/<1988>/ Tre libri dei Commentari dimostrano com'egli volesse dare all'arte la più larga base culturale possibile: sul piano dottrinale non ha difficoltà ad accettare le nuove concezioni (p.e. la prospettiva) come sviluppo, ma non come eversione delle concezioni tradizionali; sul piano storico, riconosce la grandezza e l'esemplarità degli antichi, ma crede che il miglior modo per conoscerli sia di risalire criticamente alle fonti dalla tradizione che le ha tramandate, e non di cancellarla. Il suo pensiero, nei confronti delle teorie brunelleschiane, è chiaro: la prospettiva ha un fondamento geometrico inconfutabile, quindi è il modo migliore per rappresentare lo spazio; come tale è uno strumento prezioso per l'artista, ma non è detto che scopo esclusivo dell'arte sia di rappresentare correttamente lo spazio. L'arte può avere contenuti conoscitivi (come voleva Brunelleschi) o morali o religiosi o storici, ma deve rimanere arte, cioè sviluppare un'esperienza operativa e ideativa trasmessa dal passato. Ammette che il filo si è spezzato e l'arte è stata come morta per seicento anni; ma Giotto lo ha riannodato e non c'è che seguitare per questa via. Le due grandi tappe dell'evoluzione artistica del Ghiberti sono segnate dalle due porte che ha modellato e fuso per il battistero. La prima (terminata nel 1424) è quella del concorso del 1401 ed era destinata al lato orientale, che era il più importante in rapporto alla funzionalità religiosa, essendo rivolto verso il Duomo. La seconda, a cui attese dal 1425 al 1452, era per il lato settentrionale: «stante la sua bellezza», la seconda porta (detta «del Paradiso») fu collocata nel lato orientale e la prima fu spostata al settentrionale. La differenza tra le due porte è profonda. Nella prima il Ghiberti conserva la distribuzione in losanghe lobate, cioè si attiene alla configurazione della porta di Andrea Pisano; nella seconda le storie sono soltanto dieci, entro riquadri rettangolari. Nel 1401 l'artista considerava la porta come un complemento decorativo dell'edificio; nel 1425 la funzione decorativa passa in seconda linea e la porta è considerata come un insieme di figurazioni storiche. Nella prima, com'è naturale, le scene sono composte tenendo conto della cornice del compasso, identica a quella della porta trecentesca. La cornice del compasso isola un campo luminoso all'interno del quale le scene rilevate formano un nucleo di luce intensificata e radiante: determina cioè una condizione vincolante per la composizione e lo sviluppo plastico della scena. Il Brunelleschi, nel saggio per il concorso, si era ribellato a questa condizione e aveva costruito lo spazio plastico in contraddizione alla cornice; il Ghiberti l'aveva accettata e aveva così dimostrato che la propria scultura aggiornava ma non contraddiceva la struttura spaziale e plastica della tradizione trecentesca. Nel lavoro si chiarifica ed esprime la spiritualità umana, nella spiritualità umana si perfeziona o spiritualizza la natura. Anche perciò l'arte deve spiritualizzare l'intera vita sociale: non solo si vuole che siano arte le dimore, gli arredi, le vesti, gli ornamenti ma anche gli atti della vita quotidiana: i riti religiosi, le cerimonie di corte, le feste, le danze, la caccia, perfino la guerra, i funerali, le esecuzioni capitali. E tutto è disciplinato da regole, da complicati rituali. Dal punto di vista sociologico questo dissociarsi dell'arte dalle antiche finalità religiose per collegarsi alla sfera mondana ha motivi complessi. E' obbiettivamente vero che l'aristocrazia feudale, esautorata dalle prime monarchie nazionali, va perdendo l'antica funzione politica e militare per trasformarsi in una categoria di cortigiani che cerca almeno di salvare le forme e si presenta così come una classe eletta per diritto di nascita, il cui modo di vita ha valore di esempio. Ciò spiega il carattere aulico o cortese del gotico internazionale. Ma quest'arte per la corte è fatta dalla borghesia artigiana, commerciata dalla borghesia mercantile: è la borghesia che accresce le proprie capacità tecniche, estende ed approfondisce la propria esperienza del mondo, aumenta il proprio potere economico, fonda la propria cultura. La visione del mondo espressa dallo «stile internazionale» è fortemente influenzata dalle ripercussioni religiose, politiche e sociali del pensiero tomistico: è questo, col suo fondamento aristotelico, che rimette in valore l'esperienza della natura creata da Dio e la conformità della società alla natura. La conoscenza «sensitiva» è tuttavia soltanto il mezzo di una conoscenza intellettuale, che risale dagli effetti alle cause e da queste alla prima causa. La conoscenza «sensitiva» dà la singolarità delle cose, l'intelletto intende l'essenza universale che le pervade: i due termini sono dunque la varietà degli aspetti o il molteplice, e l'unità dell'armonia che li collega. Principio dell'estetica tardo-gotica è dunque la varietà nell'unità, la relazione del molteplice all'Uno. Il fondamento è naturalistico, il fine spiritualistico. Poiché il bello è l'armonia dell'universo nessuna cosa è perfettamente bella, nessuna è priva di qualche bellezza. Essendo solo parzialmente belle, le cose tendono a realizzare il bello assoluto, a uscire dalla propria singolarità, a liberare il proprio principio spirituale. Il bello non è dunque una forma data, esemplare, invariabile, ma un divenire continuo, un ritmo. Perciò l'arte tardo-gotica vede le immagini succedersi all'infinito, ascendere in uno spazio e in un tempo indefiniti o, meglio, nell'indefinita estensione e durata. Si delinea così, fin da allora, l'antitesi dì una concezione dell'arte come conoscenza oggettiva e visione del mondo e di una concezione dell'arte come espressione soggettiva dell'interiorità individuale: quella cioè che, molto più tardi, si preciserà come antitesi di una concezione classica e di una concezione romantica dell'arte. Il Pollaiolo esordì come orafo, e fu pittore e scultore, né mai sconfessò, al contrario, la sua origine artigianale: è, questo, un aspetto della sua polemica «fiorentina», ma è anche la prova che per il Pollaiolo l'arte è ricerca e che nella ricerca artistica, come in ogni altra, è essenziale il modo della ricerca, la tecnica. La sua duplice attività di pittore e scultore non si spiega con la versatilità dell'ingegno, che è ancora un aspetto dell'universalismo, ma col bisogno di procedere nella ricerca lungo due binari operativi diversi, verificando gli atti di una tecnica con gli atti dell'altra e assumendo come punto di riferimento la radice comune dei due processi, il disegno. Tra la pittura e la scultura del Pollaiolo non v'è dunque identità né parallelismo, ma relazione critica e dialettica. E il disegno non è, si badi, idea o forma a priori: è il furore, l'ispirazione, l'impulso primo della ricerca. Anche in questo senso l'ansia inquieta di disegnare, dal principio alla fine dell'opera, quasi a registrare le continue mutazioni che l'esperienza porta alle idee da cui si è partiti, è un aspetto incontestabilmente polemico nei confronti dell'apriorismo e del dogmatismo formale di Piero. La prima opera del Pollaiolo è il piede di una croce d'argento, del 1457. Nelle tecniche dell'artigianato le tradizioni sono più persistenti; Antonio ha il gusto delle linee nervose e dei profili taglienti, ma alla tradizionale minuzia dell'orafo associa un senso donatelliano dello spazio e della luce. Dello stesso tempo, all'incirca, è il primo dipinto noto: l'Assunzione di Santa Maria Egiziana nella Pieve di Staggia. Perché non sembri anacronistico bisogna scoprirne il senso polemico. La composizione è ostentatamente aprospettica, le figure si agitano sulla superficie, come se le tenesse a galla la densità coloristica e luminosa del cielo; ed ha qualcosa di arcaico, dell'ingenuo ardore dei primitivi nel racconto di fatti miracolosi. Ma è soltanto una stoccata agli artisti filosofi, matematici, «universali»; così poco ingenuo è il pittore che non raffigura la santa ascendente in gloria, ma spinta su a forza dì braccia da una squadra di angeli che si sostengono a colpi d'ala e di gambe, con le vesti agitate e gonfie di vento. La santa è emaciata, coperta dai lunghi capelli come la Maddalena di Donatello; ma non, come quella, distrutta in una sorta di decomposizione. E' anche lo stesso modo di illuminazione: dall'alto e dalle aperture del fondo. Si osservi ora che la grotta è una vasta cavità in cui s'addensa un'atmosfera umida e densa, mentre le erbe e i fiori sono descritti con estrema cura fin nei minimi particolari, con un'attenzione fiamminga che Leonardo ha imparato a Firenze da Hugo van der Goes. Indiscutibilmente Leonardo si pone il problema della relazione tra massimi e minimi: lo risolve da «naturalista», tenendo conto che la natura presenta appunto queste differenze di scala. Ma anticipa anche la soluzione psicologica di cui abbiamo parlato per Bramante, perché parte dal presupposto che la mente umana, anch'essa naturale, è perfettamente in grado di passare da una scala all'altra senza alcun bisogno di ridurre il grande e il piccolo a una media proporzionale. Lo spazio non è dunque una struttura costante, con una sua logica matematica; è l'estensione indefinita in cui s'addentra l'esperienza o si attua l'esistenza umana. La Vergine delle rocce è indubbiamente un quadro «a chiave», carico di significati ermetici: non simbolici, tuttavia, perché il simbolo manifesta, sia pure in modo traslato, mentre Leonardo vuole che i significati rimangano oscuri, adombrati, e visibili siano soltanto le forme: come i fenomeni naturali, che si vedono e certo hanno cause e significati che possono essere indagati e scoperti, ma non sono dati a priori. La «caverna», come risulta anche da vari passi degli scritti, era un motivo che affascinava Leonardo: dal punto di vista scientifico o geologico, ma soprattutto come «interiora» della terra, natura sotterranea o sub-natura, «ricettacolo della vita geologica, dei movimenti enormi nello spazio e nel tempo che costituiscono il suo segreto» (Chastel). Forse i lontani ghiacciai alludono al remoto passato del mondo, ad una sterminata preistoria, che finisce con la nascita di Cristo, quando natura e storia si schiudono ed illuminano (Leonardo è il solo artista del Quattrocento che non creda nel «ritorno all'antico» e non consigli l'imitazione dei classici) e il mistero imperscrutabile del reale diventa un segreto che l'indagine umana può svelare. Le pareti e le volte della spelonca crollano e dalle fenditure irrompe la luce: l'era della vita sotterranea è finita, comincia l'era dell'esperienza. Le quattro figure sono sulla soglia, su di loro è già la volta del cielo. Fin qui tutto, o quasi tutto, è chiaro. Ma perché l'incontro di Cristo e del Battista bambini? Perché c'è un angelo che indica col dito il Battista? Forse è lo stesso angelo che aveva portato l'annuncio a Maria; ma la sua missione mistica è finita, Cristo è nato, ora toccherà ad un uomo dare l'annuncio agli uomini.