di giorni. Nasuto! Buon Dio! - Qualche volta sono troppo fottile perfino per te, Sam - disse Joe. Si alzò dal tavolo e tornò nella propria stanza. Da quella volta Sam non ebbe più molto tempo per dormire. Gli era sempre piaciuto rimanere a letto anche dopo un'intera nottata di sonno, e invece dovette accontentarsi di dormire sì e no cinque ore per notte e di fare ogni tanto un pisolino durante il giorno. Sembrava che ci fosse sempre qualcuno che avesse domande da porre o problemi da discutere. I suoi ingegneri capo erano ben lungi dal trovarsi d'accordo su tutto, e questo gli seccava molto. Lui credeva che quello dell'ingegnere fosse un lavoro del tutto automatico. Si presenta un problema? Tic, tac, ed eccolo risolto nel modo migliore. Invece sembrava che Van Boom, Velitsky e O'Brien vivessero in mondi completamente staccati. Alla fine, per risparmiarsi ore e ore di discussioni irritanti e spesso inutili, incaricò Van Boom di prendere ogni decisione. I tre ingegneri non dovevano più disturbarlo per nessun motivo, a meno che avessero dovuto chiedere la sua autorizzazione per qualche cosa. Rimase sorpreso dal gran numero di problemi che richiedevano la sua autorizzazione, mentre lui riteneva che fossero esclusivamente di competenza dell'ingegneria. Iyeyasu non conquistò soltanto la regione dei Boscimani-Ottentotti sull'altra riva del Fiume, ma anche quindici chilometri del territorio degli Ulmak. Poi mandò una flotta contro l'area a sud degli Ulmak, lunga cinque chilometri circa, in cui vivevano degli amerindi Sac e Fox del diciassettesimo secolo, e conquistò anche quella trucidando metà della popolazione. Poi cominciò a esigere da Parolando un prezzo più alto per il legname. Inoltre voleva un anfibio uguale in tutto e per tutto al Drago di Fuoco I. Intanto il secondo Drago di Fuoco era stato quasi terminato. Nel frattempo, più di cinquecento negri di Parolando erano stati scambiati con un pari numero di Dravida. Sam aveva rifiutato energicamente di ricevere gli arabi Wahhabiti, o almeno aveva insistito perché arrivassero prima gli indiani. Era chiaro che a Hacking la cosa non garbava, ma nell'accordo non si era parlato di ordine di precedenza dei vari gruppi. Hacking, messo al corrente dalle proprie spie sulle richieste di Iyeyasu, inviò un messaggio. Anche lui voleva un Drago di Fuoco, ed era disposto a dare in cambio un grande quantitativo di minerali. Publio Crasso e Tai Fung si allearono per invadere la regione a loro antistante, che si stendeva per venti chilometri lungo la riva sinistra del Fiume ed era abitata da popolazioni paleolitiche provenienti da ogni luogo. Grazie alla superiorità delle armi e del numero, gli invasori uccisero metà degli abitanti e fecero schiavi gli altri. Anche loro alzarono il prezzo del legno, pur tenendolo inferiore a quello di Iyeyasu. Le spie riferirono che Chernsky, il sovrano della nazione lunga venti chilometri e confinante a sud con Parolando, si era recato a Soul City. Lo scopo della visita era ignoto a tutti, in quanto Hacking aveva organizzato un sistema di sicurezza che sembrava efficace al cento per cento. Sam mandò otto negri a spiare, e seppe che Giovanni ne aveva inviati almeno dodici. Le teste di tutti quanti, trasportate in barca col favore della bruma notturna, vennero gettate all'interno del muro che segnava il confine di Parolando lungo la riva. Una sera, sul tardi, Van Boom andò da Sam e gli disse che Firebrass gli aveva fatto dei cauti approcci. - Mi ha offerto la carica di ingegnere capo sul battello - disse. - Gliel'ha offerta lui? - chiese Sam lasciandosi sfuggire a momenti il sigaro. Sam sbatté contro il legno e i vetri infranti e la terra, e giacque disteso sopra la parete cercando di riaversi dallo sbalordimento. Una manona lo sollevò. Alla luce di un'esplosione Sam vide il volto e il grande naso di Joe. Questi si era calato dalla parete divelta della sua stanza, e aveva gettato all'aria i detriti fino a ritrovare Sam. Con la mano sinistra reggeva per l'impugnatura il graal di Sam e il proprio. - Non so come, ma non mi sono fatto troppo male - disse Sam. - E' un miracolo. Ho solo qualche taglietto per via dei vetri e qualche contusione. - Non ho avuto il tempo di indossare l'armatura - disse Joe. - Ma ho la mia ascia. Ecco per te una spada e una pistola e un po' di proiettili e di cariche di polvere da sparo. - Chi diavolo possono essere, Joe? - chiese Sam. - Non lo so. Guarda! Stanno entrando dalle aperture nelle mura dove ci sono i pontili. Le stelle emanavano una vivida luce. Le nubi che facevano cadere la pioggia ogni notte alle tre in punto non erano ancora arrivate, ma la bruma sopra il Fiume era fitta. Altri uomini ne uscivano aggiungendosi a quelli che avevano già invaso in gran numero la pianura. Dietro le mura, in mezzo alla nebbia, doveva esserci una flotta. L'unica flotta che potesse avvicinarsi senza provocare allarme era quella di Soul City. Qualunque altra fosse arrivata a quell'ora sarebbe stata scorta dalle spie che Sam e Giovanni Senzaterra avevano collocato lungo il Fiume, perfino in territorio nemico. E non poteva trattarsi della flotta di Iyeyasu: quella si trovava ancora attraccata alle banchine, come riferiva il messaggio ricevuto poco prima di mezzanotte. Joe sbirciò da sopra una catasta di legna e disse: - C'è una battaglia infernale intorno al palazzo di Giovanni. E la foresteria, dove stavano Hacking e i suoi ragazzi, è in fiamme. Il fuoco illuminava un certo numero di cadaveri distesi a terra e mostrava le minuscole figure che combattevano intorno al recinto di tronchi del palazzo di Giovanni. Poi il cannone col suo cassone venne spinto davanti alla palizzata - E' la jeep di Giovanni! - esclamò Sam indicando il veicolo che aveva appena eseguito la manovra. - Sì, e quello è il nostro cannone! - aggiunse Joe. - Ma sono gli uomini di Hacking quelli che vogliono far uscire Giovanni dal suo piccolo nido d'amore. - Maledizione, allontaniamoci da qui! - disse Sam, e scavalcati i detriti si avviò nella direzione opposta. Non riusciva a capire perché gli invasori non avessero ancora inviato degli uomini verso casa sua. Il razzo che l'aveva colpita proveniva dalla pianura, e se Hacking e i suoi uomini fossero usciti di soppiatto dalla foresteria per sferrare un attacco di sorpresa in concomitanza con l'attacco partito dai natanti col presunto carico di minerali, lui stesso avrebbe dovuto essere uno dei primi bersagli unitamente a Giovanni Senzaterra. Avrebbe scoperto più tardi il motivo... sempre che ci fosse un più tardi. Che gli uomini di Hacking si fossero impadroniti del cannone era un brutto affare per Parolando. Proprio mentre pensava a questo, Sam udì la grossa bocca da fuoco rombare una, due, tre volte. Si voltò, pur continuando a correre, e vide dei pezzi di legno volar fuori dal fumo. Il muro di cinta di Giovanni era completamente abbattuto, e i pochi proiettili successivi avrebbero ridotto in frantumi il suo palazzo di tronchi. L'unica cosa buona, riguardo al fatto che gli invasori si fossero impadroniti del cannone, era che la scorta di proiettili si limitava a cinquanta. Nonostante le molte tonnellate di nichel-ferro che ancora giacevano sottoterra, il metallo non era così comune da poter essere sprecato senza limiti in proiettili esplosivi. Davanti a Sam c'era la capanna di Cyrano e di Livy. La porta era spalancata, l'abitazione deserta. Sam guardò verso la collina. Se si fossero alzati per scavalcare la murata avrebbero potuto aggrapparsi alle grosse cubie di ferro cui erano stati assicurati i cavi quando la gru aveva issato la griglia deponendola poi sopra la ruota. Saltarono uno dopo l'altro, mentre tutt'intorno sibilavano i proiettili. Si aggrapparono alla cubia, sbattendo col corpo contro il fianco della dura griglia metallica. Ma si tirarono su fino ad arrivare in cima alla griglia stessa, strisciarono verso l'esterno, si alzarono in piedi, e si buttarono giù. L'acqua si trovava nove metri più in basso: un'altezza che in altre circostanze avrebbe fatto esitare Sam. Invece questa volta Sam fece un passo in fuori, cadde a piombo chiudendosi il naso, ed entrò in acqua a piedi in avanti. Risalì alla superficie in tempo per veder saltare Joe, non dalla griglia della ruota ma dal ponte di coperta. A furia di colpi si era aperto la strada giù per la scala e attraverso il ponte, disperdendo i pigmei che si era trovato davanti. Tuttavia la sua pelle villosa era chiazzata di sangue. Si tuffò dalla murata mentre le pistole facevano fuoco e le frecce volavano nella sua direzione. Allora Sam si immerse, perché parecchie mitragliatrici a vapore erano state puntate verso il basso e i proiettili calibro 80 piovevano verso di lui. Due minuti più tardi il battello tornò indietro: Giovanni doveva aver scoperto che il suo maggior nemico era fuggito. Ma ormai Sam si trovava sulla terraferma e correva, anche se pensava che le gambe non l'avrebbero retto. Non arrivarono nuove raffiche. Forse Giovanni aveva cambiato idea circa il proposito di ucciderlo: voleva che Sam soffrisse, e Sam avrebbe sofferto maggiormente se fosse rimasto sul luogo della disfatta. Da un megafono tuonò la voce di Giovanni: - Addio, Samuel! Stupido! Grazie per aver costruito il battello per me! Gli cambierò il nome con uno che mi si adatti di più! Ora vado a godere i frutti delle tue fatiche! Giudicami pure come ti garba! Addio! La sua risata, amplificata dal megafono, lacerò i timpani a Sam. Sam uscì dalla capanna in cui si era nascosto e si arrampicò sul muro in riva all'acqua. Il battello si era fermato, e per mezzo di cavi aveva calato una lunga passerella perché i traditori potessero salire a bordo. Sam udì una voce sotto di sé e guardò giù. Era Joe, col pelo rossiccio scurito dall'acqua tranne nei punti in cui il sangue ricominciava a uscire. - Lothar e Firebraff e Cyrano e Johnston si sono salvati - disse. - Come ti senti, Sam? Sam si sedette sulla terra battuta e replicò: - Se servisse a qualcosa, mi ucciderei. Ma questo mondo è l'inferno, Joe, l'inferno autentico. Non si può neppure commettere un decoroso suicidio. Ci si risveglia l'indomani, e si è da capo con gli stessi problemi appiccicati addosso con la colla o con... be', lasciamo perdere. - Adesso cosa facciamo, Sam? Per un pezzo Sam non rispose. Se lui non poteva avere Livy, neppure Cyrano poteva averla. Riusciva a sopportare l'idea di averla persa se Livy non si trovava dove lui la potesse vedere. In seguito sarebbe sopraggiunta la vergogna per aver gioito della perdita sofferta da Cyrano. Non subito. Era ancora troppo intontito. La perdita del battello era stata un colpo perfino maggiore dell'aver visto uccidere Livy. Dopo tutti quegli anni di duro lavoro, di dolore, di tradimento, di progetti, di offese, di... di... Era troppo perché lo si potesse sopportare. Joe era addolorato di vedere Sam piangere, ma gli rimase pazientemente seduto accanto finché le lacrime cessarono di sgorgare. Poi disse: - Cominciamo a costruire un altro battello, Sam? Sam Clemens si alzò in piedi. La passerella veniva ritirata dai macchinari elettromeccanici del suo favoloso battello. I fischietti trillavano in segno di esultanza, le campane squillavano. Probabilmente Giovanni rideva ancora. Forse stava addirittura guardando Sam con un cannocchiale. Sam agitò il pugno, sperando che Giovanni lo stesse guardando. - Ti prenderò, traditore! - urlò -. Costruirò un altro battello e ti raggiungerò! Non importa a quali ostacoli andrò incontro, né chi mi intralcerà la strada! Ti troverò, Giovanni, e col mio nuovo battello farò scomparire dal Fiume il tuo battello rubato! E nessuno, assolutamente nessuno, né lo Straniero, né il Diavolo, né Dio, nessuno dico, qualunque sia la sua potenza, mi fermerà! - Verrà il giorno, Giovanni! Verrà il giorno!