/<1993>/ Forse avrei dovuto capire tutto molti anni fa da quei colloqui opachi e vagamente allusivi con l'allora sindaco di Milano Carlo Tognoli, detto Tognolino perché tutto graziosamente piccolo, tanto che lo chiamai il sindaco tascabile, ma non se la prese, in apparenza non se la prendeva per niente. Tognoli era un sindaco molto amato, se andava per la strada la gente lo salutava con affetto, come i sindaci prima di lui del resto, le uniche persone, l'unica carica in cui i milanesi riconoscevano la loro città, qualcuno a cui parlare, diversi dai politici. Andavo da lui a palazzo Marino dove c'era quell'aria di socialdemocrazia meneghina che può piacere e non piacere, i «ghisa» di guardia, gli uscieri, gli impiegati tutti alla mano, dei compagni municipali, e scaloni, corridoi, uffici senza l'antica magnificenza degli altri municipi padani, brutte statue, brutti quadri, forse una mediocrità voluta, per le delegazioni di operai e disoccupati. Tognoli non mi riceveva nel suo ufficio, ma in una saletta attigua, mi faceva accomodare su una poltrona che già ti dicevi qui si menerà il can per l'aia, si accomodava anche lui in poltrona, tirava fuori da una scatola un enorme sigaro, più grande di lui, si alzava una nuvoletta di fumo profumato fra cui intravedevo il suo faccino da Mammolo, il suo sorriso di gentile scusa, di uno cortesemente deciso a non raccontare nulla di compromettente, di incisivo. Era come una saponetta, le domande scivolavano su di lui come su una saponetta. Sì, avrei dovuto capire da quei colloqui opachi e vagamente allusivi che lui si sentiva nella terra di nessuno, fra la doppia costituzione, la doppia morale di un paese schizoide, molto amato dalla gente purché non si conoscesse quel che aveva alle spalle. Non era un cattivo sindaco il Tognolino, era uno che si applicava seriamente, se doveva imparare il francese andava a passar le vacanze in Francia, con la moglie, piena immersione! uffici e ripartizioni li conosceva, era uno dei rari che quando arrivano nella stanza dei bottoni sanno quali premere e si capiva che aveva provato sul serio a fare il sindaco, il buon sindaco come i Ferrari, i Caldara. Non aveva l'arroganza dei seguaci di Craxi, non teorizzava il diritto dei politici al furto, per carità, al massimo alludeva, con una sua ironia, al fatto che qualcosa restava attaccato alle unghie dei partiti, cose di cui si parlava, ma chi sa? Come la volta che scrissi sull'inesistente, allora ed ora, depuratore di Nosedo che non si faceva mai perché tutti i partiti di governo e di opposizione continuavano a mangiare sui successivi progetti e i partiti neanche una piega, neanche una smentita, ma quelli di Democrazia proletaria di Magenta, chi sa perché proprio quelli di Magenta, avevano telefonato sdegnati ai compagni milanesi «compagni qui è scritto tutti, anche voi», così mi avevano querelato tanto per fare un poi di scena. Poi ci fu come al solito la remissione di querela e mentre firmava il Tognolino mi chiedeva con il suo sorriso da Mammolo «scusa ma a quale progetto alludevi, a quello del '70 o del '73? ». L'addetto stampa di Tognoli era il Tarozzi, un patito del melodramma che stava in municipio nella speranza di approdare alla Scala, faceva quel lavoro controvoglia e non mancava mai di sussurrarmi «un giorno o l'altro ti racconto tutto, cose negre». Sì, forse anche dal Tarozzi che era un amico avrei dovuto capire cosa ci stava negli armadi del comune, della socialdemocrazia meneghina e di tutti gli altri partiti. Tognoli con me, con i giornalisti in genere non era un corruttore, era uno gentile che ti avvolgeva in una amichevole complicità e questo spiega in parte la distratta omertà della stampa, il suo accontentarsi delle telefonate e delle veline. Anche con me Tognoli era solo gentile, ma di una gentilezza stramba. Mi chiedeva di scrivere un articolo «quel che vuoi tu, due o tre cartelle» per una rivista del comune, clandestina e non si capiva bene se era lui che faceva un favore a me o io a lui visto che pagava maluccio con assegni della tesoreria comunale che si perdeva mezza giornata a riscuoterli. Oppure mi faceva telefonare dal Tarozzi: «Il sindaco vorrebbe invitarti a pranzo». «Perché, cosa ha da dirmi?» «Chi lo sa, manda l'auto a prenderti». Così mi portava a pranzo in certi suoi ristorantini dalle parti di corso Garibaldi, la strada dei socialisti, io aspettavo che mi spiegasse perché mi aveva invitato, ma si arrivava al cognac, lui accendeva il suo grande sigaro e in una nube profumata intravedevo il suo sorriso di gentile scusa che ora finalmente capisco: amico mio, ma come posso raccontartele certe cose? Sono le verità amare che l'establishment milanese si rifiuta di vedere. Un giorno questo ceto incaricò il regista Ermanno Olmi di fare un film sulla metropoli e lui lo fece, la raccontò con le sue virtù e i suoi difetti, ma quando i maggiorenti lo videro storsero il viso, proibirono la sua proiezione, dava, dicevano, una cattiva immagine della città. Più Cartagine che Roma. La Milano centro è occupata dal mercantile, dal terziario che abbelliamo con l'aggettivo avanzato. Intere vie nobili della Milano borghese principio del secolo, le vie costruite dai Pirelli e dai Feltrinelli con solidità e rispettabilità di grandi portoni, di vestiboli marmorei, di facciate granitiche, sono occupate dal variegato popolo dei consulenti nelle discipline più impensabili meno la vecchissima della circonvenzione degli incapaci, consulenti in audience, in psicologia di massa, in fotografia gastronomica, in caccia ai talenti e te li immagini che escono la mattina in via Monti o in via Pagano con le loro bianche reti per acchiappar talenti. E quelli del «capitale umano», il capitale che ognuno si porta con sé nella testa, il know how, il conosci come, la nuova genia rampante che preoccupa l'economista Deaglio: «L'individualismo esasperato di queste imprese personali può compromettere l'avvenire della società dunque dei loro figli, può segare il ramo su cui stanno seduti». Milano Cartagine ha il suo cuore nella Camera di commercio che ha restaurato da poco il palazzo dei Giureconsulti e ha in progetto di ricreare il quadrato con la torre e la loggia medioevali, il cuore democratico che fronteggia quello aristocratico del Castello Sforzesco. Mi accompagnava nella visita una dottoressa con minigonna vertiginosa, bruna decisa consapevole, che quando si sedeva accavallando le gambe si intravedevano, eros fuggente, le mutandine rosa. Tutto multimediale e cablato, la sala delle videoconferenze in cui puoi collegarti per immagini con l'universo mondo, scambiare facce e idee o pseudoidee con quelli che stanno a Singapore o a Adelaide, la moltiplicazione comunicativa per i buoni affari e per le truffe, le sale e le salette piene di giapponesi, di russi, di keniani, che se ne torneranno a casa convinti che Milano sia questa misteriosa mescolanza di antico e di avveniristico, vai a una conferenza sulla chirurgia informatizzata e sotto le lastre di vetro vedi le pietre romane del teatro, in cui si distraeva dalle preoccupazioni di consularis, di amministratore della città, il trentenne Ambrogio poi diventato vescovo. L'eterna contraddizione di Milano, dei mercanti che vogliono abolire il principe ma che non sanno sostituirlo nel governo globale della città, il firmamento di poteri, di ricchezze che ossessionato dal presente non sa vedere il futuro e trascura il passato. Trecentocinquantamila imprese, la metà di quelle lombarde, il centro di informazioni collegato con 1200 banche dati di tutto il mondo e l'ufficio brevetti e invenzioni dove continuano ad arrivare gli inventori pazzi, quel tale della Valtellina che avendo saputo che le malattie sono causate dai microbi e dai virus proponeva di castrarli. Sia la mancanza di un principe, di un governo saldo e riconoscibile o la mentalità mercantile, la metropoli lombarda è di umori instabili, stagioni depressive si alternano a stagioni di euforia, a giorni di fiducia persino eccessiva altri di risacca totale. La stagione della paura, quando andavi al ristorante e ti chiudevano nella bussola per poterti osservare; quando uscivi di casa e trovavi i blocchi della polizia, dei baschi blu in attesa di cortei di lotta ma di lotta per cosa non si capiva. Una città che si eccita se l'indice del prodotto sale del due per cento e si veste a lutto se scende di altrettanto e allora i clienti dei taxi diminuiscono del trenta per cento e i ristoranti devono licenziare una parte del personale. Un anno attorno a piazza Affari le Ferrari e le Porsche degli yuppies, i giovani finanzieri rampanti che fanno miliardi in un'ora, e quello dopo gli stessi che si consolano raccontandosi la storiella: «Tu non riesci a dormire? Io dormo come un bambino, mi sveglio nel cuor della notte e mi metto a piangere, disperatamente». Una città dove gli individui sono già in corsa alle sette del mattino per non perdere un buon affare, ma dove la comunità perde occasioni uniche per acquistare una collezione d'arte come quella di Panza di Biumo o deve essere obbligata, forzata ad acquistare controvoglia la Jucker. Una città piena di gente onesta che si è rassegnata alla redistribuzione truffaldina, dove giorno e notte operano decine di migliaia di ladri che rubano anche ai ladri, sui vivi e sui morti come gli impresari delle pompe funebri che hanno fornito di telefonini gli autisti delle Croci o autoambulanze perché li avvisino se chi stanno trasportando sta per tirare le cuoia. "Se l'ho detto è perché lo penso." "Sappia che la considero un amico. Se ha bisogno di me mi troverà." «E poi?» «Poi basta, che poi vuoi che ci sia.» «Ma non ti sembra strano che questo tuo Cuccia tenga nel consiglio di amministrazione di Mediobanca dei condannati o dei latitanti o degli "avvisati" come Ligresti o Garofano? Sarà perché al Ligresti e al Garofano il liquido non gli manca?» «Io sono di Bollate e a Bollate dicono a pensà mal se fa peccaa ma s'induina. Questo Ligresti è arrivato dalla Sicilia chiamato da un suo paesan, il Michelangelo Virgillito che detto fra noi era un bru bru, signore della Borsa dei miei marroni, questo diventerà il padrone di Milano quand i murun faran l'üga, quando i gelsi faranno l'uva, hai capito? Tipi così bisogna metterli a posto come ha fatto l'Agnelli con il Carlo Pesenti che voleva sfidare la Fiat con la Lancia, quando il Pesenti è stato alla frutta ed è andato da Agnelli per vendergli la Lancia gli ha fatto fare un'ora di anticamera.» «Mica stupido questo Agnelli, lui più di una lira non tira fuori per comperarsi una fabbrica d'auto.» «Beh, altra classe.» «Ma tu Aldo, con tutte le cose che sai perché non scrivi un libro?» «Mai voluto, sono uno che non saprebbe tenersi. Oeih, ma tu mi fai mica un'intervista?» «No, è per un libro che uscirà fra due anni.» «Beh, allora sarò già morto.» L'Aldo si distrae, sembra vagare fra le sue memorie: «Lo sai che ero a Mauthausen e ho visto bruciare diecimila ebrei? Non lo sai? Ma di cosa stavamo parlando. Sì, del Ligresti. Diventa mio cliente nel '64. Lui dice che per fare i primi affari si è fatto prestare i soldi da una banca, ma per me ne aveva già e molti. Comunque affari suoi, pecunia non olet. Poi torna da me quando era già ricchissimo e mi dice di aiutarlo a scalare il cotonificio Valle Susa dei Riva. Voglio diventare il padrone, el diseva. Allora io gli dico: sciur Ligresti se lei vuol vivere bene a Milano non dica mai el padrun sun mi. Mi raccontava che il Virgillito era stato il suo maestro, ma era un montato il Virgillito non aveva capito niente della guerra fredda, puntava sulla svalutazione della lira e faceva il ribassista, ma gli ho rotto le ossa». «Scusami Aldo, ma tu che sei arrivato a Milano da Bollate con poche lire com'è che hai fatto fortuna?» «Perché ero politicizzato, i finanzieri di oggi non sono politicizzati, salvo il Cuccia.» «Vuoi dire che ti eri iscritto a un partito?» «Dài non fare il bamba, voglio dire uno che segue la politica e ne trae le conseguenze economiche. Ero un giovanotto e a Piazza Affari tutti leggevano il "Corriere" ma io mi ero abbonato a "L'Information" di Parigi, il migliore giornale economico d'Europa. Ricordo esattamente quel giorno 17 gennaio del 1934. Su "L'Information" c'era il discorso programmatico di Roosevelt, se vuoi te lo procuro, lo conservo in ufficio e tu, se non sei un ciula, trovi che a un certo punto il Roosevelt dice "dobbiamo assicurare una circolazione adeguata e sicura", dice proprio così, adeguata e sicura, hai capito?» «No, non ho capito.» «Ma come non hai capito, se il Roosevelt dice che vuole una circolazione adeguata e sicura vuol dire che la vuole aumentare e per aumentarla, lo sanno anche i bambini, deve rinforzare la riserva aurea. Hai afferrato?» «No.» Arriviamo alla riunione conclusiva all'Istituto autonomo case popolari e mi basta entrare nella sala per capire che sono lì che mercanteggiano i posti nella direzione. Ecco cosa intendo per politiche: tre posti a me, uno a te, due a lui e intanto nelle cantine ci sono settemila metri cubi di immondezze, sparse nei corridoi, per le scale. E sai perché? Perché i signori dell'istituto occupati tutto il santo giorno nelle lottizzazioni e nelle clientele sbagliano i preventivi, ignorano di che mezzi dispongono, mandano l'ordine di tirar fuori dalle cantine le immondezze, di metterle nei corridoi che passano a ritirarle, ma a un certo punto i camion non bastano o non bastano i soldi e settemila metri cubi di porcherie restano lì per mesi. Ah, ecco la mia signora Zanelli, cosa c'è signora Zanelli, sì so già quello che mi vuole dire, di quel balordo, ma oggi ho mille cose da fare, venga domani.» Ma la signora Zanelli continua ad avanzare senza camminare, galleggiando, come quei cavallucci marini che se ne vanno portati dalla corrente, ha un viso pallido, diafano la signora Zanelli e quei capelli ricci tinti sugo di carote, i capelli tinti della vecchiaia povera. Ma negli occhi slavati della signora Zanelli c'è una volontà impavida: «Signora Franca, quello è tornato». «Sì, lo so, signora Zanelli, domani lo cerco, gli parlo.» «Signora Franca, quello mi fa impazzire.» «Sì, lo so, signora Zanelli, porti pazienza, avrà le sue disgrazie anche lui.» Il cavalluccio marino oscilla davanti a noi poi spinto dalla corrente se ne va ondulante fuori dello stanzone, in qualche modo arriverà al quinto piano della scala sei, alloggio a fianco del balordo che di notte lavora ai mercati generali a scaricar cassette, ma di giorno non riesce a dormire, deve avere le sue fissazioni, passa ore a martellare sul lavandino o sulle pareti. «Lo mandi via signora Franca» hanno implorato i vicini. Sì, è una parola, chi li porta via i balordi? La Franca ha appena telefonato a quelli della Caritas che vengano a prendere il barbone che si è fatto un giaciglio in un cortile, una specie di canile, ma non vuole andarsene, dice che non sopporta il chiuso. «Adesso ti faccio vedere il quartiere» dice la Franca «ma prima ti mostro le zecche.» Le tiene in un barattolo nello sgabuzzino seminascosto dai manifesti. Nel fondo del barattolo ci sono le zecche, come piccoli siluri trasparenti, zecche di piccione. «La gente» dice la Franca «non vuol sentir ragione, specie i vecchi. "Bisogna mandar via i piccioni" dico e loro mi guardano male. "Ma no" dicono "vogliamo bene ai piccioni, sono buoni i piccioni." "Sì" dico "ma hanno le zecche." "No, i piccioni non hanno le zecche, le hanno i cani." Allora gli mostro il barattolo: "Sapete quanto hanno resistito vive qui dentro? Tre settimane e una può trasmettervi il Lima che è una infezione mortale, me lo ha detto il professor Baldacini di Parma". Ma non mi ascoltano, i piccioni sono gli unici esseri che abbiano bisogno di loro, a cui possano dare qualcosa, se dai da mangiare ai piccioni vuol dire che a questo mondo c'è qualcuno che ha bisogno di te, hai ancora un posto: una ragione.» Sono quindici anni che Franca Caffa ha smesso di fare la traduttrice e la vita di partito per stare qui al Calvairate a cercar di parare i guai di chi ci vive ed è come cercare di fermare un fiume con le mani. Insomma quando il Bruno Tassan Din che ha suonato stamani, primavera del '93, alla mia porta con la sua borsa piena di carte, arriva al «Corriere della Sera» si rende conto di essere caduto nell'occhio del ciclone: uno dei padroni, l'Andrea Rizzoli, se ne sta a Cannes con la giovane moglie e passa il tempo a buttare i soldi al casinò, gli altri padroni, i Carraro, fiutata l'aria si sono fatti liquidare la loro parte svuotando le casse dell'azienda, la tipografia è dominata da un onnipotente sindacato comunista. Non saprei dire se un tipo come Tassan Din, nominato direttore generale in una simile situazione, si penta o vada a festa, ma direi che è andato a festa, anche stamani non appare né provato né pentito, anche se visto da vicino è un poi diverso dalle fotografie, un poi meno Aramis, con mani grosse e nodose, il volto un po' asimmetrico, l'argentatura dei capelli da parrucchiere di lusso sempre quella. In lui c'è qualcosa di rude, di aggressivo. «Lei giunge in punto, caro Tassan Din, i giornali sono pieni di questo "conto protezione" in cui sarebbero finiti i miliardi che il Banco Ambrosiano faceva avere a Larini, Craxi e Martelli, almeno così si legge. Una vicenda intricata, forse lei potrebbe aiutarmi a capire.» Tassan Din posa sul tavolo la sua borsa, ne trae delle carte, gli leggo in faccia il compiacimento di chi sta per tenere una dotta e documentata lezione: «Voglio raccontarle un fatto curioso» attacca «sa cosa mi disse Furio Cicogna quando mi assunse al cotonificio? "Giovanotto," mi disse, "lei qui da noi cosa vorrebbe fare?" "L'imprenditore" risposi. "In che senso?" "Nel senso che l'imprenditore è uno che crea, che inventa." "Bravo!" disse Cicogna e questa è rimasta la filosofia della mia vita, creare, inventare.» «Sì certo, ma potrebbe raccontarmi come è andata questa storia del "conto protezione"?» Tassan Din mi ferma con un gesto della mano, lui non è un tipo che prende le scorciatoie, è uomo di memorie e di memoriali con tutte le loro belle date e codicilli e documentazione annessa. «Deve sapere che la situazione del "Corriere" al principio degli anni settanta era disastrosa: cento miliardi di debiti, nessuno degli azionisti disposto a tirar fuori una lira, dipendenti riottosi e ben decisi a non mollare i privilegi, i comodi. Tocca a me far navigare questo barcone sfondato e allora realisticamente prendo atto che è nelle mani del Mario.» «Che Mario?» «Lo Stefanoni, il comunista capo del sindacato, un bravo uomo però, meglio di tanti dirigenti. Stiamo studiando assieme la situazione quando ci arriva una voce che potrebbe essere un'offerta: se volete trovare i capitali che vi occorrono parlatene con il banchiere Ortolani e con il capo della P2 Licio Gelli.» «Così? Una voce?» «Non perdiamoci in particolari, dottore, andiamo a Roma io e l'Angelo da questo banchiere Ortolani, molto gentile e premuroso disposto ad aiutarci ma ci consiglia, se vogliamo trovare nuovi azionisti, di entrare nella massoneria. Io lì per lì non capisco bene, penso che voglia dirci di entrare nella massoneria finanziaria della Banca Commerciale, dei Cuccia. Ma no, lui vuol dirci proprio la massoneria del triangolo e della cazzuola. Guardo Angelo e lui mi fa una faccia come dire: se serve, perché no? Ci portano subito a palazzo Giustiniani dove ci attende Licio Gelli. Celebra un certo Gasperini tutto bardato da massone, faccio fatica a non ridere, immagino che Angelo se la riderà sotto i baffoni e la barba. Il celebrante fa un discorso sull'uomo muratore che costruisce il mondo e l'universo e alla fine viene ad annunciarci che siamo fratelli e che possiamo abbracciarlo.» «E Licio Gelli?» «Mi lasci dire, mi lasci spiegare la manovra. Dunque il "Corriere" è pieno di debiti e questi si offrono di entrarci. Allora che faccio? Faccio entrare in campo Bruno Visentini.» «Visentini, quello della Olivetti, il repubblicano? E perché?» «Ma perché è l'uomo di Carlo.» «Carlo chi?» «L'ingegnere, De Benedetti.» «Ma che c'entra De Benedetti?» «Punta anche lui al "Corriere".» «Ah, capisco, voleva tenere sulla corda il Gelli e l'Ortolani.» Tassan Din sorride soddisfatto, finalmente anche questo allievo zuccone incomincia a ragionare. «Ci vediamo una decina di volte, Visentini è una bella testa, uno che ragiona e a un certo punto mi porta dall'ingegnere. Lei sa come è Carlo, sicuro, tranchant, con tutto il progetto di rilancio già chiaro in testa, solo che ha poche lire, può disporre al massimo di cinquanta miliardi.» «Ma Craxi e Martelli quando arrivano?» «Il compagno Dell'Unto ha detto che il caso di Bettino Craxi non è politico ma sanitario. Certo, toglierlo dalle sue idee fisse risultava impossibile. Lui aveva il suo teorema e nessuno poteva schiodarcelo. Lui pensava e diceva: siamo in una botte di ferro. Se i comunisti si aggregano a noi io sarò il leader e il PSI guiderà la sinistra, se non si aggregano vadano alla malora, noi ci teniamo stretti alla Democrazia cristiana che deve darci il Quirinale o Palazzo Chigi. Il Quirinale non me lo daranno e del resto io non lo voglio, sono troppo giovane. Ma se torno per quattro anni al governo recupero la situazione economica, arrivo al diciotto per cento dei voti e allora siamo il partito dominante. Molti nel partito hanno creduto che quel teorema fosse inoppugnabile: i comunisti erano sotto choc, divisi, la Democrazia Cristiana appariva inerte, per certi aspetti rassegnata, noi sembravamo un partito compatto dietro una guida sicura. Ma non avevamo capito o previsto alcune cose fondamentali: che la caduta del comunismo avrebbe cancellato le certezze della guerra fredda, anche le nostre; che la recessione economica era una faccenda seria, mondiale, non risolvibile in quattro e quattr'otto dal decisionismo craxiano, ci avrebbe messo alle corde, avrebbe rivelato al paese che il nostro era un partito improvvisato economicamente, senza trincee alle spalle. Un partito che aveva ancora un notevole margine di espansione, di simpatizzanti se le cose fossero andate bene, ma con uno zoccolo duro, sicuro non superiore al dieci per cento dei voti, il resto era fuffa che sarebbe volata via alla prima difficoltà. Nelle difficoltà la DC avrebbe tenuto meglio di noi. Poi c'è stata la testarda supponente sottovalutazione della Lega. Eppure non mancavano le informazioni, i sondaggi parlavano chiaro anche se facevamo a gara noi di Milano e quelli di Roma a nasconderceli. La maggioranza degli intervistati erano gente a reddito unico terrorizzati dall'idea di dover retrocedere dal benessere grande o piccolo che avevano raggiunto. Alla domanda di che cosa avete paura rispondevano: abbiamo paura che faccia bancarotta la sanità e abbiamo paura della criminalità. Ma erano chiaramente dei paraventi dietro cui si nascondeva la paura vera, perdere il posto, avere il reddito ridotto. La prova era che appena apparivano sui giornali delle dichiarazioni ottimistiche della Banca d'Italia o di Agnelli i timori per la sanità e la criminalità sparivano dalle risposte. I sondaggi davano indicazioni inquietanti: il sessanta per cento degli interrogati era pronto a cambiare il suo voto, molti erano disponibili alla Lega, comunque non la consideravano un pericolo. Alla domanda sui difetti dei partiti, i più rispondevano: il PDS non mi piace perché è scombinato, la DC ha ancora dalla sua i cattolici ma è vecchia inerte, la Lega non sa governare. E di noi socialisti cosa pensate? Rispondevano: siete un partito moderno, ma clientelare. Se si insisteva, se gli si chiedeva genericamente che cosa ne pensava la gente di noi allora sinceramente rispondevano: pensano che siete dei ladri. Io mandavo questi sondaggi a Craxi, che però non li faceva avere ad altre federazioni, e meno che mai a quei dirigenti che considerava come infidi. In quella ci capitò fra capo e collo la botta di Mario Chiesa, ma Bettino non voleva arrendersi, credette di cavarsela dandogli del "mariuolo". La campagna elettorale non consentiva dubbi, Bossi faceva dei comizi in piazza davanti a migliaia di persone, Bettino doveva accontentarsi di parlare in un teatro, in un cinema davanti a cento persone.» «Pensi di tornare alla politica?» «Non so, non mi sento di fare previsioni, certo che la bruciatura è stata forte e dolorosa.» Il cinghialone accerchiato. La prima delle riflessioni è sull'eclisse totale dei valori di questo ceto dirigente, dei manager, dei finanzieri, dei politici che hanno dominato la scena italiana. Neppure il denaro ha rappresentato per questo ceto un valore rispettabile e neppure oggi lo rappresenta. Se è vero come sembra vero, dato ciò che veniamo scoprendo nei suoi armadi, che per questo coacervo di potenti non contava più minimamente la morale comune, il rispetto del prossimo, il patriottismo di nazione e di partito, il senso dello stato e di una minima coesistenza o compatibilità fra gli umili e i potenti, fra i cittadini di serie B e di serie A, c'era da pensare che essendo rimasto il denaro come l'unico obbiettivo di vita, come l'unico simbolo del successo e del potere ad esso almeno si attribuisse una residua importanza, un residuo punto di riferimento nelle colpe e nelle pene; che sopravvivesse almeno quella morale del denaro che nel secolo borghese faceva dei bancarottieri i più imperdonabili dei delinquenti perché avevano compiuto il reato sommo, avevano derubato, frodato i loro simili. Questa concezione del denaro come valore sommo nel bene come nel male risulta molto parziale per non dire assente nel ceto di potere che ora vediamo al suo crepuscolo. Da ciò che dicono gli inquisiti, da ciò che si propone o si discute nel parlamento par di capire che andrebbe bene per questi signori, per questo paese la filosofia partenopea del «chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato»; che insomma andrebbe bene per la generalità degli inquisiti la sorte toccata al mariuolo Mario Chiesa che ha contrattato la sua libertà, ha restituito una parte del maltolto e ora tiene lezioni in televisione di furto pubblico dando dell'ingenuo ai telespettatori che ancora non hanno capito che la politica italiana era un bordello. Una seconda riflessione va pur fatta sulla perdurante schizofrenia fra le due giustizie, la giustizia a volte dura e durissima dei magistrati verso i cittadini non protetti dall'immunità parlamentare e la non giustizia del parlamento cioè del luogo più alto di una democrazia, il luogo in cui si formano le leggi a cui i cittadini devono obbedire. Ma come può la difesa dell'immunità ignorare che essa significa oggi la negazione, lo svuotamento anzi il rovesciamento della funzione parlamentare. Bossi e la Lega sono grossolani, demagogici nella proposta di uno sciopero fiscale, ma la gente anche senza Bossi ha gli elementi per giudicare inaccettabile un parlamento che decide di imporre ai cittadini un nuovo balzello, e balzello non da poco, quello delle ottantacinquemila lire a ogni componente di una famiglia per il medico, con la giustificazione che la sanità è bisognosa di soldi, è una barca che affonda e poi copre uno dei massimi responsabili di questo naufragio, il ministro De Lorenzo. Il rigore di giudici come De Pasquale, che ultimo arrivato nell'inchiesta sull'ENI e su Cagliari si è sentito autorizzato a usare una severità burocratica che i suoi stessi colleghi giudicano eccessiva, può essere criticato, ma che dire della frustrazione, del senso di impotenza dei giudici napoletani che hanno chiesto l'arresto di De Lorenzo e vedono, leggono, sanno che l'ex ministro se ne va a Londra, manda i soldi all'estero, continua a far scomparire le prove della sua corruzione e concussione? Che dovrebbero dire i giudici milanesi i quali dopo aver mandato alla Camera almeno trenta capi di imputazione per Bettino Craxi leggono, sentono dei suoi viaggi in aerei non di linea fra il Cairo e Parigi? CACCIA ALLE VOLPI. Le tre lettere. Sembra un titolo da romanzo ottocentesco: le tre lettere. Lettere d'amore, di sangue, di vendetta? No, lettere di impegno da parte della immobiliare Ligresti a vendere al comune di Milano delle aree da destinare a verde pubblico a prezzo bassissimo. Ma chi governa il comune di Milano nel 1985 quando viene fuori questa storia in una città che si è come bloccata nella morsa dei partiti e dei grandi interessi speculativi? Governa una giunta rossa, nel municipio dove stanno da sempre i socialisti sono arrivati i «castori», i bravi volonterosi amministratori comunisti che non adoperano le auto del comune, posteggiano ordinatamente di primo mattino le loro utilitarie nel cortile di palazzo Marino. Integerrimi e un po' coglioni. Sono arrivati a palazzo Marino come Alice nel paese delle meraviglie, non ci speravano più, ma il Tognolino li ha ripescati dalla cintura rossa dove hanno tirato la carretta del partito: il tesseramento, le elezioni, i comizi, le sedi povere vicine alle stazioni del metrò fra Sesto San Giovanni e Lambrate, gli Inti Illimani, i gagliardetti dei compagni vietnamiti, i panini e le salsicce delle feste dell'Unità, l'austerità del compagno Berlinguer, una due volte all'anno in centro per lo sciopero generale o il corteo del Primo maggio e inaspettatamente, grazie al Tognolino che dei democristiani non si fida, eccoli in piazza Scala a trattare da pari a pari con dei draghi della finanza come Ligresti, Cabassi, Berlusconi. Da pari a pari per modo di dire perché quelli sono sempre dei tipi che nelle banche e nelle finanziarie sono di casa, che le lire ce le hanno e nel 1985 i compagni comunisti hanno incominciato a capire che senza lire di strada se ne fa poca e che alla base l'austerità piace mica tanto, «la politica di tirar la cinghia» la chiamano i compagni. I «castori» stanno sempre dalla parte della Russia e della Falce e Martello, ma questo è il momento della modernizzazione, come dice sempre quel drago di Bettino Craxi. Così i compagni Quercioli e Taramelli e Mottini, Dio li abbia in gloria, si trovano in federazione in via Volturno e si dicono che bisogna superare i vecchi steccati, smetterla con lo scontro frontale con i capitalisti, cerchiamo piuttosto di adoperarli per la città, per la gente che ci dà il voto e che ha bisogno di case. I «castori» scoprono che le case le fanno le grandi immobiliari e che il più lesto e ricco e pronto a tutto è Salvatore Ligresti. Ma sì, mettiamoci d'accordo con lui, facciamolo con lui il «piano casa», perché la prima cosa da fare per rendere accettabile una grande speculazione è di farla diventare un piano. Per cominciare quarantamila alloggi dalle parti di via Missaglia a sud, dove la città sembra sprofondare nelle marcite, nelle loro nebbie e nelle loro zanzare. Di chi sono i terreni? Beh, è chiaro sono di Ligresti. Che un uccellino gli sia volato sulla spalla per cinguettargli che il comune ha l'intenzione di renderli edificabili? In Italia ci sono solo due tipi di persone a cui gli uccellini si posano sulla spalla per cinguettare, i san Francesco o i Ligresti, Cabassi e Berlusconi, i poverissimi o i ricchissimi, mai delle vie di mezzo. Comunque faccende che riguardano le precedenti amministrazioni in cui c'erano quegli altri figli di buona donna che sono i democristiani. I «castori» hanno da tempo in municipio una buona informatrice, la compagna Maria Grazia Curletti, l'avvocato Curletti che fila anche in perfetto accordo con Ligresti. Che più? La Curletti dirige il dipartimento dell'Urbanistica e il sindaco Tognoli la stima moltissimo. Com'è come non è, l'assessore comunista all'Urbanistica Mottini rinvia l'acquisto dei terreni offerti da Ligresti e la Curletti dimentica le tre lettere in un cassetto del suo archivio, fin che resta la giunta rossa come non esistessero. Ma quel drago di Craxi non può governare a Roma con il Caf, con i democristiani Andreotti e Forlani e stare a Milano con i comunisti e così i «castori» devono risalire sulle loro utilitarie e tornare in via Volturno o a Sesto San Giovanni. All'Urbanistica arriva il conte Carlo Radice Fossati, della famiglia immobiliare omonima cui la DC si è affidata, tanto per non sbagliare. Il conte Radice Fossati è un giovane signore con gli occhi azzurri e i capelli biondi, mica tanto diverso da Ligresti, Cabassi e Berlusconi, solo un poi meno furbo tanto che si farà pescare a versare una tangente da un miliardo per ottenere una cava. Non li ho mai capiti i nostri ecologisti, di professione e dilettanti. Dopo aver affossato il nucleare vogliono anche bloccare le centrali termoelettriche. Sono contro il carbone, sono contro la riconversione di Montalto di Castro, viene il sospetto, vi dicevo, che per stupidità o tornaconto assecondino le tangenti di andata e ritorno. E basterebbe l'uso che fanno dell'orribile parola sito per averli in uggia. Sito, capite, preziosino è un po' professorale, invece di luogo, di posto. Sito, parola mai usata nell'italiano corrente. Per via degli ecologisti che sono sorti in tutti i villaggi della penisola e delle isole l'italiano è contro l'inquinamento e perciò non concede il suo sito, il sito è un'arma per transazioni e ricatti inventata da questi nuovi filantropi. Hanno capito tutto sugli errori della civiltà industriale vorace e avvelenatrice salvo una cosa, ma fondamentale: che o si salverà per la sua stessa voracità e dinamismo inventando nuove energie o andrà alla sua autodistruzione alla faccia di tutti i suoi mentori verdi. Si tocca il ridicolo in svariate occasioni, ma il massimo con le navi dei veleni e con Chernobyl. Il problema tecnico e ambientale del blocco delle navi nei porti italiani è inesistente, posteggiare navi di ventimila tonnellate in porti quasi vuoti di traffico è un lavoro da bambini, il pericolo di inquinamento è nullo, i rifiuti industriali non sono una bomba batteriologica e stanno chiusi dentro fusti di ferro. Ma le donne di Manfredonia si stracciano le vesti, anche quelle fatte di nailon o di altro materiale sintetico prodotto dalla odiata chimica della odiatissima industria. «Ci rovinate la nostra bella aria, il nostro bel sole.» Perché, preferite la fame e il colera dei bei tempi andati? Scrivono anche al presidente della repubblica: «salvate la vita dei nostri figli». Giorgio Ruffolo, ministro dell'Ambiente va a Natale ad Augusta dove è bloccata una nave con equipaggio tedesco. Quelli di Augusta non li lasciano scendere a terra, hanno teso un cordone sanitario come se fossero degli untori. «Venne sulla banchina in corteo» ricorda Ruffolo «una delegazione cittadina guidata dal parroco. "Signor ministro", disse il parroco, "domani bloccheremo il porto e non ce ne andremo fin che la nave non sarà partita." "Bene" gli dissi "ma venite con le maschere antigas." E gli indicai la coltre di fumi viola e nerastri che pesava sulla loro città circondata dai petrolchimici e oscurava il cielo. Non apprezzarono la battuta, non accettarono una verità evidente, era molto più inquinata e inquinante la loro città che non la nave dei rifiuti. Ma in fatto di inquinamento la gente non ragiona: ho seguito per anni le battaglie degli ecologisti della Val Bormida contro l'inquinamento dell'Acna, la fabbrica della Montedison. Avevano perfettamente ragione e decisi di vincere con la ragione quella battaglia, obbligai la Montedison a spendere un sacco di soldi per togliere anche il minimo inquinamento. Ci sono riuscito, ma sulla vicenda è sceso il più assoluto silenzio, nessuno di quelli che gridavano all'inquinamento ha ammesso che fosse finito.» Quel che colpisce nelle isterie ecologiste è la irrazionalità. Una maestra di Manfredonia mi aveva scritto una lettera in cui mi chiedeva: «Quale sarà il nostro futuro, il futuro dei nostri figli se l'Enichem continuerà a somministrarci i suoi veleni?». Le risposi che ero stato a Manfredonia qualche anno prima e che avevo scritto alcuni articoli sulla richiesta che la cittadinanza faceva di una industria pubblica, sulle lettere che da Manfredonia partivano dirette al governo e ai giornali per chiedere: «Quale sarà il nostro futuro, il futuro dei nostri figli se l'industria di stato ci dimentica?». Mi rispose con insulti. Cosa non abbiamo sentito e visto nei giorni di Chernobyl? Gli ortolani disoccupati, nessuno voleva più gli ortaggi radioattivi, quelli che giravano per le città con le mascherine, quelli che per andare in un parco si mettevano gli stivaloni di gomma. E anche i luminari, anche quel noto professore di fisica che visitai nella sua casa sul lago di Como sosteneva che quello era il punto più radioattivo d'Europa e con una pompa lavava i pavimenti e il giardinetto. «Possiamo considerare la Brianza come la vera roccaforte della Lega?» «Direi di sì. Qui vivono un milione e quattrocentomila persone che hanno la più alta produttività d'Italia, siamo al livello di Monaco di Baviera o del Rhône Alpes. Penso che arriveremo presto al quaranta per cento dei voti. Abbiamo un esercito di militanti perché abbiamo molti giovani e molti pensionati che non lavorano e sono disponibili, gratuitamente. La nostra base storica sono i piccoli imprenditori, i commercianti, gli artigiani, quelli che la sinistra burocratica e parassitaria considera borghesume ignorante. Non sa che le conoscenze tecniche e organizzative si rinnovano ogni quattro o cinque anni e che questi produttori sono di gran lunga più colti ed avanzati di lei. Bossi ha capito che in questo mondo in rapido e continuo mutamento non bisogna darsi degli steccati ideologici, ma semplicemente delle strutture agili capaci di nuotare nelle correnti del mutamento.» «In buona sostanza lei dice che ci sono tutti gli elementi per una fase rivoluzionaria: una nuova borghesia produttrice, una crisi delle istituzioni, una sordità del ceto politico.» «Mi pare di vedere la ineluttabilità, la slavina delle rivoluzioni. La Lega non ha idee precostituite, vive nel mutamento, è essa stessa un prodotto, un effetto del mutamento. Ma non è soltanto una conseguenza dell'economia, è anche una reazione all'economia: i cittadini non sono disposti ad uscire dalla subalternità allo stato per cadere nella subalternità ai grandi potentati economici e ai loro "comitati di affari" insediati nei governi. Essi non intendono essere più soltanto dei produttori o dei lavoratori, vogliono essere dei cittadini cioè persone che hanno un controllo della res publica, delle istituzioni. Che cosa è la Lega? Direi la Lombardia che ha ripreso a camminare.» «Già, ma il resto del paese teme che la marcia dei lombardi non potrà essere seguita dalle regioni più povere.» «Su questo tema si deve essere molto chiari, non si può aprire una discussione seria sulle menzogne. I privilegi del Sud sono intollerabili e non tanto per una questione di equità quanto per una questione di funzionamento. Per cominciare il privilegio elettorale: per essere eletti nel Nord ci vogliono 60.000 voti ma nel Sud ne bastano 40.000. Sono andato a vedermi il bilancio dell'azienda trasporti di Benevento che ha una popolazione simile alla nostra. Incassi 46 milioni, costi 7 miliardi di cui la metà in stipendi. Chi li paga? Lo stato. La violazione della legge è la norma. Tutti o quasi nel Sud denunciano il consumo di metano ad uso di cucina e nessuno ad uso di riscaldamento, il che vuol dire risparmiare in I.V.A. il quindici per cento; il settanta per cento delle case non sono registrate al catasto. Altro che Nord egoista, qui c'è un Nord babbione che paga per tutti. Se non ci difendiamo i bizantini ci mangeranno vivi.» I nemici veri, implacabili di Aldo Moltifiori sono i bizantini. Non sono riuscito a capire bene chi siano per lui questi odiosi temibili bizantini. Se quelli della storia, greculi e levantini mandati dalla perfida Bisanzio a far guerra agli onesti e generosi longobardi dalle lunghe lance o più vagamente il Terzo mondo libanese e libico che per i leghisti è il vaso di ogni decadenza e nefandezza. L'Italia colta sorride a questo vago localismo, a questa mescolanza di fantasie storiche, paura del naufragio, desiderio di restare aggrappati all'Europa e antiche memorie di passi alpini per cui si arrivava nelle pingui terre di Borgogna, nei feudi opimi della Baviera, nelle grandi foreste seguendo i corsi dei grandi fiumi europei, il Reno, il Danubio, il Rodano. Sì, non c'è niente di scientifico, di serio storicamente in questa ricerca di una inesistente nazione lombarda, ma quel che l'Italia centralista non capisce è che la forza di questo vago localismo sta nel suo desiderio, che per questi della Lega, ma non solo per loro, una Lombardia europea esiste se non altro come meta, come ambizione e certamente come passato. Questa voglia dei leghisti di avere un passato da difendere può essere irrisa al vaglio degli storici, ma è una forza sociale, una differenza dagli italiani scettici, rassegnati. Dico al cardinale che ormai deve considerarsi un oracolo milanese anche nella politica, che non può fingere di non essere un personaggio anche politico e lui dissente: «Non credo di essere coinvolto nella politica. La conosco poco, il mio mestiere è un altro, di rileggere il Vangelo nel contemporaneo dopo duemila anni, di vivere il Vangelo nell'oggi. Non credo che questo sia far politica, non credo che occuparsi di fede, di speranza, di carità sia politica. La politica è un'altra cosa, una funzione sociale necessaria e a me fa piacere che i cittadini di questa diocesi continuino a votare in grande numero, più che in altre grandi città straniere. E' un segno che l'attaccamento alla democrazia è forte.» «Eminenza, lei è da tredici anni l'arcivescovo di Milano: si sente di fare un bilancio di questa sua esperienza?» «Dicono che per fare un bilancio di un'epoca ci vogliano almeno venticinque anni. Se dovessi descrivere con una immagine la Chiesa ambrosiana direi che è una grande nave, costruita bene, solida che tiene bene il mare anche con la tempesta. E proprio perché è solida, forte, pesante tende agli allungamenti temporali, ad accogliere le novità con prudenza. Ma non è sorda, è ricettiva.» «Se non sbaglio anche la sua Chiesa è localista, lombarda.» «Quando un'organizzazione è grande e forte ha la tentazione dell'autosufficienza, ma ripeto non è un localismo chiuso. Pensi ai milioni di immigrati che abbiamo accolto.» «Lei ha detto che la sua diocesi oggi è il doppio di quella del cardinale Schuster, alla fine del fascismo. Si riferisce al numero degli abitanti o anche alla superficie?» «A molte misure di paragone. Ai tempi di san Carlo la diocesi aveva un milione di fedeli, negli anni di Schuster due milioni e mezzo, oggi più di cinque milioni. Negli anni di san Carlo le parrocchie erano cinquecento adesso sono più di mille. Il clero lombardo è un clero pratico, di preti che si danno da fare. Hanno resistito alle ondate migratorie, si sono tirati su le maniche per costruire la loro baracca, la chiesa, l'oratorio, il campo di calcio per i ragazzi. Non posso chiedergli di lavorare di più, devo chiedergli di non rovinarsi la salute.» «Visitando la metropoli ho constatato, sbalordito, la scomparsa dei partiti. Una dopo l'altra le sedi si sono chiuse, una dopo l'altra le bandiere rosse o quelle dello scudo crociato sono state ammainate, l'unico centro di vita sociale sono le parrocchie. Direi, mi corregga se sbaglio, che questo è il portato inevitabile di una politica intesa come puro potere, come ricerca dei soldi per comperare le tessere. In tutta la metropoli povera, dove non c'erano soldi da raccogliere, i politici privi di spirito di servizio hanno chiuso bottega.» «Mi pare che questi preti lombardi abbiano certamente un grande spirito di servizio. Lavorano, vivono con grandissima umiltà. E' gente che non chiede niente per sé.» «Una chiesa localista, la lombarda, con quei suoi santi ingombrantissimi come san Carlo, il san Carlone che sta con la sua mole sopra il lago Maggiore quasi a far da argine alla Riforma. Non si è sentito un poi intimorito da questo predecessore? Mi dicono che se lo sognasse e che svegliandosi di soprassalto si dicesse: sì d'accordo tu a quest'ora eri già in piedi a pregare, ma io non sono forte come te.» Il cardinale sorride: «Non solo san Carlo, ma anche monsignor Ferrari che tenne questa cattedra per venticinque anni e il cardinale Schuster e Montini. Ma io mi dico: loro sono santi e io faccio quello che posso.» «Il localismo della chiesa lombarda è solo liturgico o c'è anche una diversità religiosa?» «C'è la diversità dei testi, c'è il fatto che la Chiesa lombarda è di quelle che hanno resistito al modello della Chiesa romana con le sue preghiere, con il suo calendario. Un invito alla storia vorrei farlo ai milanesi, dovrebbero curarsi più della loro storia.» Senza pungolo, senza paura, senza confronto si va al sonno e alla decadenza. La colpa più grave dei partiti portatori di ideologie salvifiche è stata di affidare la modernizzazione del paese, la sua sopravvivenza, agli automatismi del marxismo e ai provvidenzialismi cattolici che nella pratica italiana propagandata dal sociologo De Rita si sono tradotti in una serie di compromessi «alla ciociara». Siamo ottimisti perché alla sfida dell'Europa hanno risposto i medi e piccoli produttori che non partecipano alle paludate riunioni della Confindustria ma sono il nerbo della nostra economia. Siamo ottimisti perché abbiamo misurato nei mesi scorsi il peso immane dei pedaggi che la partitocrazia richiedeva al paese. Parliamo di cifre, non di elucubrazioni. L'ultimo appalto della metropolitana milanese è stato aggiudicato a una cifra del quaranta per cento inferiore e le spese per le manutenzioni del comune sono diminuite del cinquanta per cento. Il che vuol dire che la quantità di denaro ingoiato dalla burocrazia dei partiti per spese improduttive, per un tenore di vita e consumi del tutto sproporzionati al poco e cattivo fornito dalla funzione politica era enorme, superiore alle nostre peggiori immaginazioni. Allibiti veniamo a sapere di sperperi colossali, l'Eni di Capria e di De Michelis che paga il contratto per il gas algerino 600 miliardi più del giusto, l'Enel che paga o accetta tangenti per fare il suo mestiere di costruire centrali. Allibiti ci rendiamo conto che le nostre massime aziende di stato già in situazione pericolante per le burrasche del mercato mondiale, per le incognite delle guerre periferiche, per le recessioni, per gli scandali, per le inadempienze di clienti poco affidabili, si permettevano di buttare dalla finestra migliaia di miliardi. Quel Di Donna amministratore dell'Eni che secondo Tassan Din, allora amministratore delegato della Rizzoli-Corriere della Sera, si vantava di «guadagnare migliaia di miliardi solo con i cambi» e di distribuirli a suo piacimento fra i partiti, i massoni della P2, il Banco Ambrosiano di Calvi e, non dimentichiamola, la finanza bancarottiera del Vaticano! Anche oggi si fa una enorme fatica a spiegare allo snobismo anti Lega della nostra sinistra che le preoccupazioni per un futuro affidato alla rozzezza, all'improvvisazione, al populismo di Bossi e dei suoi seguaci vengono dopo e non prima di un rifiuto totale del passato, dopo e non prima di una piena confessione dei nostri errori e delle nostre complicità. perché qui non si tratta di paragonare l'amministrazione rischiosa della Lega a un'altra amministrazione, ma a una non amministrazione, a una non economia, all'assenza totale di un pensiero del bene comune. Credo che in questo e in altri libri si sia dimostrato che da decenni ai partiti non interessavano più le opere di cui la gente aveva bisogno, ma le opere su cui più facilmente i partiti potevano rubare. Forse molti non si rendono conto che la decadenza e la fine del sistema partitocratico hanno ripetuto tutti i mali e inevitabili passi degli imperi decadenti, l'oscuramento della moralità, della filosofia di servizio, la moltiplicazione del debito pubblico invano inseguita dalla moltiplicazione dei tributi. La sola differenza è che alle frontiere dei grandi imperi storici c'erano i barbari pronti alla invasione cruenta e palingenetica mentre noi - e non sappiamo se sia un bene o un male - i barbari della Lega li abbiamo in casa e disponibili per una rivoluzione pacifica. Siamo moderatamente, ma fermamente ottimisti per esserci gettati il peggio dietro le spalle. Quando scelsi come titolo al mio libro sul Sud L'inferno pensavo più alla violenza e al sangue di quella sventurata parte dell'Italia che non alla punizione dei peccati; pensavo più alle perfide combinazioni della storia, della geografia, di una modernizzazione caotica che non alle offese alla morale che sono spesso, se non sempre, offese alla ragione. Ma ora, allibiti, di fronte ai miseri resti di quelli che furono per decenni gli onnipotenti signori della politica e della finanza ci pare adatta ad essi l'immagine dei conquistadores spagnoli morti «nella triste notte, sotto il peso dell'oro».