/<1993>/ Nelle nuove avventure che sto per raccontare, Tano conserva una sua parte ben viva, ma con una variante: egli è fuggito dalla moglie, bizzosa e dispotica, che lo maltrattava anche alla presenza dei figli, magari seduti a tavola, che diventavano a loro volta rissosi. Pranzi e cene, un continuo litigio. Allora Tano ci pensava su un attimo, e d'improvviso non udiva più le grida e gli insulti; guardava in alto, sorrideva al soffitto e galleggiava dalla sua sedia a capotavola, restando fermo nel vuoto e così sentendosi un piccolo dio, con le braccia disposte come quelle dei santi. La moglie e i figli lo contemplavano con soggezione, scrutandosi fra loro, finché la pace non tornava e uno sussurrava a Tano: «Papà, puoi scendere, ora...» Riacquistata la libertà, l'amico non si solleva più da terra, e dalle pene terrene, per rabbia o dispetto, bensì per puro diletto e voluttà, soprattutto per incantare le donne, che si lasciano conquistare dal suo potere, essendo diventato un accanito cacciatore di amanti, di cui si innamora ogni volta alla follia. Tano ha lasciato la moglie, ma non la bislacca capretta bianca, Malù, che si trascinava dietro per i campi, spettatrice privilegiata delle sue esibizioni solitarie. Egli la fermava di fronte a un albero poi, con fulminea grazia, si sollevava a mezz'aria: avvezza al prodigio, la capretta belava, come se applaudisse, con occhi mansueti e pazienti. Ora, Tano ce l'ha su in un terrazzino, Malù, che bela il suo rimpianto per le campagne perdute e crea qualche inconveniente con le amanti di turno. Ma non c'è solo Malù. Tano si è rivelato un autentico talento dell'umorismo e dello spirito beffardo, nonché aggregante profeta di personaggi non meno di lui fuori norma. Insomma, si è formata una combriccola di amici spiritosi e sensuali, a cui mi accompagno spesso, di cui avrò modo di parlare. Fra costoro, Alessio primeggia. ... mi rifugio, anche, davanti al telescopio dell'amico Alessio, che io chiamo l'Omino Alessio. Ci siamo conosciuti facendo discorsi sul Sesto Senso che, a differenza dei cinque sensi ordinari (funzioni per cui l'essere vivente raccoglie gli stimoli provenienti dal mondo esterno e dai propri organi), percepisce per vie extranormali i segnali dalle nostre profondità insondate, dall'Oltre di noi stessi. L'amico sostiene: «Anche l'Universo ha un Sesto Senso.» L'Omino Alessio va ascoltato con la pazienza sorridente che si concede ai bambini, perché i suoi concetti per lo più si aggrovigliano, ma a volte esplodono come fuochi d'artificio, e qualche illuminazione lascia il segno. Egli spiega: «E' Dio... Dio è il Sesto Senso dell'Universo.» E riferendosi al mio caso: «Dei cinque sensi di cui hai trattato l'incanto, il Sesto è il padre, il profeta. Nulla e nessuno lo può incantare. Perché è lui, l'Incantatore» La nostra società va in cancrena? Ma è chiaro. Essa ha perso tragicamente questo grande ispiratore, che più non la conduce, e si abbandona fino all'inerzia al Lucifero dei sensi, negazione massima della loro armonia: il Senso Obbligato!» perché l'Omino Alessio ha un telescopio? Per spiegarlo bisogna riportarsi al momento in cui, da ragazzo - ora ha settant'anni e una vitalità sorprendente - ebbe la prima illuminazione di fronte all'orizzonte del mare Adriatico, e capì che era suo destino diventare, oltre che un sorprendente esperto, un anarchico ideologo, appunto, del Sesto Senso. Me l'ha raccontata cento volte, questa storia. Il 26 luglio del '34, l'Italia aspettò, come ospite di pace, il Presidente dell'Austria, Engelbert Dollfuss. Già di mattina presto, una gran folla era in attesa davanti all'albergo Regina di Cattolica. Ma le ore passavano e nessuno arrivava. L'Omino Alessio scrutava il mare con un'emozione mai conosciuta prima, che lo faceva sentire il messaggero di una verità immensa, e lottò con se stesso, tremò, ritenendosi indegno di quell'annuncio che gli sembrava avere qualcosa di divino. Poi si decise ed esclamò: «Il Presidente Dollfuss non arriverà.» Lo derisero. Solo al tramonto spuntò il motoscafo. Vedendolo che si ingrandiva e tagliava le onde con imperiosa dirittura, cercarono di riconoscerne la bandiera, ma nessuno avvistava bandiere, giustificandosi col fatto che l'imbarcazione correva metà in luce e metà nel riflesso verde scuro del sole calante. Una telefonata con Rol. La più appassionata che io ricordi da molto tempo. Comincia dicendomi: «La tua sensibilità sta conquistando sempre nuovi poteri. Ben oltre il semplice batticuore della premonizione, le profezie del sogno. Ma essi si scontrano, in te, col timore dell'assurdo, da cui non ti sei ancora liberato. Accadde anche a me... Un giorno ebbi finalmente la certezza di aver acquistato "una sensazione verde profonda", così ricordo di averla definita nel mio diario. E si accompagnò a un timore simile al tuo.» Gli chiedo di spiegarmi. Segue un lungo silenzio. I silenzi di Rol, al telefono, sembrano perdersi lontano. Ascolto il suo respiro. Spiega: «Occupati di tua madre, prendila per mano, portala a vivere ciò che non ha vissuto per anni... Tu ora sei in grado di farlo. E lei reggerà alla prova!» Mi saluta, stranamente, con un bacio. Una formula di saluto che non gli riconosco, che non ha mai usato. Eppure sottolinea: un bacio. E questa parola, mentre la sua voce si dissolve, si fonde con un ridere sommesso, che io avverto come una minima, allegra profezia. Mi chiamano a mille convegni dalle insegne altisonanti che ruotano intorno a una sacra parola che, per lo più, resta senza suono, retorica: la speranza. Convegni sulla "Salute mentale" e "Nuova cultura in psichiatria", su "Quell'insostenibile male di vivere (Depressione, un problema sociale)", sul "Senso contemporaneo del disagio affettivo, vuoto, fallimento e prostrazioni nella collettività". A qualche convegno, vado. E questo, parigino, si trasforma in una "Istruttoria" fra le più aggressive a cui sia stato finora sottoposto. Una sala gremita di illustri psicopompi della psiche, di ogni paese e scuola: psichiatri, psicochirurghi, psicofarmacologi, psicoterapeuti non meglio identificati, psicologi (una quantità, soprattutto donne). Doveva essere un dialogo sereno. Ma sono stati loro i primi a inquadrarmi come un nemico, un plagiato da ben altri mondi dei fenomeni psichici: psicocinesi, psicofonia, psicometria, psicovisioni, psicoscrittura, tutto ciò che in metapsichica è conoscenza paranormale dei soggetti Sensitivi. Il che, nel mio caso, è inesatto e limitativo. Gli ho risposto, con cristiana condanna: «Psicopompi!» Spiegando che, nella mitologia greca, questo epiteto di divinità designava le funzioni di guida verso le anime dei defunti. Mi hanno trascinato a parlare del caso di mia madre. E io non mi sono sottratto alla provocazione, per verificare fino a quali veleni ultimi essa possa arrivare, e lo sto verificando. Li martello con una parola che ancora mi agghiaccia: Elettroshock! «I vostri elettroshock! » grido, nel chiasso generale. «Sono forse mutati dal primo dopoguerra, quando mia madre si ammalò, e lei, e tante altre povere donne nella sua condizione, vi venivano sottoposte? Quando voi cercavate di guarire quelle malate nell'anima provocandogli una crisi convulsiva mediante corrente elettrica?... » Qualcuno si degna di rispondermi: «Bini e Cerletti misero a punto la terapia elettroconvulsivante mentre gli psichiatri erano del tutto disarmati nei confronti delle malattie mentali. Lielettroshock si rivelò un metodo di cura notevolmente efficace in varie forme nevrotiche, specie a sfondo depressivo... » «Erano sedie elettriche! » continuo. «Spesso con le cinghie lente, che incrinavano le spine dorsali. Mi ricordo quelle file di donne, in cliniche di corrotti tenutari che approfittavano del loro essere umili, ignoranti del loro male, costrette a pagarsi con sacrifici enormi quell'accesso a vere e proprie macchine di tortura... Le ricordo aspettare nei corridoi, prede di infermieri resi amorali e cinici dal trattare i pazzi, o nei cortili, nella nebbia o nel freddo, ammucchiate come passeri dentro i cappotti. Simili alle ebree verso le camere a gas, perché erano camere a gas, senza nemmeno la mostruosa consolazione di andare a farla finita... E la loro sensibilità, i loro nervi, che avrebbero potuto essere guariti dalla grazia, venivano violentati in modo irreversibile, e il loro cervello, sballottato e stordito come un uccello in una gabbia fulminante, perdeva ogni contatto col mondo! » Si alza uno, e poi un altro. Altri: «Ha mai riflettuto con la dovuta lucidità, il distacco necessario, sul male di sua madre? E' un caso che ci interessa enormemente perché è un simbolo perfetto del Male, con la maiuscola, che sta avvelenando il mondo di oggi... Rifletta! » Quanti interrogativi, da questa nota. Cosa accadrà, di così drammatico e vergognoso, tanto da aver spinto Miriam a una precognizione piena di angoscia? Miriam è in contatto con Franz? In effetti, dopo la morte della madre, egli si è isolato in una solitudine assoluta. Franz, al telefono, afferma decisamente il contrario: di non avere notizie di Miriam da molto tempo. E dal tono della sua voce, gli credo. E allora? Quando Miriam se n'è andata, Franz era appena stato prosciolto, a dispetto del Sostituto Procuratore e grazie a un alibi fragile, nell'inchiesta sull'omicidio del professore di lettere, omosessuale, assassinato in uno stabile dietro Stazione Termini. Aspetto ciò che deve accadere. Non mi resta altro. 4. Tano, ogni volta che viene a trovarmi, mi porta il suo buonsenso e la sua saggia ironia, anche a proposito di Miriam. Lui è un uomo che vola, se gli gira il capriccio, ma, per il resto, è un tenace assertore del pratico e, come ho già detto, un adoratore dei piedi ben piantati a terra: «perché quella donna non ti telefona?» mi chiede, sbrigativo. «Basterebbe prendere un telefono, parlarti direttamente, che ci vuole, scusa?... Sarebbe anche giusto, direi, dopo il rapporto che c'è stato fra voi.» Tano ha il bene di farmi sorridere e di mettermi di buonumore persino nei momenti meno favorevoli. Convengo con lui: «Già. Sarebbe così semplice.» «Appunto. perché, allora, questo giocare di prestigio?» «Una ragione c'è, Tano. Ma se io te la spiego, poi tu non ci credi. So bene come sei fatto.» L'amico mi scruta, dubbioso. Gli leggo negli occhi una certa luce che mi ricorda gli investigatori dell'"Istruttoria". Infatti, insinua: «Miriam l'ho conosciuta, e apprezzata anche. Ti ha voluto bene e ha aiutato te e tua madre. Ma il fatto è che, dopo averti lasciato solo, di te si è dimenticata. Un'esperienza chiusa. Succede. Tanti uomini, tante donne, la maggior parte... Anch'io, lo sai bene, cerco di non ricordare, mettendoci un impegno da certosino, che è esistita una moglie cannibale che mi ha rovinato la vita per anni... Ma tutto il resto te lo inventi tu, sono menzogne tue. Per illudere chi continua ad avere affetto per te. Per illuderti.» Lo ha affermato con una nota, appena percettibile, di disagio amicale, come a chiedermi scusa, perché la certezza che io sia un mentitore nemmeno lui ce l'ha, e teme di offendermi: «Sbaglio, forse? perché mi guardi così?» «Proprio tu, Tano, amico mio...» e il mio sorriso si fa più pieno. «Che sei come Ruggero che si alza in volo sull'Ippogrifo, perché il mago Atlante lo esige...» Tano pensa subito a qualche mia conoscenza, magari spiritosa, che gli ho tenuta nascosta: «Chi è questo Ruggero, scusa?» «Un tale... Un tale che vola, anche lui. E ci sarebbe anche Astolfo. Per non parlare di Orlando, che spesso ha un gran brutto carattere, ma resta mirabile.» Tano, infatti, si risente un poi: «C'è una parte della tua vita da cui mi escludi, e ciò non è bello... Io, i miei amici, te li presento, perché sono divertenti e so che ti rallegrano l'umore. Tu, invece, i tuoi amici te li tieni per te, e magari gli sei affezionato più che a me... Questo Ruggero, questo Astolfo, questo Orlando, sono perlomeno divertenti? O sono quelle facce smunte di intellettuali con cui spesso ti compiaci di far tresca, annoiandoti a morte?» «Sono geniali» gli rispondo. «E hanno incantato un sacco di persone. Grazie a un altro amico mio, che si chiama Ludovico...» «Delle parti tue?» «Esatto. Di Reggio Emilia...» «Lo vedi? Voi dell'Alta Italia, quando fate combutta, vi considerate dei padreterni.» «Amo anche te, Tano, che sei di Colle Romano, e Alessio, che non si sa di quale meridione sia, forse del meridione del mondo, e non ha certo nulla della combutta nordica.» Tano si rabbonisce. «Me li farai conoscere, un giorno, questi amici tuoi, che hanno la mia stessa disgrazia o, come dici tu, lo stesso dono di Dio... Di volare come volano i sogni?» Suona alla porta il giudice. Prima era soltanto il giudice di tribunale responsabile della causa di separazione da mia moglie Marta; ora, è anche mio giudice di vita, perché mi è diventato sinceramente amico. Un altro amico, non meno singolare degli altri. Esistono persone con cui riusciamo a combaciare subito; per quanto mi riguarda, si tratta per lo più di tipi bizzarri. Fin dalla prima udienza che ci portò di fronte, il giudice cap" la mia solitudine, sulla quale sintonizzò la sua; non si lasciò condizionare dalle accuse che mi venivano rivolte come marito, e afferrò, del mio matrimonio nevrotico andato a monte, certe ragioni inconfessate, in particolare le mie angosce depressive, rimaste ignote a Marta che, su di esse, non ha mai accettato un dialogo. Mia moglie si sbrigava: «Se sei matto, fatti curare.» Non gliene voglio, perché so che ha agito non per disamore, ma spinta piuttosto da una mentalità squadrata, da isolana dalmata: chiusa, per vocazione ed educazione, ai labirinti sfuggenti del cervello umano, da cui si generano azioni e, in pari misura, omissioni, facili ad essere equivocate. Sono le otto del mattino. A quest'ora, io non connetto. Lui invece, piccolo, coi baffi ben curati, appare arzillo, sveglio con arguzia, e già intimamente soddisfatto di qualcosa che gli accende gli occhi neri. Quando gli stringo la mano, mi accorgo che, con cura, si è anche profumato. Gli obietto: «Non potevi capitare in un momento peggiore.» « E' il mio mestiere» ribatte, imperturbabile «capitare nei momenti peggiori della gente, non credi?» La mia causa continua da quattro anni, di udienza in udienza, di rinvio in rinvio. Temo, ormai, che sarà una causa infinita. Come suppongo che il giudice intrighi affinché lo sia, per il timore che possa interrompersi, altrimenti, il nostro rapporto d'amicizia. Ogni volta che mi piomba in casa, per prima cosa lo provoco: «Allora, la mia causa, questa benedetta causa?» «Corre! Corre!» «Ma dove corre, di grazia? Corre da tanto tempo che deve aver raggiunto un punto astrale, essersi perduta nel cosmo, come i miei sogni.» Sorride. Ama i miei sogni. S'incanta, quasi come Tano, quando glieli racconto. Specie il sogno di Las Delicias, che coincide con il suo, mai realizzato. Las Delicias, il piccolo paradiso caraibico dove, gli dico, è sempre primavera, e si può fuggire da questa vita, sparire laggiù, a vivere un'eterna primavera; dove si è avvolti da giardini che hanno colori di una delicatezza d'alcova, rose che si affollano più carnose e fiammanti delle rose purpuree del Cairo, ed esistono alberghi pieni di stanze in cui si consumano amori favolosi... « E' là che dovresti fuggire, amico mio, dimenticando i tuoi tribunali.» «Ci fuggirei all'istante. Ma come posso, se non mi dici dove sta?» Non glielo rivelo, infatti. Ho anch'io i miei buoni intrighi da far correre, affinché il nostro rapporto non s'interrompa. A proposito della mia causa, stamani torno a provocarlo: «... E magari non corre, non è mai corsa, magari ristagna nelle fogne di Roma.» Ho letto sul Messaggero, in questi giorni, di malefatte al Palazzo di Giustizia, dove la mancanza di personale provoca il caos. Il titolo del giornale annunciava: "I fascicoli processuali finiscono, in gran numero, nelle fogne e nella spazzatura": «Confessalo» lo incalzo «che come marito sono finito nella spazzatura. Forse meritavo qualcosa di più, il macero magari; ma almeno, così, ho chiuso per sempre con uno dei miei fallimenti.» «Tua moglie Marta resta innamorata di te, sia pure alla maniera sua, nevrotica e contraddittoria. E questa causa è un alibi, un cordone ombelicale con te, che lei non vuol recidere...» «Ma intanto mi aggredisce.» «Benché non viviate più insieme, e benché continui a compiacersi dei tuoi libri, dei tuoi film, del tuo successo, non riesce ancora ad accettare certe tue "trasgressioni" con le quali non ha mai saputo convivere, inquadrandole per ciò che sono: le boccate d'ossigeno, le curiosità che nutrono un creativo, dove non esistono né malafede, né tradimento.» E così mi butto in mezzo alla gente che mi chiede aiuto. Affondo in un'umanità, a sua volta affondata in problemi e drammi, che non è semplicemente Italia, è il mondo: la speranza e la disperazione non hanno diversità né di patria, né di lingua. Fanno anche lunghi viaggi per farsi soccorrere, portarmi la loro felicità da recuperare, e del loro viaggiare per giorni nella speranza, il segno è il rosso malato degli occhi, che sempre mi tocca come fosse una ferita aperta su di me. Mi lascio guidare, nella scelta dei contatti, dal solito segnale che il mio corpo dà alla mente, raggiungendone il punto più remoto, l'anello di congiunzione col magico: il batticuore, intendo, che provo per un uomo, una donna, che abbiano una coscienza, comunque sia, un senso del meraviglioso, perduto e da ritrovare, simile al mio, un identico orrore per psicoterapie divenute ormai abitudinarie, e antidepressivi, farmaci inutili: "pasticche che non capiscono niente" come un giorno mi ha detto, con candore, una donna semplice. Allora, quei casi umani diventano miei, miei i disturbi affettivi e le depressioni altrui, e il dolore, la follia, la grazia testarda dell'anima che spinge a credere che possa cambiare la realtà del male che la offende. «Si può?» insistono. «Si può stare meglio?» Con la gola stretta, una stanchezza del cuore che si è tramutata in stanchezza delle ossa. E' una moltitudine, e cresce: «Si può?» In un mondo che offre sempre di meno, nella vita sia dei sentimenti che delle verità. Sì, è possibile. E in frequenti casi lo dimostro. Quando non è sufficiente il mio intervento, li metto in contatto con i Sensitivi Maggiori che, in un recente passato, hanno aiutato me e mia madre. Ne ho esperimentato, in prima persona, l'attendibilità e l'efficacia. Strappo, così, vittime designate ai ciarlatani della magia artificiale: truffatori, affaristi, solo promesse e denaro in cambio di nulla. Gli amici che hanno aiutato me, quando li interpello per qualcuno, sono pronti con il loro credo: "Ritrova il sorriso del corpo, della mente. Il senso del magico è anche ineffabile sorriso". Affronto, continuamente, le due facce opposte del dramma. Passo da chi la depressione ha reso assassino degli altri - e ci sono anche ragazzi, squilibrati, invasati, che hanno assorbito come spugne la degenerazione psichica dell'ambiente che non si è curato di loro - a chi, per depressione, ha ucciso se stesso, chiudendosi in una prigione di vuoto, di fallimento e frustrazione. Grondo di un'umanità tormentata, e spesso torno a casa stremato come quando, giovane cronista di nera al Messaggero di Roma, rientravo nelle pensioni all'alba con i vestiti impregnati dell'odore del sangue: per risse, omicidi, suicidi. Ma quale letizia quando qualcuno che mi chiede aiuto raggiunge davvero la serenità, a volte persino quel tanto di felicità. Se ciò non accade con me, assisto alla scena dell'amico Sensitivo che, operata la guarigione, si stringe al petto la testa dell'uomo, della donna che egli ha accolto tramite mio. E' come una rappresentazione sacra che arriva a un momento finale di indicibile bellezza, fra i più alti dell'amore umano. Le due creature vivono il trauma positivo del passaggio del male dall'una all'altra che lo assorbe, lo vanifica, con un'immedesimazione totale. Poi i due si abbracciano in modo diverso, quasi fossero amici da sempre, ignorando quell'io sofferente e disfatto che si è dissolto nell'aria. Quattro mesi di suspense: che ho subito e, al tempo stesso, cercato. Dai primi di gennaio ad aprile. Il periodo finora più sconcertante da quando è iniziato il mio "contagio magico". Ho annotato tutto: episodi, personaggi, esperimenti, le situazioni in cui ho persino rischiato la vita. Nella solitudine, la depressione tornava a farsi minacciosa, col pericolo di provare di nuovo la morbosità demoniaca di isolarmi e rompere ogni rapporto. Vivere le mille vite altrui poteva impedirlo, salvarmi? Esposto il suo caso, Giulia J. non aggiungeva altro: in particolare, nessuna richiesta di aiuto. Non c'era indirizzo. Non c'era telefono. Stavo per archiviare la lettera, quando quel batticuore mi ha avvertito. Era un segnale forte, insistente. Ma di cosa voleva avvertirmi? Subito si è insinuata una sensazione stranissima. Toccando la busta, era come se passassi la punta delle dita su polpastrelli morbidi e quella busta si trasformasse, concretamente, in una mano femminile che restituiva, alla mia, una carezza. Riuscivo, da rabdomante, ad avvertirne il calore del sangue e, insieme, quel senso impalpabile di seta che trasmette la pelle di una donna che sa che anche sfiorare è un'arte. Di conseguenza, coglievo la grazia che Giulia dichiarava di aver perduto con la morte del padre. E, mi pareva, la sua sensualità... Era un fenomeno del tutto nuovo. Nei giorni seguenti, ho sfiorato spesso la busta verde. Stavo, davvero, toccando una persona. Sono arrivato a stringere la busta nel pugno. Esattamente come se stringessi la mano di Giulia J. La seconda lettera verde è arrivata dopo una settimana. Di nuovo, la firma con la sola iniziale del cognome. E nessun indirizzo. Nessun telefono. Ma lo scritto conteneva elementi che accentuavano il fenomeno che ho descritto. Giulia dimostrava di conoscere molto bene la mia opera letteraria e, per segnalarmi il suo stato d'animo, cominciava citando la mia poesia che mi è più cara: "Bellezza della farfalla che muore - sulla rovente lampada tenuta accesa - da un uomo insonne fino al giorno: - bruciata impronta del confine - tra il grande sogno e la notte breve. - Bellezza, un senso del nulla, - il solo forse, - che percepisce il mondo - che ci scruta dal fondo del suo specchio - dove riflette solo chi ci manca". La busta conteneva anche la prima pagina strappata da un mio libro, con una dedica di mio pugno: "A Giulia, sperando un giorno di rivederla". Mi era capitato di incontrarla, dunque, questa Giulia. Ma la dedica, tracciata con evidente mano frettolosa, era di quelle che si fanno, per compiacenza o per una momentanea attrazione, nella piccola folla che si forma dopo una conferenza o in qualche circostanza ufficiale. Non poteva servirmi quel granello come portato da una montagna di sabbia. Per quanto mi sforzassi, infatti, non suggeriva nulla alla mia memoria. Sono rimasto stupefatto leggendo le righe finali: "Ci vedremo. Ci incontreremo di nuovo. Ma solo a una condizione: se queste mie lettere riusciranno a restituirti il desiderio e la naturalezza di viverlo davvero un nuovo rapporto con una donna. Essi si sono spenti in te, come in me si è spenta la grazia della danza." Come faceva, Giulia, a sapere che stavo affondando nel sentimento del grado zero, perché esiste, per quanto paradossale, anche un sentimento della caduta dei sentimenti: tormentoso, controverso, fatto di rancori e di rimpianti, che solo per approssimazione può definirsi una ventata acre di misoginia, provocata dalla delusione e da una solitudine morbosa di se stessa? Vi ero affondato, ripeto, fino al punto di diffidare dell'intero genere femminile, che vedevo capace solo di fraintendere; di essere attratto dall'apparenza maschile ignorando certi valori, anche quelli della sessualità, se non esposti in superficie; di cambiare pensiero, per capriccio, da un giorno all'altro. Giulia aveva ragione. Le sue lettere verdi addolcivano, d'improvviso, la mia solitudine. Ma mi rifiutavo di ammetterlo. Mi imposi persino di non aspettarle più, quelle lettere, benché, in una parte inconfessata di me, le aspettassi con ansia. Esse tardavano ad arrivare. Forse, mi dicevo, non sarebbero arrivate più. Era stato soltanto un breve inganno. E fu con questa malinconia per quella che immaginavo e percepivo la "delicatezza" di Giulia J., che una notte presi la macchina per uscire da Roma, a caso. "...mio padre lasciava la motocicletta rossa davanti a casa nostra, per farci capire che era nei pressi, ma non si sarebbe degnato di entrare nemmeno per un saluto. Io uscivo, toccavo il sedile che conservava la fossa del suo corpo, e rovesciavo a terra la motocicletta... Poi aspettavo che lui ricomparisse. E col mio silenzio, la mia mancanza di paura, lo sfidavo a punirmi per ciò che avevo fatto. Mi scrutava, quindi sollevava la motocicletta e scompariva nella polvere..." Il ragazzo sta rievocando un episodio che riguarda non la sua vita, ma la mia. Un episodio della mia vita! E io l'ascolto parlare, con la mia voce, di mio padre, negli anni in cui non voleva sposare mia madre, per il culto della propria libertà di aviatore spericolato e di sovrano delle motociclette rosse, infatuato delle donne infatuate di lui, del loro numero e della loro disponibilità: Mario l'incantatore che non voleva farsi mettere al laccio, e io avevo cinque anni, ma di quel periodo conservo bagliori di memoria vivissima... Scruto i presenti. Nessuno parla, fa un cenno. Anche il Sensitivo mediatore non mi degna di uno sguardo, lascia che l'esperimento continui come se non mi riguardasse affatto. E forse, mi dico, è questo che sta accadendo: il rito dell'evocazione, come capita abbastanza frequentemente, ha ottenuto l'effetto di sdoppiarmi, facendomi spettatore-evocatore e, insieme, destinatario. Ossia l'adolescente, mentre continua a rivolgersi ai propri genitori e ai presenti con un messaggio che ora mi sfugge, dalla cui registrazione sono escluso, si rivolge al contempo alla mia persona con un secondo messaggio particolare. Si tratta di una scena che veramente accadde: di quando mia madre faceva le poste a Mario l'imprendibile dalle donne, ed è stato mio padre a raccontarmela un giorno con spiritosa amarezza, per farmi capire quanto si può essere assurdi e sciocchi in gioventù, e a volte crudeli: ... quello è mio padre in una giornata d'inverno con la neve molto alta. Passa in moto, imbacuccato, e non avvista mia madre. Non c'è traccia di donne sulla distesa immacolata e, dietro la sciarpa indurita dalla brina, egli tira un sospiro di sollievo. E' di una tale pienezza, il suo senso della libertà, che fischietta nella sciarpa che gli sbatte sul naso, e si dice: "Adesso faccio un voto e vado a portare due fiori ai miei poveri morti. Vado, così i miei morti mi perdoneranno per il male che faccio a Lisa." Prima di entrare nel cimitero della Tedolda, il centauro che ha vinto una volta la Milano-Taranto, si concede qualche svolazzo acrobatico sul ghiaccio, sotto il nevischio della sua libertà, trovandosi imbattibile. Quindi irrompe fra le tombe tracciando una scia che a nessun altro riuscirebbe. Lasciata la moto, avanza coi fiori stretti contro il giubbotto di pelle nera. Sugli occhiali, la neve crea figure acquose. Perciò, all'inizio, egli pensa: non può essere, è uno scherzo degli occhiali, come faceva a sapere, Lisa, che mi sarei fermato qui alla Tedolda, e proprio stamattina? Ma, sollevati gli occhiali sulla fronte, Lisa è sempre là che cammina adagio sotto i portici, a tratti battendo i piedi, per scrollarsi la neve. Allora mio padre si lascia andare su una tomba. E senza chiedersi perché, affonda le braccia. Getta via neve su neve, e quando trova il marmo gli sembra di scavare anche quello con le unghie. E mia madre lo accosta. Ritta dalla parte opposta della tomba, lo guarda, con la sua serenità, scavare e scavare. finché lui non ha le dita che colano sangue. Se le scruta come se non fossero sue, riconoscendo: "Neanche i miei morti mi vogliono." Si solleva, dimenticandosi della motocicletta. Più non capisce da che parte stia il cancello. Affonda nella neve ora a destra, ora a sinistra. E mia madre ferma - mentre lui le gira intorno - col suo peso da nulla, sospesa sulla coltre dentro il cappotto col collo di pelliccia. Mio padre crolla ai suoi piedi, sprofondando con le ginocchia, l'abbraccia ai fianchi e abbandona la fronte contro il suo ventre, nel punto da dove io sono nato: "Perdonami" le dice. E poi: "Io ti sposo... Lisa, Lisetta...". Tornavo a toccare le mani di Giulia, strette al volante, che ora mi guidavano verso una dolcezza riconciliata con la natura, e chissà perché pensavo alle mani di mio padre: grandi, callose, pale da mulino, lui dice ridendone, eppure capaci di delicatezze. Quando mio padre ha capito di essere scampato alla morte, esse sono scivolate sopra le mie con un pudore che le ha rese due piume; ho immaginato la prima volta che si sono insinuate nel sesso da cui sono nato con la medesima grazia della resurrezione. Giulia ha rotto il silenzio, chiedendomi d'improvviso: «Provi qualcosa per me?» Ho risposto con la semplicità che lei ama: «Sì.» «Cosa?» «Un'attrazione profonda, fin da quando sono cominciate ad arrivare le tue lettere. Un bisogno, anche sensuale, della tua delicatezza...» «Perciò faresti l'amore con me. Se ora ti invitassi a casa mia, e ti dicessi chi sono realmente, tu...» «Sì.» Mi ha fissato: «E allora come si giustifica la misoginia che non risolvi, che lasci incerta fra rifiuto e attrazione, dove ti hanno spinto i fantasmi dell'assenza di Miriam e di tutte le donne che valevano qualcosa e ti sei lasciato sfuggire?» Di nuovo, Giulia aveva ragione. Riconoscevo il compiaciuto culto di una solitudine che mi faceva orrore. «Un tempo» ha continuato «la tua curiosità, la tua sensualità erano sfrenate, e l'eros il tuo consolatore, e il desiderio la misura del tuo sentirti vivo. Per tutto questo sei stato frainteso, da tua moglie prima che da ogni altra, perché non era bassezza carnale, ma l'opposto: la meraviglia per i corpi che vivono, compreso il tuo, che non ami più, e la gioia di creare attraverso la magia dei corpi, non dei fantasmi...» «Che dovrei fare?» «Dai una carica nuova alla tua curiosità anche con le donne. Ti senti in credito col mondo femminile, e a ragione; ma a quel mondo devi pur qualcosa Perché ti ha dato provocazioni memorabili e ti ha aiutato a capire la vita... Quel mondo è stato, e resta, la dimensione privilegiata della tua ricerca.» «Ma con che spirito, Giulia? Potrei essere, semplicemente, un bersaglio. O un mezzo, come Sensitivo. Magia ed eros ferito, complicato, inquietante... La magia sessuale può essere un grande aiuto per molte donne.» Ne sorridevo con amarezza. Ma Giulia ha insistito: «Prova. Non pensare, per ora, ai sentimenti. Accetta di essere il loro feticcio, il loro mago, se necessario. purché tu ti apra a ogni possibile provocazione dei sensi... Attraversa questa foresta femminile come attraversavi la foresta intorno al monastero di Tashi, quando scoprivi che in nessun altro posto al mondo splendore e orrore erano così indissolubili, in un gigantesco ventre che partoriva con un eccesso inesauribile... Parole tue!» «E poi? Che succederà, poi, Giulia?» «Ti libererai, comunque, dei tuoi fantasmi. Sarai costretto a trattare di nuovo col tuo corpo, e il tuo vuoto si affollerà di corpi. Sparirà, il tuo vuoto. Come potresti, altrimenti, compiere ciò che ti sei proposto, ultimare lo stesso progetto narrativo a cui stai lavorando?... Sistemerai con te stesso, comunque sia, i conti che devi. E dopo... Il dopo si vedrà. Potresti abbandonarti al gusto morboso di uscire di scena, persino di sparire, avendo magari l'ultimo applauso.» «Sarà questa la conclusione?» «Dipenderà da te.» «E noi due?» «Ci rivedremo quando potrai aiutarmi, e anch'io potrò darti qualcosa: un poi di pace e di delicatezza, come dici tu, un delicato modo di goderti la vita, senza più obblighi assillanti, né drammi tuoi e altrui... E a volte basta allontanarsi dalla città, come abbiamo fatto oggi, per respirare aria di campagna... O un viaggio, fatto serenamente, senza inseguire magie o riti o incontri con angeli e demoni... O un sonno degno di questo nome, anch'esso profondo, senza l'obbligo di sogni che abbiano un significato: con una donna, nel tuo letto, che sia vera in ogni senso, di cui sentire il calore, svegliandoti, toccandola...» "Abbiamo aiutato a guarire una ragazza drogata. Le prime volte veniva a trovarmi, si sedeva da una parte col suo portamento altero che nascondeva una natura dolcissima. Mi fissava, senza speranza. Ma continuava a fissarmi per dichiararsi disponibile, pronta a qualunque forma di aiuto. Ricordi e pensieri disparati si affollavano in me, mentre le ricambiavo lo sguardo. Mi sono ricordato di una pagina che, anni fa, ho scritto sull'imperatore Federico all'assedio di Parma, prima della sconfitta. E' stato il portamento della ragazza a riportarmela alla mente e, leggendo in quegli occhi fissi e atoni, mi è sembrato che non ci fosse similitudine più adatta a un senso di cristiano sbigottimento: La neve era grande. L'imperatore cacciava fin dall'alba e la brina gli incrostava il viso, gli circondava gli occhi immobili. Egli non distingueva più lo zufolo della guida dal fischiare del vento che colmava la pianura di creste nevose come un mare sotto raffiche radenti. Né più distingueva, per la stanchezza e la disperazione, le casacche scure dei suoi barbari cacciatori dalle ombre volanti degli uccelli di posta, degli astori e dei falconi che tenevano alle zampe i campanellini d'argento. Inseguiva il nulla affondando sempre più e sperava che almeno una preda si alzasse. Ma nemmeno l'occhio di una volpe brillava sulla neve. L'imperatore cadde a faccia avanti e desiderò morire soffocando nella neve...". Ho rivisto la ragazza guarita. E stranamente un altro ricordo mi ha riportato a Parma, quando la madre di mia madre mi conduceva nel Duomo, di mattina presto, per assistere al sorgere del sole sulle figure della Deposizione di Benedetto Antelami. Mi diceva: "Aspetta". E lentamente, su quel groviglio di forme oscure e addolorate, cadeva l'oro di un raggio solare che tutto faceva risplendere, fino all'esultanza. La guarigione! Ti scrivo questo per farti capire che, inoltrandomi nella "foresta", si risvegliano immagini perdute nella memoria, come quando imbocchi a caso una stradina, senza badarci, e via via ti ricordi che, là, hai vissuto un momento della tua vita. Magari una passeggiata serena, in una mattina di primavera. Il raggio di sole sulla Deposizione antelamica mi ha illuminato per giorni... 5. Queste donne che io chiamo del vuoto e della bile rossa, rappresentano il tratto più squallido della foresta, il più battuto da un vento freddo e gremito di foglie secche. Sono per lo più giovani, giovanissime, o simulano una gioventù perduta, con espedienti patetici. Le ragazze portano capelli a criniera, come segnali animaleschi, giubbotti pieni di seno, calzoni attillati. Sono oppresse da una vacuità di cui ignorano tutto. Possiedono corpi invadenti, ma se li sentono addosso esili, incapaci di occupare spazio; soffrono di questa riduzione progressiva di ciò che forma la loro consistenza, sia corporale che psicologica. Si toccano in continuazione per certificare di avere almeno, dentro il vuoto, la tangibilità di una cosa. Ridono, con un riso che risuona di un vuoto sepolcrale, se gli spiego che l'accidia è il distacco dell'anima da Dio, e Dante affonda gli accidiosi nella palude stigia, pronunciando una condanna altrettanto inesorabile contro gli ignavi: "Questi sciagurati, che mai non fur vivi". I loro sguardi splendono di una cieca crudeltà, mentre tentano di occupare il nulla affollandolo di oscenità, con l'istinto cannibalesco di ingurgitare l'anatomia dell'amante. Capisco perfettamente che, spinte dall'antropofagia sessuale con cui si illudono di colmare i loro gusci di conchiglie svuotate e lasciate sulla spiaggia dalla risacca, vorrebbero inghiottire anche me. Ci provano. Per queste donne che vengono a scoprire come fa l'amore il personaggio noto, il taumaturgo, io rappresento l'idolo da dissolvere. Penso alle parole profetiche di Giulia: "Accetta di essere il loro feticcio, se necessario. purché tu ti apra a ogni possibile provocazione..." Non è curiosità, la loro, ma la bile rossa degli antichi alchimisti: la sete di sgretolare gli esseri viventi, come statue di sale, nel proprio vuoto dell'anima. Le vedo chine sul mio corpo che scrutano con l'occhio dell'entomologo, servendosi della più scontata gestualità erotica per sollecitare, e poi registrare, anche la minima reazione dell'insetto. Ogni comportamento, ogni erezione del partner vengono passati al microscopio e saranno, l'indomani, spunti delle loro telefonate fra amiche. Pur mantenendo nella docilità una sua fermezza, Giulia ha sopportato il mio carattere, ha saputo impedirne, con tatto psicologico, le impennate e i salti di umore; ha amministrato il mio bisogno di evasione e la dolce morbosità del mio mondo segreto. Ha organizzato brevi, ripetute vacanze in luoghi sereni. E io mi sono abbandonato, finalmente. Mi è stato facile simpatizzare con suo figlio, il piccolo Giacomo, trasferendo in lui una sete di paternità che non ho mai potuto soddisfare. Giacomo mi si è affezionato, e ora vede in me una figura, più che paterna, amica. Non avevo mai giocato con un ragazzino. Mi è piaciuto giocare con lui, portarlo alle partite di calcio, ascoltare con pazienza le sue confidenze intelligenti e le sue riflessioni già mature sul padre: un professore universitario che Giulia, dopo una relazione tempestosa a soli diciassette anni, si è rifiutata di sposare. Un periodo lieto. Non certo una stasi. Il mio batticuore, ad esempio, è tornato puntuale, a tratti, svelandomi segreti e piccoli eventi futuri; ma solo nei confronti di Giulia. C'era da cancellare, anche da parte mia con tatto psicologico, il suo trauma subito con la morte del padre, facendole conquistare una nuova confidenza col suo essere e con la sua passione più grande, la danza. Ho impiegato i miei poteri. Ho provato una rara felicità il giorno in cui l'ho scoperta davanti allo specchio. Nella sua prima lettera, lei mi aveva scritto: "Non riesco nemmeno più a guardarmi allo specchio, che pure fu il mio confidente migliore. Mi bastava ballare in solitudine davanti allo specchio per dialogare con me stessa". Stavo per entrare nella camera, ma mi sono arrestato. Giulia era là che si sfiorava i tratti del viso, come se le fosse riapparsa una persona cara dopo tanto tempo e la salutasse in silenzio, riconoscendone il sentimento che le univa come un cieco che legge coi polpastrelli nelle linee di una fisionomia. Esitava. L'ho incitata fra me: «Non temere.» E lei ha preso a truccarsi quei tratti. E i piccoli tocchi su se stessa erano le parole di un dialogo che riprendeva. Un dialogo che la illuminava di sorriso, mentre la mano le tremava per un'emozione evidente. Né la bellezza fisica di Giulia, né la sua gioventù, mi hanno creato sensi di estraneità. Al contrario, ci ha legato un'attrazione carnale fatta di immedesimazioni profonde: vivo il suo corpo avvertendone medianicamente, con la medianità che a volte accompagna il desiderio, un'identità biologica, magnetica. E' il concetto dell'amore che cercava di trasmettermi Mara: un uomo e una donna si attraggono e si innamorano quando esiste, fra loro, una memoria genetica comune. Perciò non mi stanco di fare l'amore con Giulia. Abitare il suo corpo, essendone abitato, è come trattare coi miei pensieri, le mie fantasie. Con Miriam, certamente, non era diverso. Ma Giulia non possiede facoltà paranormali, solo piccole magie, se così possono definirsi, naturali, ed è questo che rende singolare il nostro rapporto. Grazie all'età, inoltre, lei dispone di una straordinaria freschezza dell'istinto, con cui conosce e pratica, della femminilità, l'arte che stimola con la voglia di vivere e, al tempo stesso, inquieta con le sue malizie. Con una forma tutta sua di candore disincantato, riesce a provocare, come ho detto, il lato occulto e morboso della mia sessualità. Si dichiara fedele, ma se ama sinceramente; racconta di essere stata fedele a tre uomini, e quando con loro è finita, di essersi concessa a rapporti disparati e occasionali: per amarezza, curiosità, disprezzo di sé e degli amanti, civetteria viziosa. Fra un amore e l'altro, Giulia si è data a molti uomini. Apparentemente svagata, e a caso, fa cenno a nomi, a particolari di quelle avventure, oppure, durante una cena con più persone, è capace di indicarmi, con un sorriso: «Quello mi ha avuta». Mi ha stretto il polso: «Come la volta che mi hai detto: andiamo a Parigi. Ti ricordi? E' stato bello, a Parigi. La Mostra del Bacio...» Ora la lettera la leggevo io. Conteneva l'invito a un viaggio; anzi, al viaggio: quello di cui Miriam mi aveva sempre parlato, nel solo posto della terra dove Dio si può vedere davvero, e che non ci era stato possibile perché il nostro rapporto si era interrotto pochi giorni prima della partenza... Miriam aveva avuto cura di omettere questo particolare. Né faceva cenno alcuno alla lettera di addio che mi aveva lasciato, al nastro registrato dove mi confermava: "Esiste quel posto. Esiste, credimi. E io ti ci porterò. Qualunque cosa accada, abbi questa certezza: che ci andremo. Ma quando sarà arrivato il momento. Allora ci rivedremo, fisicamente, e sarà il nostro viaggio alla grande luce estrema." Il momento, dunque, si stava avvicinando, e del "fisico" contatto la lettera rappresentava il primo atto. Miriam aggiungeva che, nell'avventura ultima, avrei dovuto portare mia madre, ne parlava come di un pegno, un talismano: "Porta tua madre. Falle conoscere il mondo che tu hai attraversato e indagato, anche con me, nei suoi misteri." Ripeteva l'invito, o affettuoso ordine, che Rol mi aveva comunicato. I due interpreti di ciò che ho definito il mio cuore magico tornavano a esibirsi insieme, come li avevo una volta sognati: scambiandosi i ruoli dell'accompagnamento al pianoforte e del canto al centro della scena. Ma dove mi avrebbe portato quel viaggio? Miriam preveniva anche questa domanda. Le tappe di passaggio le avrei percepite di volta in volta, riconoscendole con quella sorta di radar infallibile che ormai possiedo: il batticuore della premonizione. Esso mi avrebbe guidato alla destinazione finale. La lettera si concludeva con una nota rivolta a mia madre: "Stiamo per incontrarci di nuovo, carissima, e parleremo. Riprenderemo le parole che ci siamo scambiate, allora, per lunghi mesi. Era bello, vero, stare a parlare fra noi?" Sono seguiti giorni di euforia. Mai avevo visto mia madre così lieta: di partire, di poter riabbracciare finalmente la sua amica salvatrice. Non ha fatto che intrattenermi sulla "beltà del viaggiare", come l'ha definita. E mi ha confessato, in proposito, altre cose di lei che ignoravo. Da bambina, quante terre sconosciute aveva attraversato con l'immaginazione! Se ne andava, tutta sola, lungo il Po e si diceva, di un frutteto, questa è la Francia; di un canale di Levante, questa è l'Olanda. E via via spingendosi oltre, incantata da una luce o da un verde pieno di magia o da un cantare che suonava straniero e forse lo era, perché in molti emigravano e poi facevano ritorno come Marco Polo, lei si diceva ancora: il Po di Venezia è la Cina o, chissà, la Persia misteriosa; il bacino di Canalbianco è il Polo Nord; l'Abbazia di Pomposa è tutto l'Oriente. E poi era arrivato il giorno della "Nave di Comacchio", col suo favoloso carico. Il recupero della famosa imbarcazione greca, appunto dalla Laguna di Comacchio. I giornali la definirono una delle più grandi scoperte del secolo. In una domenica di primavera, e fra una folla assiepata sugli argini, la Nave si sollevò dalle sabbie del fondo con mirabili tinte sul blu e sull'oro, installandosi contro il sole che sembrò irradiarla nella volta del cielo. Accecata, mia madre bambina ebbe in quell'istante l'illuminazione del "Viaggio" che, un giorno, senza dubbio avrebbe compiuto. Perfetto lo stato di conservazione, di straordinario interesse il carico di bordo: vasellame prezioso, gemme, scritture, e modellini di templi, che sarebbero rimasti oggetti di culto per gli esperti. Mia madre aspettò che si facesse notte. Fra guardiani assonnati che non potevano sospettare di una bambina, penetrò nella Nave deposta sulla riva, aggirandosi fra le meraviglie che conteneva e sognandosi durante il tragitto che essa aveva compiuto nel suo tempo remoto. La spingeva una forza di cui non sapeva darsi ragione, doveva obbedirle, anche quando condusse la sua mano a rubare un tempio d'Oriente in miniatura: «L'ho sempre portato con me» mi ha confessato. « E' stato il mio idolo, a cui mi afferravo nei momenti più difficili, come tu ti afferri a volte agli idoli di Miriam... Lo stringevo fra le mani e lo supplicavo, come fosse un piccolo Dio: "Aiutami a superare anche questo!".» «Mostramelo» l'ho pregata, con un improvviso turbamento. Invece a lei sembrava impagabile la suggestione della grandine che, magari in pieno luglio, copriva la terra col candore delle grandi nevicate d'inverno: quelle che avevano formato il suo sogno, dopo averle a lungo scrutate dalla stanzetta della neve. Cessata la tempesta, io mi ero avventurato in solitudine. E mi ero girato a un certo punto, di soprassalto, per uno scricchiolio leggero, trovandomi mia madre alle spalle. Per distinguerla nel sole che rendeva il bianco accecante, dovetti scrutarla proteggendomi gli occhi con le mani. La vidi quasi incorporea, con la trasparenza di un'altra dimensione, come un giorno avevo visto la reliquia della santa bellissima, sospesa nel chiarore evanescente della teca, con una traccia rosso sangue all'altezza del petto, una grande rosa purpurea, che la rendeva simile a una farfalla incerta fra il cielo e la terra. Era stata quella visione, dopo una notte di rimpianti per amori perduti, a convincermi che dovevo immergermi, fino al delirio, in una moltitudine umana. Come, ancora, tutto tornava a coincidere... « E' bello» mi sussurrò mia madre «tutto questo bianco dove Gesù ha camminato e parlato con la voce di Dio.» La presi sottobraccio e la condussi, mentre la grandine scricchiolava sotto i nostri piedi, il vento continuava a fischiare rasoterra: «Lo senti? E' il Dio dei venti, dei firmamenti e delle stelle...» E sorrise: «Il vento dell'Omino Alessio, che dà un suono ai nostri passi. Pensare che allora, dalle nostre parti, dicevano che era il fischio del Demonio, invece...». «Invece?» « E' solo un capriccio dei cieli che si placa. La fantasia, quando esplode, è sempre come una grandine fuori stagione. Perciò gli uomini ne hanno paura. Essi temono tutto ciò che non è prestabilito... Come la fede che, secondo me, dev'essere anche invenzione e gioco.» Parlava fissando le acque, alle acque: «Questo vento sul lago, questa musica di note un poi matte... Le senti come saltano, si fermano, riprendono a saltare? Giocano, giocano, le note della fede, argute e un poi impertinenti a dispetto delle leggi del tempo, delle nostre paure. Dio ha una sua eterna fanciullezza nella fede, ricordalo. Guai a prenderlo senza la giocosità dello spirito perché allora siamo noi, il Diavolo.» Il lago di Tiberiade tornava a risplendere della sua immensa pace. La Galilea si segnalava, remota, con un orizzonte di piccole nubi. perché avevo la sensazione - il batticuore, anzi, che durò qualche attimo - che mia madre mi parlasse con parole non sue? E che anch'io fossi indotto a interrogarla con domande che mi venivano da un'altra mente? Le chiesi: «Un giorno, dopo che la vita terrena sarà finita... Ci rivedremo, quel giorno, madre mia?» Scrutava il lago, intensamente. «Ci ascolteremo, forse» mi rispose «come due musiche lontane. Prive, mi auguro, di armonia prestabilita. E io vorrei che tu mi udissi giungere al tuo orecchio come quel poi di vento pieno di gioco, dopo una grandinata d'estate... E vorrei che il posto ultimo dove si arriva, avesse la pace di questo lago...» Poi con serenità, senza alcuna sorpresa, come continuando il discorso, mi indicò sulla destra: «Non è Miriam, laggiù?» Io non vidi che la grandine che si scioglieva nel sole. Il vento era caduto. I nostri piedi tornarono a muoversi in uno sciacquio informe. Quando prendemmo la strada del ritorno, per prepararci a una nuova partenza: l'indomani, presto. 11. Abbiamo viaggiato dai paesi della cultura occidentale a quelli della sapienza orientale, abbiamo attraversato terre delle più diverse religioni, spaziando dagli antichi dèi mediterranei agli dèi dell'India. Abbiamo visitato i paradisi dell'archeologia, con le leggende e i grandi enigmi del passato, i regni delle scienze e dei linguaggi perduti, ma anche i laboratori dove le più recenti scoperte stanno per rivoluzionare il futuro del mondo, svelando molti misteri dell'esistenza, decifrando i messaggi che ci arrivano dall'ignoto e aprendo le porte degli archivi del cosmo. Siamo stati semplici turisti piacevolmente coinvolti e ci siamo inoltrati dove la magia nasconde la sua vera natura, persino il segreto della vita dopo la morte. Ci siamo persi dove si insegna che la felicità si raggiunge con l'arte dell'oblio; ma abbiamo imparato anche a ricordare meglio, insieme, il nostro passato, come abbiamo appreso il ricordo delle altre vite attraverso le quali siamo passati. Abbiamo cercato di arrivare, il più possibile, dove la creatività dello spirito si dimostra degno specchio umano delle meraviglie dell'Universo.